German suplex
«Ellis, che diavolo stiamo facendo?»
«Taci, Ulyscemo, questa è una missione impossibile che nemmeno Tom Cruise riuscirebbe a compiere, ma io devo riuscirci, ad ogni costo, ne va della mia più grande amicizia.»
«La tua missione impossibile sarebbe quella di provare a nascondere il tuo metro e una torre di Pisa dietro una panca multifunzione che non ti arriva nemmeno a metà vita, pur di non farti vedere da tuo fratello mentre lo spii?»
«Non sono un metro e una torre di Pisa, come osi! Sono un metro e ottantaquattro, per la precisione.»
«Non osare mentirmi, donna–gorilla.»
«Ok, ok, va bene. Ottantacinque.»
«Corro subito a chiamare quello scolapasta di tuo fratello.»
«Traditore! Ottantasette.»
«Non avevi detto che tu sei tu e così come sei ti accetti e ti ami e cuori e fiori e petali Barbie?»
«L'ho detto ed è vero, ma anche una come me ha le sue insicurezze, di tanto in tanto, soprattutto dopo che è appena stata definita un metro e una torre di Pisa! Non sono certo storta come la torre di Pisa!»
«Lo è il tuo cervello, infatti. Ma mai quanto quello di tuo fratello.»
«Ehi! Lascia in pace il povero neurone di Seb, sta dando il massimo di sé, guardalo!»
«Se mi hai portato qui per assistere al rito d'accoppiamento di un granchio, sarei rimasto a casa a guardarmi qualche programma di National Geographic.»
«Oddio, se persino tu con il tuo menhir al posto del cuore ti sei accorto di quanto sta sbavando dietro a Meg, la situazione è gravissima.»
«Cos'avrei io al posto del cuore?»
«Scusami, hai ragione, mi correggo: non hai un menhir, hai l'intera catena himalayana al posto del cuore, con tanto del freddo glaciale e spietato che si trova sul picco dei monti. Chiunque mai proverà a conquistarlo perderà tragicamente la vita per ipotermia.»
«Fa' poche battute, Ellis, non sono io l'orso grizzly che sta provando a nascondersi dietro uno strumento che è un quarto rispetto a lui, convinto così di non poter esser visto da suo fratello maggiore. Io avrò l'himalaya in sostituzione al cuore, ma tu al posto dei neuroni hai senza ombra di dubbi i cloni in miniatura di quel funghetto allucinogeno che balla.»
«Non riprovare a insultare Bibble!»
«Ah, non si chiamava Belzebù?»
«Bibble! Si chiama Bibble!»
«Sempre con la B iniziano, chi l'ha inventato probabilmente stava facendo un rituale satanico in preda a qualche crisi narcolettica e nel leggere il nome di Belzebù avrà trovato ispirazione.»
«Continua così e ti costringerò a vederti per sette volte di fila Il diario di Barbie. Le animazioni di quel cartone fanno rabbrividire persino me.»
«Sto per commuovermi, quindi affinché tu possa sviluppare uno spirito critico per la tua dipendenza da Barbie è davvero necessario raggiungere livelli simili?»
«E tu quando svilupperai uno spirito critico per quegli orrendi dischetti argentati che hai il coraggio di chiamare sottobicchieri?»
«Ora sono io a notare un'estrema ossessione da parte tua per dei normalissimi sottobicchieri.»
«Te li farò trova–Oh merda, Seb è nella ionosfera.»
Non sto mentendo.
È proprio così.
Siamo ad almeno quindici metri di distanza da Seb e Megan, che stanno chiacchierando mentre lei è sull'ellittica libera e lui, con la sua faccia da granchio scemo qual è, le è al fianco sinistro, a controllare che l'allenamento proceda senza intoppi. Suppongo che siano all'ultima fase, visto quant'è affaticato Meg, il viso a fuoco con i ricci ormai incollati alle guance, la tuta completamente bagnata sulla schiena a causa del sudore e l'aria di chi è sul punto di liquefarsi sul posto. Sono però felice – e fiera del mio mono neurone, soprattutto – di vedere che, almeno al momento, sembra troppo presa dalla sua chiacchierata con mio fratello per preoccuparsi del suo attuale aspetto.
Sono sulla parete alla nostra destra, perciò posso scorgere entrambi abbastanza bene, ad eccezione di Meg quando si volta col capo per rivolgersi a Sebastian, e proprio per via delle comete che quello scemo di mio fratello ha al posto degli occhi, in questo momento, non ho dubbi su quale sia l'argomento della loro conversazione.
«Sapevo che era pericoloso farli incontrare» biascico sottovoce, provando a chinarmi il più possibile col busto dietro la panca vuota, per non farmi notare, ignorando volutamente lo sguardo confuso di tutti gli altri presenti, agli attrezzi circostanti. Ulyscemo, da questo punto di vista, è nettamente più avvantaggiato di me. Si è approfittato della colonna verticale della stazione multifunzionale, proprio alla mia destra, quella che contiene tra due braccia strette i vari pesi da sollevare, per non farsi notare troppo. Non che a me sarebbe servita comunque a qualcosa, visto che supero alla grande anche quella colonna. Maledetti geni Ellis. «Megan non mi ha scritto neanche una volta, ma ero consapevole non l'avrebbe fatto per paura di darmi fastidio, adesso ho il terrore delle perle che Sebastian può aver tirato fuori in mia assenza.»
«Perché li hai fatti incontrare, allora?»
Continuo a fissare Sebastian mentre spiega a Megan le varie impostazioni dell'ellittica nello schermo di controllo. Per fortuna è ancora in fase nerd assoluta per l'allenamento – la sola cosa per cui sfrutta il 100% del suo cervello: l'attività fisica – per permettere al povero, unico e sovraccaricato neurone che possiede di dire qualche stronzata, ma non ho dubbi. Manca poco, pochissimo. Me lo sento nelle cisti delle ovaie.
«Lei non voleva che io mi iscrivessi anche a questa palestra, perché ho già quella al Central» spiego veloce, mentre scruto con giudizio Sebastian che continua a fissare gli orecchini di Megan. Non ho alcun dubbio: quello scemo si ricorderà soltanto di quelli, in merito a tale incontro, forse a stento saprà dirmi che Megan è bionda. «E io volevo assicurarmi che ci fosse qualcuno che potesse sia sostenerla nei vari esercizi che salvaguardarla da eventi... spiacevoli.» La fronte mi si arriccia di sua iniziativa, non appena Seb imposta l'ellittica così che rallenti il ritmo. Stanno per finire, quindi. «Il mono neurone era l'unico a cui potevo affidarmi...»
«Pessima scelta.»
«Non insultare così mio fratello, lo conosci a stento!»
«Non puoi colpevolizzarmi di ciò, Ellis, ti faccio presente che sei la donna–gorilla che in questo momento è pronta a lanciare l'intera panca in testa al suo stesso fratello, mentre lo spia di nascosto, proprio perché teme le perle che potrebbe tirar fuori. E che colui che ho appena insultato è il genio che ha detto di essersi innamorato della tua migliore amica dopo averla appena incontrata, nel giro di circa trenta secondi, solo perché lei ha fatto complimenti al suo tatuaggio e a lui, subito dopo, citandolo testualmente, gli "si è rizzato".»
Dannato Ulyscemo e le sue frecciatine. «Beh, almeno per merito suo ti ho dimostrato che i film Barbie hanno ragione: l'amore a prima vista esiste.»
«Concordo, esiste senz'altro: per coloro che hanno in testa gli stessi buchi di trama e trauma di quei film.»
Lo fulmino con un'occhiataccia veloce. La sua aria perfida e velenosa non è minimamente calata, nonostante poco prima, mezz'ora fa, al mio fatidico quesito su quale scelta prendere, ha risposto soltanto «Resta, tanto ormai sei una sciagura per l'eternità» perché troppo permaloso per ammettere di desiderare e apprezzare il mio sostegno. A vederlo ora che si è lavato e cambiato, con una delle sue mille camice perfette che sono certa collezioni tutte nello stesso armadio – a cui presto darò fuoco – e i classici pantaloni firmati, appare sul serio come un fotomodello.
«Barbie non potrà mai essere un trauma, semmai lo è avere una vipera permalosa come coinquilino.»
«Cosa sarei io?»
«Permalosa e romp–oh no, non mi piace per niente quel sorriso da ebete che Sebastian ha addosso ora.»
Il mono neurone e Megan hanno appena concluso l'allenamento. Meg, sudata e affannata, sta sorseggiando acqua dalla sua bottiglietta in acciaio, con Seb che continua a parlarle con la stella di Natale negli occhi. Lei, seppur ancora un po' a disagio davanti a un omaccione come lui, sembra essersi rilassata rispetto al loro primissimo incontro di poche ore fa. Certo è, però, che si è resa conto di quant'è sudata e affaticata e quindi, adesso, si è auto imposta l'obiettivo di far vedere il meno possibile il suo viso a Sebastian. La conosco così bene da saper riconoscere all'istante le sue tecniche per coprirsi il più possibile: si scioglie subito i ricci nella speranza che le sfinino il viso, trova ogni scusa possibile per guardare da altre parti invece che gli occhi del suo conversatore, e soprattutto...
