Difetto fatale
«Di' un po', i tuoi genitori quando vi hanno concepiti hanno chiesto aiuto a Belzebù, non è così?»
Trattengo lo sghignazzo, mentre poso il mio borsone sulla panchina che affianca il campo da tennis in cui io e Ulyscemo daremo vita a un'altra delle nostre sfide. Lui, alla panchina accanto, dal suo lato del campo, è in piedi con gli occhi che covano il palese desiderio di potermi dare fuoco.
«Nient'affatto, siamo solo il frutto del loro grande amore» rispondo serena, mentre sfilo dalla borsa aperta la mia bottiglia d'acqua e inizio a sorseggiarla a piccoli sorsi. «E ancora non hai conosciuto il maggiore, Reid. Forse lui lo apprezzerai, tutti quanti in famiglia concordiamo che è il cervello di noi Ellis.»
«Non che ci voglia molto, in confronto