Si mette addosso l'indumento più largo che possiede per camuffare il suo fisico, lo stesso che aveva abbandonato sul braccio sinistro dell'ellellittica davanti cui si trovano.
In questo caso, la giacca della sua tuta. Una giacca che – ne sono certa – ha volutamente comprato di almeno cinque taglie più grandi di lei.
Di per sé la cosa non mi preoccuperebbe, perché l'unico neurone di Seb non bada mai al vestiario della controparte, non noterebbe neanche se tal persona avesse addosso un costume da ciambella o quei cerchietti che ti fanno sembrare come una persona che ha un coltello da cucina a trafiggerti il cranio da una parte all'altra. C'è però un'eccezione a questa sua legge divina, e tale eccezione si ricrea proprio quando quel povero e solitario neurone che possiede si attiva per l'unica cosa che lo interessa alla follia dopo i ragni.
L'esercizio fisico.
Quindi, nota all'istante anche la giacca.
Oh merda.
Cazzo.
Lo vedo, lo vedo chiaramente, sta per aprire la bocca per commentare la questione giacca con la sensibilità del branco di gnu di Mufasa in una cristalleria. Anche per lui, riconosco tutti i segnali di quando sta per lanciare una delle sue perle.
«Dovrei agire?» Non posso nascondere la disperazione nella mia voce. «O dovrei lasciarli fare? Così Megan capirebbe che scemo è Sebastian, però al tempo stesso non voglio che lui la ferisca senza volerlo...»
«Un peccato che qua dentro sia vietato fare foto, te ne avrei scattata una senz'altro, in questo momento, così da appenderla all'anta del frigo e ritrovare il buon umore ogni mattino, nel ricordarmi di te in queste condizioni.»
«Risparmiami le tue frecciatine, Ulyscemo, anche io posso andare in ansia per qualcosa, per chi mi prendi?»
«Per un orso grizzly nonché spietato assassino di innocenti rompicapo.»
«I tuoi rompicapo non sono innocenti, sono solo frutto del sadismo umano.»
«Quello è il gene della tua famiglia, non ti confondere.»
Sto per ribattere, ma il mono neurone si è spostato abbastanza perché io possa vedere alla perfezione la sua bocca mentre si muove e così l'allerta al cuore si fa massima. Con grande fortuna di tutti, però, Meg si scusa un secondo prima che lui possa sparare la stronzata, per poi allontanarsi per andare a parlare con una delle addette in palestra – una scusa palese per non esser vista nelle condizioni fisiche in cui si trova. Palese a me, per lo meno, di certo non al granchio di famiglia.
Devo assolutamente approfittarne. In fretta, inizio a sfilarmi la scarpa destra.
«Ellis, che dia–»
Ulysses non fa in tempo a commentare, la scarpa è già stata lanciata con una mira formidabile, modestie a parte, sul cranio vuoto di Sebastian. Il mono neurone sussulta, non appena riceve il colpo, ma quando china lo sguardo per terra e trova la scarpa colpevole, il suo primo pensiero è quello di sollevare il capo in alto.
Ne sono certa: ha pensato che è piovuta dal cielo e ora sta guardando il soffitto, confuso, proprio perché non capisce come la scarpa è riuscita ad attraversarlo.
«Seb» sibilo, risollevandomi in piedi e iniziando a sbracciarmi affinché mi veda. Fanculo la figuraccia che sto facendo davanti a tutti e Ulyscemo: sono disposta a qualunque cosa pur di tutelare mio fratello e Megan. «Seeeeb!»
Finalmente, il genio incompreso della famiglia si accorge di me. Aggrotta la fronte nel vedermi dietro la panca multifunzionale, a saltellare su una sola gamba e muovere le braccia come una deficiente. All'istante, non appena i nostri occhi si incrociano, mi assicuro di ricordargli le regole stabilite insieme affinché potesse incontrare Megan, dando così vita alla comunicazione non verbale di noi fratelli Ellis, conosciuta soltanto a noi due e Reid.
"Niente perle sceme" tuono, usando le dita per fingere di chiudermi le labbra come fossero una zip.
Seb si acciglia ancor più, spalanca le braccia in un gesto simbolico che significa: "Ma è scomoda con quella giacca".
Fingo di scrollarmi la polvere dai vestiti: "Non sono cazzi tuoi"
"Ma se la devo aiutare" replica il mono neurone, sollevando le spalle, "devo anche farle presente che i vestiti troppo larghi danno fastidio agli allenamenti" arpiona il colletto della sua maglia fino a tirarlo al massimo, per rappresentare il suddetto fastidio.
"Lei vuole vestirsi così" replico, battendo la mano sul petto, all'altezza del cuore.
La fronte gli si contrae al massimo. "Ma non è vero, si vede che sta scomoda" ribatte, indicando me come se fossi la cogliona della famiglia e non lui.
Apro la mano destra e inizio a martellarvi sul palmo schiuso il pugno sinistro: "Ti picchio."
Lui spalanca la bocca, indignato. "Sono io che picchio te."
Scuoto la testa: "Non hai capito". Inizio a martoriare il palmo destro con il mio pugno: "Ti picchio. A. Sangue. L'anima."
Lui serra la mandibola, sono quasi arrivata a credere che finalmente abbia compreso, ma poi mi guarda severissimo in viso e mi mima con le labbra "Posso chiederle di uscire insieme?" replicando persino il gesto del cuore con le dita di entrambe le mani!
"No! Assolutamente no!" Incrocio le braccia per realizzare una X gigantesca. "Te l'ho detto, devi prima conquistare la sua fiducia!"
"Mi ha chiesto dov'è il bagno, quindi già si fida di me."
"Che diavolo c'entra il bagno con la fiducia?!"
"Il bagno è dove siamo più vulnerabili e a rischio di pericoli, non chiederesti mai a una persona dove trovarne uno, se non ti fidassi di lei. Infatti io non lo chiedo mai ai camerieri, quando vado al ristorante. È per questo che i cani ti guardano sempre, quando fanno la cacca fuori, perché cercano conferma che tu li proteggerai se gli succede qualcosa, mentre la fanno."
Sono senza parole.
«Straordinario, quindi è così che comunicano tra di loro due specie diverse di animali quando si ritrovano per disgrazia divina nello stesso habitat: con gli spasmi muscolari.»
Lancio un'altra occhiataccia ad Ulysses. Ma guardalo! Si sta divertendo alla follia davanti alla mia disperazione provocata da Sebastian! Prova a celarlo, ma il sorrisetto impertinente che gli sta tranciando le labbra – a discapito dei suoi sforzi – è tutt'altro che inviperito. Se la sta godendo alla grande, il bastardo.
Tuttavia, non posso perdere tempo a rispondergli, ci sono un mono neurone e una Megan da salvare. Torno a rivolgermi a Sebastian, riprendendo a martellarmi il palmo aperto con l'altra mano: "Ti. Picchio. A. Sangue. Fortissimo. L'anima. E. I. Coglioni."
"Io la amo" replica il coglione, mostrandomi di nuovo il cuoricino. Con che coraggio si lamenta di papà e del suo diabete, quando lui è persino peggio, ora?!
Sto per minacciarlo di dar fuoco a tutti i quadri coi ragni che colleziona da che era un poppante, quando, purtroppo, Megan ritorna da lui e ci interrompe. Lo sguardo di lei si fa confuso, non appena nota la scarpa ai piedi di Sebastian.
Merda.
«Ok, nascondiglio scoperto.»
«Tu questo lo chiami nascondiglio?»
«Non avevo alternative, dovevo controllare.»
«Con la danza del ventre da autodidatta?»
Lo fulmino di nuovo, per poi uscire l'attimo dopo da dietro il mio nascondiglio e iniziare a zampettare con il solo piede ancora coperto verso Sebastian e Megan che, adesso, si è voltata verso di me, perplessa al massimo. «Ash?» mi chiama, non appena sono abbastanza vicina a loro per sentirla per bene. «Perché hai una sola scarpa?»
«L'orzo grizzly che è in lei si è ricordato che gli orsi sono sempre a piedi nudi.»
Giro il capo di scatto, alle mie spalle, per lanciare un dardo a Ulyscemo che mi ha seguita. «Taci, uomo in camicia perenne» ribatto. Strano ma vero, adesso sono io quella inviperita, mi starà contagiando. Afferro la scarpa da terra e inizio a rinfilarmela in fretta. Grazie a Dio, sono nata con un ottimo equilibrio, è già stato umiliante realizzare quel teatrino non verbale con Sebastian davanti a tutti. Posso giurare di sentire le risatine che gli altri presenti nella sala stanno trattenendo, forzandosi di concentrarsi sui loro allenamenti invece che su di noi.
Megan ridacchia. La sola nota positiva di tutta questa faccenda: sembra esser riemersa almeno un po' dal disagio provocato dalle domande di Sebastian. «Avete concluso?» domando alla fine, una volta essermi sistemata per bene la scarpa.
Seb annuisce, le braccia conserte al petto. «Ha un'ottima resistenza fisica» è il suo commento, con cui va a stupire Megan e a farla arrossire alla grande. Un punto per lui, bravo il mio mono neurone. «Ti alleni già da sola, vero?» le domanda poi, tornando a guardarla. Gli occhi di lei si sbarrano ancora di più per la sorpresa.
Un altro punto per lui, mi sto commuovendo.
«Io... ecco, sì» ammette alla fine. «A casa, prima di trasferirmi ai dormitori, mi allenavo con quel che potevo. Non si vedrà molto, ma–»
«Si vede, invece» la interrompe. «Una resistenza fisica del genere non si ottiene senza fare niente e solo in parte è innata.»
Ora ad essere nella ionosfera è proprio Megan. A parte me, nessuno le ha mai creduto, quando affermava che si è sempre allenata in privato, nemmeno la sua stessa madre. I suoi chili in eccesso portano con costanza la gente a credere che menta spudoratamente per tentare di non assumersi le sue responsabilità davanti alla bilancia. Solo nel vederla, le persone sono già certe che passa la sua intera vita sdraiata sul divano a banchettare con settanta Happy Meals, mentre si guarda la TV. Stapperei lo spumante per Sebastian, specialmente nel vedere il sorriso gigantesco che ora le ha sollevato le labbra, ma i miei festeggiamenti per lui terminano all'istante, perché il mono neurone, davanti alla felicità palese ed evidente della mia amica, diventa una supernova di emozione.
Il che, per una ragazza come Meg, abituata solo e soltanto a venir sminuita da chiunque, è un segnale del tutto ignoto e invece che realizzare quanto sta accadendo, lo fraintende al massimo. Il sorriso le si spegne in un attimo e subito lei si affretta a indietreggiare per quel che può, mandando in cortocircuito il povero neurone di Seb. «Tutto ok?»
«Sì! Sì!» esclama disperata. «Sono... Ecco, ho sudato tanto, quindi puzzerò senz'altro, perciò...»
«Mica è un problema, ti sei allenata, è naturale. E poi ci sono abituato.» Lo sguardo torna sulla giacca che lei indossa, una vera e propria tenda che le arriva a metà coscia. «Questi abiti ti stanno troppo larghi, sul serio. Si vede anche che stai scomoda ad indossarli.»
Forse sono davvero a rischio di lanciargli la panca, come predetto da Ulyscemo.
Meg arrossisce fino a trasformare il viso già infuocato in una pralina al peperoncino, si tira il più possibile le maniche della giacca affinché le coprano persino le dita delle mani, mentre china gli occhi a terra per non guardare Sebastian. Gli risponde veloce: «L'oversize è... una moda del momento.»
Merda, gli occhi di Seb si stanno sgranando allucinati. Non ha capito un cazzo, è palese. «Mi stai dicendo... che c'è la moda di vestirsi scomodi apposta?» Sento alle mie spalle Ulyscemo schiarirsi la gola: si sta trattenendo dallo scoppiare a ridere, anche su questo non ho dubbi. «E poi che c'entra la moda con la palestra? Per allenarsi non c'è bisogno di essere alla moda, basta stare comodi.»
Sono sul punto di picchiarlo.
«Seb...»
«È tutto ok, Ash» mi rassicura Meg, col pollice all'insù, peccato che l'espressione in viso mostri tutt'altro. «Inoltre, sono affezionata a questa giacca. L'ho comprata il giorno in cui al cinema diedero la replica di tutti i monster movies più famosi degli anni '50, per celebrare Halloween.» Le guance le si riempiono di calore, al solo ricordo, è già in estasi per il suo lato da nerd incallita per le aracnidi, anche questa è un'altra certezza. Il mio sistema d'allarme interiore sta lanciando missili nucleari, perché Seb ha ormai superato la ionosfera e sta direttamente raggiungendo il nirvana. «Ero appena uscita dopo la visione di Tarantula, il film con Clint Eastwood, e dato che era un film in bianco e nero, la tarantola gigante sembrava ancora più maestosa. Quand'ho visto questa giacca nera, me l'ha ricordata subito, così l'ho comprata.»
Oh.
Cazzo.
Non faccio in tempo a bloccarlo, Seb è più veloce di me. L'emozione ha assassinato, si spera non per sempre, il suo unico neurone e ora a muoverlo e farlo parlare è rimasta la passione ultra dimensionale che condivide con Megan. Afferra le mani della mia amica, congiungendole tra le sue, stupendola, e con una severità che ha del preoccupante pronuncia deciso: «Io. Te. Monster movies. Questo Halloween. Insieme.»
Ulysses fa partire un colpo di tosse, maledetto traditore.
Meg sgrana gli occhi, confusa. «Io non... Questo Halloween io sarò... fuori città, qui–»
«Va bene anche senza Halloween. Scegli tu il giorno.»
Dannato mono neurone, ha già dimenticato la regola! «Seba–»
«Non sarei una buona compagnia, davvero. Parlo sempre durante i film coi ragni, se sto con qualcuno, qui–»
«Sposami.»
L'intera sala pesi ammutolisce nel silenzio, anche senza voltarmi posso vedere comunque tutti i presenti fermarsi a guardare la scena stupefatti, ma mai quanto Meg, i cui occhi stanno rischiando di caderle dalle orbite.
«Io ti amo» prosegue il coglione, a riprova che non c'è mai fine alla sua demenza. «Sei la mia ragna gemella.»
Lei apre la bocca, confusa, il viso ormai un incendio implacabile. Sono talmente sbigottita che nemmeno io sono sicura su come comportarmi, il mio corpo si è paralizzato, letteralmente. Mai nella vita Seb si è comportato così con una ragazza che gli interessava, è anche vero, però, che mai finora aveva incontrato un'appassionata di aracnidi come lui.
«Seb» tuono.
Una risatina nasale parte da Megan, più che nasale, nervosa.
È giunta l'ora.
«Non c'è bisogno di esagerare, adesso.»
«Non sto esagerando.»
«No, davvero, non è così.»
«Sì che è così.»
«Non sono nemmeno il tuo tipo.»
«Ma io non ho un tipo.»
«Sebas–»
«Tutti hanno un tipo.»
«No, io no.»
«È impossibile, ci sarà qualcosa che preferisci, no? Tipo le brune, o le ragazze magre, o–»
«Che me ne frega se sono brune o magre? Tanto i capelli diventano bianchi a tutti quando diventiamo vecchi decrepiti e non mi voglio mica limonare le loro bilance.»
Megan è la reincarnazione del puro smarrimento. «E come avresti fatto a capire che ti piaccio?»
«Ami i ragni e mi si rizza quando parlia–»
Il coglione era troppo preso dalla sua dichiarazione d'amore improvvisa per realizzare la mia presenza alle sue spalle, ma se ne rende conto nell'attimo stesso in cui le mie braccia avvinghiano da dietro tutto il suo torace, schiacciando la sua schiena contro il mio petto con la furia violenta di adesso che mi sta pompando ogni muscolo.
Non fa in tempo a ribellarsi o scappar via dalla mia presa, sarebbe stato comunque inutile, a dire il vero: in tutti i nostri anni di vita insieme, mai una volta è riuscito a sfuggire alla mia punizione fatale, dopo che ha fatto il coglione come al suo solito.
Il german suplex.
La mia firma.
«Ash, porca putta–»
L'adrenalina per il panico e la rabbia per quanto appena combinato dal mono neurone ridanno vita ai muscoli prima spolpati dalla partita con Ulysses. Serro ancor più il torace di Seb tra le braccia, in una morsa violenta che lo porta a vomitar fuori tutta l'aria nei polmoni, e all'istante lo sollevo nell'aria in un perfetto arco all'indietro. Odo qualcuno attorno lanciare un'imprecazione insieme a mio fratello, ma niente serve a fermarmi: il mio intero corpo si piega in un ponte rovesciato che sostiene novanta chili di coglione, così da farlo cadere violentemente a terra di spalle.
Una bestemmia inaudita parte dalla bocca del mono neurone, mi risollevo all'istante con uno scatto, così da voltarmi a guardarlo bene: totalmente devastato dal mio perfetto german suplex, la schiena spiaccicata al suolo, le gambe flesse sopra il busto, a muoversi nell'aria come molle impazzite, i suoi occhi confusi da quanto appena subìto nel giro di circa sette secondi.
Un coglione piegato a fisarmonica.
Con voce spietata, dichiaro: «Ti avevo avvisato, Granchietto.»
«Lo so che stai ridendo dentro.»
«Straordinario di nuovo, quindi voi Ellis, oltre che bestie dotate della comunicazione non verbale per mezzo di spasmi muscolari, avete anche il potere della telepatia. Sarà un altro dono ricevuto grazie al sangue demoniaco che scorre nelle vostre vene.»
Fisso Ulyscemo con l'inferno negli occhi, mentre lui abbandona la sua giacca all'appendiabiti accanto alla porta d'ingresso del nostro appartamento. «Era una situazione d'emergenza!» mi difendo con oltraggio, richiudendo la porta alle mie spalle. «Non sapevo che altro fare, ok? E poi lo avevo giurato a Megan: se Sebastian avesse sparato qualche stronzata, io l'avrei abbattuto all'istante con un german suplex.»
Ulysses continua a darmi le spalle, palese dimostrazione che vuole nascondermi il gigantesco sorriso che gli sta calcando le labbra da quando ha assistito insieme al resto dei presenti alla mia mossa finale su Seb.
«Mi accalora il cuore sapere che il tuo animo da serial killer non lo risparmi a nessuno, nemmeno i tuoi consanguinei» commenta invece il maledetto, muovendosi a passo veloce verso la cucina. «È stato anche un estremo, dilagante piacere vederti andare così in panico a causa dell'aria fritta che riempie il cervello di tuo fratello. Potrei iniziare a credere nel karma, adesso. Forse è proprio per questo che è nato così: per compensare alla tua natura da omicida.»
Poso il mio borsone a terra con un tonfo, ferma ancora a guardarlo con stizza. Lui ignora volutamente il mio sguardo e apre l'anta del frigo, anta che, tra l'altro, sta lasciando debitamente aperta così da nascondermi ancora il suo sorrisone immenso. «Te la stai spassando alla grande, non è così?»
«Certo che sì» risponde in un attimo, continuando a tenere aperta l'anta. «Tu e tuo fratello avete segnato un evento storico di quella palestra, insieme. In futuro, quando parlerò di te agli altri, chiunque potrà finalmente compiangere il mio infausto destino di averti avuta come coinquilina, sapendo cosa sei capace di fare. Ripeto: il karma esiste e io ne sono il suo più grande beneficiario, al momento.»
«La tua voce sta tremando, è inutile che ti sforzi di trattenerti: stai ridendo eccome.»
«Niente risate, ti sto giudicando.»
È proprio un suo motto di vita, eh? Maledetta diva velenosa. Richiude lo sportello del frigo, finalmente, e dopo aver preso dai pensili un bicchiere di vetro, inizia a versarsi l'acqua. Il miracolo vero è che non ha tirato fuori anche il sottobicchiere, sospetto sia perché non vuole sentire mie battutine al riguardo, ora che è in una posizione di netto vantaggio rispetto a me. Gli angoli delle sue labbra continuano a vibrare con furia, si sta sul serio violentando per non scoppiare a ridere. Manda giù in fretta l'acqua, per poi muoversi veloce per risistemare il bicchiere dopo averlo pulito.
«Stai ridendo, lo so» dichiaro severissima, mentre avanza verso il divano per afferrare lo zaino che aveva lasciato lì poco prima.
«Ti sto giudicando in maniera categorica» ribatte la Diva. A passo celere, arriva alla porta della sua stanza – la dannata Ulycaverna – e si rinchiude là dentro senza degnarmi anche solo di un saluto.
Due minuti.
Riesce a resistere a stento due minuti.
Passati tali minuti, dalla stanza in cui si è appena chiuso, esplode una risata così fragorosa, vorace e forte da far tremare le pareti dell'intero appartamento e farmi sobbalzare sul posto. La mandibola mi cade a terra, non appena questo suono di rado prodotto da parte sua si ripercuote nell'aria. Solo una volta mi è capitato di ascoltarlo, finora, e forse per questo, avevo dimenticato quanta gentilezza e fascino lo armonizza, trasformando quella che è una palese presa in giro in un vero e proprio festeggiamento, il festeggiamento di chi ha sempre avuto poche occasioni per ridere in questo modo, ma che dentro ha sempre, sempre, sognato di poterlo fare.
Un sorriso istintivo mi va a disegnare le labbra, mentre urlo alla porta chiusa: «Ora hai riso per davvero!»
«Sarà una delle tue mille allucinazioni» risponde la Diva, ancora in preda agli sghignazzi che non riesce più a contenere, «dovuta a quel funghetto allucinogeno di nome Belzebù.»
«Si chiama Bibble, non Belzebù!»
«E tu ti chiami Mandato d'arresto internazionale, non Ashley Ellis.»
Sta ridendo come un matto, non ci posso credere! Nonostante io abbia dovuto parlare almeno un'ora con Megan per tranquillizzarla, non posso negare di essere in parte felice di quanto Sebastian ha fatto e del mio stupendo german suplex, visto che mi ha permesso di risentire la sua risata. E sono certa che anche lui, ben più di me, aveva bisogno di ascoltarla per ricordare che forma e suono possedesse.
Sono... sollevata. Quando ho buttato a terra Sebastian, da brava deficiente mi ero dimenticata del tutto del fatto che la violenza avrebbe potuto essere uno dei trigger psicologici che l'ha indotto a vomitare, quella famosa notte. È stato un sollievo immenso realizzare, l'attimo dopo, che era ancora sereno e anzi, più divertito che mai.
Non avrò capito molto sul suo conto, pochissime sono le informazioni certe che possiedo, ma ferirlo di nuovo, involontariamente, non rientra nei miei desideri.
Perché, anche se lui non ne è cosciente, di ferite ne ha già avute troppe. Sanguinano ancora, il loro flusso di sofferenza conduce ogni passo della sua vita e non gli lascia alcuna libertà, è nei loro dolori che lui trova rifugio, non nella loro cura. Dubito che abbia mai pensato di poter essere altro se non quelle, dubito che abbia mai anche solo contemplato la possibilità che oltre tutto quel sangue in cui annega c'è un mondo intero che non conosce, un mondo che non prevede lesioni e paure, un mondo in cui ci sono sorrisi e risate, proprio come quelli che lo stanno temprando in questo momento.
«Quindi ti ricordi ancora il mio nome, eh? Mi sto emozionando, a furia di sentirmi chiamare Ellis da parte tua, iniziavo quasi a temere ti fossi dimenticato come mi chiamassi.»
«Impossibile» replica spietato la Diva, «devo ricordarmi il tuo nome e cognome per forza di cose, così da poter subito indicare alla polizia il sospettato più pericoloso, in caso di un pestaggio improvviso. Specie dopo quanto visto oggi.»
«Abbassa la cresta, Ulysses Redmond, sei lo stesso che è rimasto traumatizzato dai miei adorabili cuoricini, ne hai di strada da fare per poterti prendere gioco di me in questo modo.»
«Io non sono rimasto traumatizzato da niente, io condanno alla grande le tue scelte di vita riprovevoli.»
Le labbra mi si arricciano sempre di più. «Scommetto che non ci dormirai la notte, per i miei cuoricini. Ti rigirerai sul letto tutto il tempo, disperato, maledicendoti dentro perché continuerai a immaginarteli senza volerlo.»
«Vedo che la tua ludopatia non è minimamente calata.»
«Vedo che il tuo veleno nel sangue non si è minimamente ridotto.»
Altre risatine, stavolta più soffocate. Si sta divertendo immensamente, assurdo. Penso sia la prima volta anche per me, tuttavia, che mi ritrovo a battibeccare così con qualcuno. «Fossi in te non mi preoccuperei del veleno, al momento» dice d'improvviso. «Ti ricordo che ho vinto io la partita.»
Il sorriso mi apre le labbra. «Sarà molto interessante vedere quello che mi farai patire, Ulyscemo» rispondo serena. «Cerca di risparmiarmi rompicapo, stavolta.»
«Ti risparmierò rompicapo... in legno.»
Sussulto sul posto, l'attimo dopo, la porta si riapre, facendo sbucare la testa bionda di Ulysses, gli occhi grigi ancora illuminati dall'ilarità, la bocca sollevata in un sorriso malvagio più che mai. «È un rompicapo che nemmeno io sono mai riuscito a risolvere» commenta, il suo sadismo dilaga davanti al mio sguardo strabuzzato dall'orrore. «Sarà molto interessante guardarti, donna che afferma di essere dotata di una pazienza e maturità straordinarie.»
«Come osi?! Guarda che è tutto merito mio se ora te la stai spassando alla grande!»
«Per la precisione, è merito della follia che scorre nella tua famiglia: è sempre bello avere un metro di paragone con cui risollevarsi il morale. Siete un ottimo piedistallo.»
La porta si richiude l'attimo dopo, prima che possa lanciargli il mio borsone in testa. Gliela distruggerò, prima o poi, la sua maledetta Ulycaverna.
«Ellis» mi chiama dopo qualche altro minuto, mentre io sto già immaginando scenari in cui nascondo della dinamite sotto la sua montagna di sottobicchieri.
«Se il rompicapo è anche solo di un materiale simile al legno non posso gar–»
«I tizi del tuo liceo» sussulto ancora. Mai avrei creduto avrebbe tirato di nuovo fuori l'argomento, che sarebbe stato interessato abbastanza da pormi dei quesiti in merito. «Li hai mai più rivisti?»
Chiudo la bocca, con l'amarezza già a riempirmi la gola. Le risate ormai sono scomparse, a saturare l'aria è invece una fragilità sconfinata, tale da appesantirmi il respiro fino a farmi credere di star mandando giù palle di piombo.
«No» ammetto. «Erano minorenni, quindi la giuria è stata abbastanza clemente con loro, ha prediletto il risarcimento economico per me alla punizione detentiva per loro. Capita spesso, in casi simili con minorenni. Si sono beccati l'obbligo di quattro anni di lavori socialmente utili e il divieto categorico di avvicinarsi a me. Dopodiché, dei misterioso pestatori seriali della notte sono magicamente apparsi dal nulla e li hanno presi a pugni fino a spaccare il setto nasale di tutti loro, per poi sparire sempre magicamente nel nulla dopo aver concluso. Sono sicura al 99,9% che si tratti di Seb e Reid, supportati da mamma e papà per gli alibi, ma tutti e quattro negheranno fino alla fine dei loro giorni.»
Nessuna battuta da parte sua, stavolta, nemmeno una piccola frecciatina. Sarà pure una Diva, ma sa riconoscere quando è il momento di sfoderare il suo veleno o meno.
«Una volta Vanessa, però, mi ha scritto» confesso alla fine. «Mi ha mandato un lungo messaggio dove si scusava con me per tutto quello che era successo.»
Un minuto di silenzio.
«Pensi fosse sincera?»
Mi stringo nelle spalle, un sospiro mi scuote. «Chi lo sa. Durante il processo non si è mai dimostrata pentita, nemmeno una volta. Poco più tardi aver ricevuto quel messaggio, sono venuta a sapere che le era stato diagnosticato un tumore all'utero e presto avrebbero dovuto farle un'isterectomia per salvarle la vita. Suppongo il senso di colpa sia nato da quell'evento, lo shock sarà stato tale da farla ricredere su ciò che pensava di me.»
«Perciò il karma esiste davvero.»
Un risolino nasale. «Non saprei...» ammetto. «Seb e Reid hanno stappato gli spumanti, quando l'hanno saputo, io non ne sono stata poi così contenta, stranamente.» Mi fermo un istante, uno solo. «È che... non so... non è ingiusto? Il fatto che molte persone... per capire appieno le sofferenze che hanno provocato agli altri... devono per forza patirle loro. È davvero questo l'unico modo affinché comprendano appieno quant'è doloroso venir feriti? Più che esserne felice, nello scoprire cosa stava vivendo, ne sono rimasta... amareggiata.»
Esito ancora.
«Mi sono ritrovata a pensare... che se non le fosse venuto quel tumore, lei non avrebbe realizzato nulla... Mai mi avrebbe compresa. Tutto quello che le ho detto per anni, l'intero processo, gli avvocati, la giuria, le prove, le conseguenze... non sono serviti a niente, ha dovuto beccarsi un tumore all'utero per farlo. Se davvero è necessario il karma perché qualcuno capisca il dolore dell'altro, perché possiamo comprenderci a vicenda... forse non è karma, forse è solo la dimostrazione di quanto egoisti siamo noi esseri umani. E per questo... non riesco proprio ad esserne felice.»
Silenzio da parte sua, mi domando cosa diavolo stia pensando, davanti a questa mia confessione, è impossibile stabilirlo, dato che nemmeno posso scorgere le espressioni che ha in viso. Mi siedo sullo schienale del divano, guardando fissa la sua porta chiusa. D'un tratto, la sua voce riprende a parlare: «Hai un lato pessimista inaspettato.»
Inarco le sopracciglia, sorpresa. «Pensi che il mio sia pessimismo?»
«Forse no, ma di certo non hai una prospettiva positiva della situazione» è la sua risposta, la sua voce, benché attutita dalla porta chiusa, risuona sicura. «Forse il karma ha agito non per dare una soddisfazione a te, ma per mettere alla prova lei.»
«In che senso?»
«Nel senso» continua, «che ci sono tantissime persone che anche davanti a queste loro sofferenze, si rifiutano comunque di cambiare, di prendere atto di quanto compiuto. Continuano imperterrite a ritenersi innocenti e a vedersi come vittime di un destino ingiusto, quando, secondo loro, non hanno mai fatto niente per averlo. Non è così scontato che ottengano la consapevolezza delle loro azioni e conseguenze, se si ritrovano a sperimentare ferite simili a quelle che hanno inferto. Perché tra scegliere se soffrire sia per quel nuovo dolore che per la realizzazione dei crimini compiuti o solo per quel nuovo dolore, vedendolo come una fatalità che non meritano per lavarsi le mani... è molto più facile scegliere quest'ultima opzione. Il karma non serviva a te, ma a lei, per stabilire che tipo di persona vuole diventare: se una persona squallida che anche davanti alle conseguenze più tragiche continua a negare i suoi errori passati o una che ha abbastanza coraggio da realizzarli appieno e patirne al massimo le agonie. Se avesse scelto la prima strada... penso che proprio quella sarebbe stata la dimostrazione assoluta dell'egoismo umano.»
Non l'avevo mai vista da questa prospettiva, non posso nascondere di esser sorpresa. Mi domando se ne sta parlando perché finora lui ha incontrato soltanto persone che hanno sempre scelto la prima opzione. «Ipotesi interessante e inaspettata da parte tua» ammetto con un altro risolino. «Non ti facevo così filosofico. Quindi, secondo te, dovrei vederla in questa chiave... "positiva"?»
«Puoi vederla come ti pare. Sei tu che devi scegliere, visto che è a te che è successo. Io, ad esempio, al posto tuo, sarei andato da lei non appena si fosse ripresa un po' dall'isterectomia e avrei imbandito una festa davanti ai suoi occhi. Mi sarei anche assicurato che non fosse sotto qualche anestetico, così che capisse tutto alla perfezione.»
Scoppio in una fragorosa risata. Seb ci ha proprio visto giusto con lui: nonna Titti impazzirebbe di gioia, se lo conoscesse, è la stessa identica cosa che mi ha detto lei, saputo di Vanessa. «Dici? Non saprei, a discapito di come vuoi apparire, non mi sembri così sadico, Ulyscemo, se non con i tuoi maledetti rompicapo.»
«Infatti l'avrei anche costretta a risolverne uno, appena uscita dalla sala operatoria.»
Un'altra risata fragorosa. «Semmai verrò travolta da un improvviso spirito vendicativo, mi assicurerò di prendere in considerazione la tua proposta. Chiederò consiglio a te per il rompicapo più crudele da utilizzare. Forse così nonna Titti smetterà di lamentarsi del fatto che sono troppo buona.»
«Ha mai assistito a uno dei tuoi pestaggi?»
«Nonna Titti dice che sono troppo buona anche per quelli, perché non li mando mai in prognosi riservata come faceva lei in gioventù.» E anche adesso, vorrei aggiungere, ma gli risparmio questo particolare.
«Voi Ellis siete la dimostrazione del perché è necessario costruirsi un bunker antinucleare.»
Ridacchio ancora, serrando le braccia al petto, sto per ribattere, quando d'improvviso aggiunge: «E comunque, tu non sei troppo buona.»
«Per i miei pestaggi? Lo so, lo so, non dovrei farli proprio, non è così?»
«Il tipo del pub» dichiara, stupendomi per l'ennesima volta, «prima di pestarlo, più volte hai cercato di fargli capire la sua posizione e quella della cameriera.»
Sbatto le palpebre, stupefatta. Non pensavo se lo ricordasse, glielo avevo anche detto, sì, ma durante uno dei nostri litigi, ero sicura che non avrebbe mai ricordato quel particolare. O forse era presente alla scena già da allora? «Sì, è così. Orrendo da dire, ma molti davvero non sanno concepire cos'è una molestia, pur perpetrandola, perché cresciuti nella convinzione che quella non lo sia. Sospettavo già che quello stronzo non avrebbe compreso, però» faccio presente, «mi sarei risparmiata una grossa irritazione, se lo avessi pestato e basta alla prima palpata sul seno di Lucy.»
«Ma hai voluto comunque provarci» ribatte. «Forse per alcuni è segno di troppa bontà o una stupidità vera e propria, ma non sono d'accordo. Non c'entra niente la bontà né l'intelligenza, in questo caso. Hai preferito mettere in discussione prima la visione che avevi di lui, nonostante tutto, hai preferito prima vedere se era anche la tua prospettiva ad esser sbagliata o meno, piuttosto che partire in quarta subito. Più che bontà o intelligenza, direi che è coraggioso.»
«Coraggioso?»
Di nuovo silenzio, per qualche secondo.
«Provare a farsi capire per capire l'altro» risponde alla fine. «Non serve spesso a granché, e per questo in pochi lo fanno, dando per scontato che tutti quanti siano uguali per forza di cose. È sempre più facile generalizzare, così non corri alcun rischio.»
Sono contenta che sia ancora rinchiuso nella sua stanza, non può vedere il sorriso gigante che mi ha stampato sulle labbra, con le sue parole. «Non avevi detto che se mi avessi fatto un complimento, avresti richiesto personalmente una lobotomia per te stesso?» lo sfotto.
«Infatti non lo è, perché dopo lo hai pestato a sangue» specifica, di nuovo in modalità Diva Assoluta, «quel briciolo di buon senso che avevi lo hai gettato nel fuoco all'istante. Ho sperato per niente.»
La bocca duole per quanto gli angoli sono sollevati. Mi risollevo dal divano. «Giustificati come ti pare, io lo prenderò come un complimento» commento, provando a camuffare la felicità che mi intesse la voce. Afferro il mio borsone lasciato a terra e con uno scatto me lo isso sulla spalla, per la tracolla. «Fammi sapere quando ci sarà la tortura del tuo maledetto rompicapo, così mi preparo mentalmente. Adesso vado a cambiarmi, Ulyscemo»
Una volta entrata nella mia stanza, realizzo di star sul serio saltellando.
E di non aver smesso mai di canticchiare.
Conosco la metropoli in cui sono nata e cresciuta come le mie tasche, pochissimi sono i luoghi che mai mi è capitato di frequentare in tutti i miei ventisei anni di vita. Non ho mai disprezzato lo studio, al contrario, sono sempre stata la prima della classe, ma tra i libri e lo sport, la mia predilezione sarà fino alla fine dei miei giorni per lo sport. La sola eccezione sono stati i miei amati romance con cui amoreggiare, sognando il grande e fatato grande amore della cui esistenza sono sempre stata certissima, essendo io e i miei fratelli il frutto di uno di essi: mamma e papà.
Per questo motivo, non mi era mai capitato finora di mettere piede nella Biblioteca Centrale della città, la più moderna della storia della nostra metropoli. Mi era già nota per la sua fama e per la sua caratteristica peculiare, rispetto alle altre biblioteche più famose nel suolo americano: si erge sì a luogo di culto per lo studio e la letteratura, al tempo stesso, però, unisce tale obiettivo allo scopo di gioco e divertimento, nel tentativo di invogliare anche i più giovani a frequentarla.
È una palazzina di marmo a pochi metri dal cuore della città, dalle ampie vetrate in stile gotico e un portone d'ingresso così alto che persino io, col mio metro e una torre di Pisa (dannato Ulyscemo), non riuscivo a scorgerne la fine, dalle decorazioni floreali in rilievo massiccio, intagliate con così tanta dedizione da dar forma a una vera e propria composizione di petali in legno.
È proprio il legno ad essere la sua firma, all'interno, in netto contrasto con l'austerità del marmo di fuori: non appena vi accedi, un lungo parquet dal color terra bruciata accoglie i tuoi passi, ingurgitandone i suoni, e una serie di lunghi tavoli imperiali, debitamente in mogano, disposti uno dopo l'altro in un ordine perfetto e orizzontale, attende l'arrivo di coloro che sono giunti fin qui per darsi allo studio. A prima vista, potresti pensare di esser finito per sbaglio in una chiesa, senza rendertene conto.
Sulle pareti laterali, i grandi e statuari scaffali che contengono i libri, volumi e tomi da collezione, dai più moderni, appena stampati, ai più vecchi i cui dorsi indossano la tipica patina di senilità e saggezza del sapere antico.
La loro quantità e incalcolabile, è come guardare un puzzle composto unicamente da piccole librerie che, messe l'una affianco all'altra e l'una sopra l'altra, danno vita a un quadro perfetto e completo, così da farti credere che l'intera biblioteca non sia nient'altro che un libro gigante costruito sulla base di libri minuscoli uniti assieme. L'odore che si respira è il classico profumo della letteratura, quell'effluvio bizzarro di carta fresca che va a mescolarsi alle polveri delle pagine più antiche, potresti addirittura arrivare a credere di percepire il pizzicore vivace dell'inchiostro, a stuzzicarti la punta del naso a mo' di presa in giro.
Proprio per convogliare più giovani possibili dentro, il terzo piano della biblioteca è stato battezzato a un solo obiettivo: la conoscenza mediante il gioco. Per questo motivo è stato isolato dagli altri piani e insonorizzato, poiché al suo interno non solo si possono trovare tomi di studio, bibliografie e saggi scientifici, ma anche e soprattutto giochi da tavolo, libri interattivi per ogni tipo d'età, volumi saturi di enigmi e indovinelli, persino carte da gioco per i più piccoli, come Yu Gi Oh o i Pokémon.
Per questo motivo, la sua struttura interna e il suo arredamento è l'opposto rispetto ai piani inferiori: il marchio di fabbrica, il legno, permane, ma a saturare l'intera sala è un disordine voluto, persino calcolato, con grossi tavoli in legno ovali sparpagliati a casaccio per la grossa sala, dove i più giovani si radunano per darsi al gioco, scaffali ai lati che contengono i vari prodotti da prendere in prestito, riposti con una frettolosità soltanto apparente e visiva, tutt'altro che fuori luogo.
Se nella zona di culto allo studio vi è un silenzio quasi sacro, così tanto da soffocare, in alcuni casi, qui invece vi è un fragoroso vociare, il rumore continuo di umanità in festa, con battibecchi, imprecazioni, commenti, analisi approfondite su quanto si sta facendo, passi frettolosi e altri più scanditi, risatine voraci e battutine costanti.
Mi pento con tutta me stessa di non essermi mai interessata a questo posto, prima d'ora, ha un fascino straordinario, ora comprendo perché è considerato un santuario da gran parte dei giovani. Di rado si trovano luoghi così, disposti a mettere in comunione la dedizione metodica per lo studio con il caos del divertimento, per dimostrare che proprio se insieme possono creare una sinfonia perfetta e armoniosa, tutt'altro che stonata come in molti affermano.
«Era qui che ti rifugiavi, quando ti davi alla palese fuga con me?» domando ad Ulyscemo, alla mia destra, dopo qualche minuto di silenzio assoluto da parte mia, incantata com'ero nello scorgere la meraviglia che ho davanti, subito dopo essere arrivati al terzo piano.
La Diva fa scattare in mezzo secondo la testa verso di me, inviperito, le sopracciglia contratte. Smetterà mai di indossare le sue maledette camicie? Inizio a temere che soffri della sindrome di Naruto: avere a disposizione un solo modello d'outfit per tutti i giorni. «Io non fuggo da niente, men che meno degli animali scappati dallo zoo» è la frecciatina di oggi con cui mi trafigge, prima di indirizzarsi in avanti coi passi, superando i vari tavolini e lasciandomi dietro di sé.
Sghignazzo, seguendolo l'attimo dopo. «Conosci questo posto benissimo, si vede da come ti muovi, da quanto lo frequenti?»
«Mi rincresce vedere che il tuo stalking è immortale quanto l'assenza di neuroni in tuo fratello.»
«Niente stalking. Te l'ho detto: il mio è solo sano spirito d'osservazione.» Avanziamo ancora, andando oltre il centro della sala, verso la parete opposta a quella d'ingresso, dove si trova il grande e lungo bancone della... Sarà la segreteria? O il punto vendita? Difficile a dirlo, a differenza sua, non conosco affatto questo posto. Dietro il bancone c'è la figura anziana di una donna, intenta a digitare qualcosa sulla tastiera del suo computer fisso, capelli alla pixie ben più corti dei miei, occhiali a mezzaluna e la divisa nera della biblioteca, con tanto di cartellino affisso al petto.
Quello che mi confonde sopra ogni altra cosa, tuttavia, è ciò che si trova poco più avanti a tale bancone, a parecchi metri di distanza, attaccato al muro destro, incastrato tra due librerie sature di giochi da tavolo.
Un... albero?
Mi avvicino veloce per guardarlo meglio, ponendomi proprio davanti ad esso, mentre Ulysses continua a marciare spedito verso la segreteria. Sì, è davvero un albero. Un albero in metallo, color acciaio, inglobato a metà nella parete in legno, come se il muro volesse ingioiarlo per intero ma il suo legno si fosse paralizzato prima di riuscirci.
Un albero a metà.
Non è grande, anzi, è piuttosto piccolo in confronto a me, la sua chioma è molto sfoltita, con così poche foglie da poterle individuare una ad una, minuscole e raggrinzite, lamine di metallo magre, arricciate sui bordi, a pendere da rami fragili e sottili, il tronco a metà avrà la circonferenza del mio braccio. La sola immensità che quest'albero bizzarro possiede sono le sue radici; talmente larghe, pesanti e intrecciate tra di loro da sembrare capaci di sfondare il parquet e arrivare al piano inferiore.
Un altro particolare accende subito la mia attenzione, il solo elemento dell'arbusto che non presenta il colore vivace e accecante del metallo: una mela dorata, grande quanto una palla da basket, che pende dall'unico ramo solitario dell'albero, l'unico che, a differenza degli altri, sembra incapace di intrecciare legami coi suoi simili e si genera in un posto isolato rispetto agli altri. Appare ai miei occhi come il braccio di un bambino che mi sta porgendo la mela volutamente, per invogliarmi a prenderla. La sua singolarità è che la mela è imprigionata, una vera e propria gabbia la intrappola in sé, una di quelle gabbie per uccelli canterini, che si vedono sempre nei vecchi film di una volta, dalla tonalità identica al resto dell'albero. Le sue sbarre sono sì affusolate, ma così innumerevoli e così vicine da soffocare e nascondere lo splendore dorato della mela, come la giacca di Megan e la sua bellezza.
Mi inclino per guardare alla destra dell'albero, sulla targhetta affissa alla parete, accanto a una delle librerie che l'arbusto separa.
Albero della vita
"Sono il frutto nato dalla Genesi.
Per avermi, richiedo libertà.
Ma qual è la mia prigione?"
Oddio.
No.
Non oserà, il bastardo.
Muovo il capo all'istante per rivolgerlo ad Ulysses, la bocca già pronta per insultare la Diva, ma la voce mi muore in gola, stupefatta perché, per la prima volta, lo vedo di sua iniziativa, senza il bisogno delle mie assurdità... sorridere.
Sta parlando con la commessa, separato da lei dal bancone, con gli occhi rivolti a un foglio di carta peculiare per le sue dimensioni minute: un rettangolino di carta vero e proprio. Lo sta leggendo con le labbra sollevate e una serenità che mai prima d'ora mi è capitato di scorgere nel suo sguardo, una gioia genuina, non provocata dalle sue prese in giro o il veleno da Diva, gli illumina il viso per intero.
Lo guardo ripiegare il foglio e porgerlo alla donna, mentre le mormora qualcosa, ma è troppo lontano perché possa sentirlo. Non me la sono mai cavata col labiale, da come muove le labbra, sembra dirle: «... si preoccupa troppo... Tutto a posto...»
Aggrotto la fronte, smarrita, la signora dietro il bancone annuisce, per poi gettare il foglio... nel cesto della spazzatura?
Ulyscemo finalmente si ricorda della mia presenza, volta il capo verso di me.
E sorride.
Il suo sorriso sadico.
Maledetto infame!
«Mi. Rifiuto.» Tuono categorica, mentre si avvicina a me a passo veloce.
«Hai perso la partita, eri persino emozionata di averla persa, ti ricordo» replica il bastardo, dopo essersi fermato alla mia sinistra, a mezzo metro di distanza. Non maschera neanche la sua goduria, è già preda dell'estasi, nel vedermi ammattire.
«Questo non è un rompicapo» mi lamento, indicando l'arbusto con la mano. «Questo è un enigma!»
«Per la precisione» mi corregge la Diva, «è un rompicapo con enigma.»
«Mio Dio, per davvero, esiste qualcos'altro nella tua vita oltre i maledetti rompicapo e i sottobicchieri?»
«Esiste qualcos'altro nella tua vita oltre Barbie e i tirapugni?»
Se potessi dargli fuoco con lo sguardo, lo avrei fatto all'istante. «Come osi lamentarti dei miei meravigliosi film Barbie, quando tu mi vuoi costringere a fare questa... questa... cosa!» Torno a guardare l'albero di metallo, non posso camuffare il disgusto che mi deturpa il viso. «Perché diavolo hanno messo un rompicapo dentro il muro, tra l'altro? E perché proprio un albero di metallo?»
«Ellis, non dicevi di essere intelligente? Mai sentito parlare dell'albero della vita? La famosa mela dell'Eden, sai, Adamo ed Eva... Quella storia che appartiene al libro più venduto al mondo: la bibbia?»
Torno a scoccargli saette con gli occhi. «Certo che la conosco, per chi mi prendi! Quello che non capisco è perché mai qualcuno da questa storia abbia avuto la brillante idea di farci un fottuto rompicapo–enigma!» mi lamento. «Già è tragica di suo, la storia, visto che, se vera, avrebbe condannato noi donne ai dolori mostruosi del parto per colpa di una stupida mela, e adesso ci infieriscono pure sopra, aggiungendoci l'agonia di un indovinello abominevole? Perché mai, poi, mi dovrebbe interessare prendere quella mela di oro finto? Può starsene benissimo nella sua gabbia, a me non dispiace! Sembra pure star comoda là!»
«Hai perso» rimarca il bastardo. «Hai perso platealmente, aggiungo. E tu mi hai detto, e cito testualmente: Io mantengo sempre le promesse.» Ha pure la faccia tosta di indurire la voce così da renderla cavernosa come la mia! «Ma suppongo di aver preteso troppo da una mente limitata come la tua, gli orsi grizzly agiscono per istinto, d'altro canto, non per raziocinio. Sarà il motivo per cui ti fomenti così tanto anche quando vieni stracciata a sangue in una partita: non hai sufficiente materia grigia per realizzare la tua sconfitta e soffrirne.»
«Andiamo! Questa è una tortura equiparabile a quella che fanno al protagonista di Arancia Meccanica, per me!»
«È proprio per questo che l'ho scelta: per farti soffrire al massimo. Sei libera di tirarti indietro e dimostrarmi così di avermi mentito sul tuo giuramento, sia chiaro, non ci sarebbe alcun problema. D'altro canto, non puoi abbassare le aspettative di qualcuno che mai ne ha avute, no?»
Incredibile stronzo! Sono sul punto di prenderlo a calci per il suo sorriso strafottente. Serro la mandibola, inspiro a fondo e scarico la tensione e il nervosismo sui muscoli, per poi tornare a guardare l'infer–ahem, l'orror–ahem, il rompicapo enigma che ho davanti. «Perché questo rompicapo è così esposto?» domando confusa, mentre inizio a studiare l'albero dal suo cespuglio abominevole alle sue radici abominevoli, squadrandolo nella speranza che esploda da solo.
«Questo rompicapo è il vincitore di un concorso che la biblioteca imbandì parecchi anni fa.»
«Mi stai dicendo che fanno concorsi sui rompicapo?» Non riesco a trattenere l'espressione di disgusto. «Che la gente gareggia per creare gli spacca-cervelli più spacca–cervelli in assoluto? Che ci sono persone a questo mondo che vogliono vincere premi per aver creato un fracassa–materia–grigia?»
«Scioccante, vero? Scoprire che al mondo ci sono persone che ambiscono all'uso del cervello e non quello dei muscoli. So che è un'arma che di rado brandisci, ma mi duole dirti che ha un nome vero e proprio: si chiama razionalità.»
«Si chiama sadomasochismo» lo correggo feroce, continuando a studiare con gli occhi l'arbusto abietto. Fisso la prigione che custodisce la mela dell'Eden – d'ora in poi da me rinominata il coglione dell'Eden – alla ricerca di qualche serratura che possa aprire la sua gabbia, ma non esiste neanche una porticina minuscola con cui aprirla, ci sono solo le sbarre d'acciaio che dalla base stabile convergono fino al ramo da cui pende insieme al coglione dorato.
«Ellis, ti ricordo l'indovinello.»
«Non l'ho dimenticato, ha chiaramente detto: qual è la mia prigione? Beh, la prigione è la gabbia, no?» Mi volto a guardarlo, mi sta fissando come se fossi una deficiente fatta e finita. «Cosa c'è adesso?!» mi lamento.
«Ho preteso troppo da te, sei pur sempre la sorella di quel granchio.»
«Come ti permetti?! Guarda che mi sto impegnando!»
«È proprio questo a spaventarmi: che ciò è il risultato del tuo impegno.»
La fronte soffre a causa dell'irritazione che la sta scavando, riprendo a fissare il coglione dorato e la sua gabbia. Mi avvicino il più possibile, con il viso a pochi centimetri dalle sbarre, a fissare il maledetto coglione dorato con la stizza che man mano si fa più forte. Provo a tastarle una ad una con le dita: non ho la più pallida idea di che tipo di metallo sia, ma è più duro del menhir che Ulyscemo ha al posto del cuore. Ciò sarebbe un bene, in realtà, così non rischio di rompere qualcosa per l'ira, sarà per questo che il bastardo ha scelto proprio tale rompicapo.
Rileggo ancora una volta l'enigma. Cita la Genesi, quindi un palese riferimento ad Adamo ed Eva, e poi chiede qual è la sua prigione. Si riferirà a Dio? Perciò... devo mettermi a pregare Dio? Avrà qualche sorta di comando vocale nascosto nel tronco, con cui rilevare le magiche parole?
«Qualunque cosa tu stia pensando, non è quella la risposta.»
«Ma se hai detto che neanche tu lo hai mai risolto!»
«Comunque sono certo al mille per mille che la risposta non è quella che stai pensando tu.»
Gli mostro il medio. Poco raffinato, lo so, ma con una vipera come lui non ho scelta, soprattutto adesso che i miei neuroni si stanno liquefacendo.
Ritorno all'osservazione del coglione dorato.
«Non serve a niente provare a muovere le sbarre, nemmeno la tua forza da donna–gorilla riuscirebbe a piegarle.»
Le vene alle tempie pulsano feroci, l'istinto omicida per questo dannato albero sta preponderando alla grande nella mia testa.
Fisso il coglione dorato.
Un coglione...
Dorato.
Coglione.
Dorato.
La lampadina si accende.
Mio Dio, sono un genio.
«Ci sono.»
«Ci sei?»
«Ho la soluzione.»
«No, non ce l'hai.»
«Sì, ce l'ho. Non sarà quella contemplata dalla sadica mente che ha ideato quest'indovinello ma funzionerà senza ombra di dubbi.»
Indietreggio di tre passi precisi, dalle grandi falcate, proprio davanti al coglione dorato.
«Ellis» sento Ulysses chiamarmi, ma sono ancora troppo concentrata sul coglione per badare a lui, «qualunque cosa la tua mente satanica sta elaborando, non lo fare.»
«Funzionerà, Ulysses Redmond, credimi» è la mia affermazione sicura.
«Ah sì?»
«Sì.»
«Ellis, perché hai la mano nella tasca dei pantaloni?»
«Nulla di cui preoccuparsi.»
«Non è la tasca dove conservi la tua collezione di tirapugni, vero?»
«Lo sapevi che una volta, una donna, per salvare il suo bambino prima che venisse investito, ha letteralmente fermato a mano nuda la macchina che lo stava per mettere sotto?»
«Di che diavolo stai parlando?»
«È il potere dell'adrenalina, ti fa compiere veri e propri miracoli, dona all'essere umano una forza mostruosa. Perciò, anche io, ora, ricorrerò all'adrenalina.»
«Come, prego?»
Sorrido estasiata. «Non ti preoccupare, Ulyscemo, è tutto a posto, te lo posso garantire. Sto immaginando la faccia di tuo padre al posto di quel coglione dorato, come, in effetti, tuo padre è. È proprio pensando che quella mela è un coglione dorato che ho fatto il collegamento con tuo padre, sono un genio, vero?»
«Come, prego?»
«Proprio la sua, già solo a immaginarmela lì, sento l'adrenalina scorrere a velocità della luce nelle vene, e con l'aiuto del mio tirapugni migliore, sfonderò la gabbia in un istante grazie a un gancio destro. Ripagherò io i soldi del risarcimento, non ti preoccupare, te l'ho detto: è tutto sotto controllo.»
«Stai per romperti l'intera mano destra nel tentativo di spaccare una gabbia di metallo e hai pure il coraggio di dirmi che è tutto sotto controllo?»
Finalmente trovo il tirapugni che cercavo: di metallo proprio come l'albero, senza arpioni, sì, ma dalla copertura che garantisce protezione assoluta alle nocche: puro acciaio inox. «Dato che non posso picchiare tuo padre nella realtà, almeno lo farò così, metaforicamente, e otterrò grandi soddisfazioni.»
«Ellis, posa subito quel tirapugni. Dov'è finita la pazienza di cui ti vanti tanto?»
«Io e i rompicapo non andiamo d'accordo, te l'ho detto.»
«E dato che non ci vai d'accordo, hai deciso di trattare uno di loro come se fosse un sacco da boxe?»
«Non un sacco da boxe, non mi permetterei mai di picchiarlo in questo modo. La faccia di tuo padre, invece, sì, senza esitazioni.»
«Ellis, rimetti subito in tasca quel tirapugni.»
«Ma è uno dei migliori, ti garantisco che mi proteggerà la mano, e la faccia di tuo padre è così fastidiosa che già a immaginarla mi sento Hulk. Forse mi spaccherò qualche osso, ma se significa poter pestare a sangue metaforicamente tuo padre, ne vale la pena eccome.»
«Ellis, tu non pesterai a sangue nessuno.»
«Ma è una metafora, come la sigaretta spenta di Augustus in Colpa delle stelle.»
«Non sarà certo questa tua genialata a impedirti di romperti la mano. Posa subito quel tirapugni.»
«In effetti, hai ragione.» Ci rifletto su. «Non basta la faccia di tuo padre, mi immaginerò anche quella della mamma di Megan.»
«Come, prego?!»
Annuisco severa. «È una pezza di merda stratosferica, sul serio, forse quasi quanto tuo padre, ma Megan mi proibisce di incontrarla per darle una lezione. Quindi, aggiungo pure lei alla metafora, così non mi spaccherò niente, l'adrenalina sarà dilagante, in me, quanto le cascate del Niagara.»
«Sai cos'altro dilagherà? Il numero d'anni che passerai dietro le sbarre.»
«Non sottovalutare così i miei ganci destri, io sono un prodigio negli sport di combattimento, hai visto anche tu quant'è stato meraviglioso il mio german suplex.»
«L'unica cosa che vedo al momento è una pazza omicida che vuole prendere a pugni un rompicapo perché troppo idiota per risolverlo con l'intelligenza.»
«È il motto di vita di noi Ellis: "Quando ti ritrovi davanti a un muro che non sai come superare, sfondalo."»
«Io non mi spiego com'è possibile che nessun membro della tua famiglia abbia sulle spalle una condanna all'ergastolo.»
«Sappiamo dove nascondere i cadaveri, mi pare ovvio.»
«Ashley Ellis.»
«Ok. Ci sono.»
«No, tu non ci sei per niente, tu sei nel mondo degli stupefacenti.»
«Niente stupefacenti, Ulyscemo, solo una sana voglia di pestare a sangue gli stronzi, metaforicamente.»
«Lascia le metafore a Colpa delle stelle e ritorna al mondo umano, donna–gorilla.»
Tirapugni in posizione. Braccio in posizione. Voglia di pestare a sangue Thomas Redmond e la signora Johns in posizione. Ignoro la voce di Ulyscemo, rompipalle che non è altro, e mi preparo a caricare uno dei miei ganci destri migliori, ma nel giro di un battito di ciglia, senza neanche che possa metabolizzare quanto sta accadendo, il mondo ruota attorno a me per un nanosecondo e quando riapro gli occhi mi ritrovo distesa a terra di schiena, con il braccio destro torto da Ulysses Redmond in persona, piegato su di me con la fronte accigliata.
«Che dia–»
Lui mi sfila in un attimo il tirapugni che mi stava coprendo la mano destra, per poi infilarselo in fretta e furia nelle tasche dei suoi pantaloni. «Io ti denuncerò per davvero, prima o poi» afferma categorico.
Sbatto le palpebre, sempre più allucinata, mi ci vogliono parecchi minuti per realizzare quanto appena vissuto, mentre lui si risolleva in piedi veloce e io mi metto a sedere, con un alveare di confusione a ronzarmi in testa. Quando mi guardo attorno, noto parecchie persone attorno a noi, a guardarci di sottecchi o con risolini sulle labbra, proprio com'era successo due giorni fa in palestra, con Seb. Persino la tipa dietro al bancone se la sta godendo, tra poco potrebbe tirar fuori un pacchetto di popcorn.
«Ulysses Redmond, mi hai appena stesa a terra... con un german suplex?»
«È questa la tua scala di priorità per le domande che hai da farmi? Per davv–» Si blocca nell'istante stesso in cui si ritrova me davanti, in piedi, il respiro ansimante.
«Dove hai imparato?»
«Come?»
«Non mi sono accorta di niente! Non ricordo neanche quando mi hai afferrata da dietro! Non ho sentito nulla! Dove hai imparato? Con chi? Da quanto? Perché non mi hai detto che sei così bravo anche negli sport di combattimento? Nessuno è mai riuscito a mettermi al tappeto senza che mi accorgessi di qualcosa! Hai idea di quanto peso? Ottanta chili! Ottanta! E tu lo stesso mi hai sollevato come fossi una piuma! Dimmi come ci sei riuscito. Ora. Subito.»
Contrae la fronte, il dubbio negli occhi, studia il viso con cui lo guardo, senz'altro infuocato a causa del fermento e l'eccitazione, e poi, lasciando sbigottito chiunque, me in particolar modo, scoppia in un'altra risata fragorosa, la più cristallina e sincera che abbia mai prodotto da quando ci siamo incontrati.
«Tu» dichiara, «hai davvero funghetti ballerini al posto dei neuroni, in testa.»
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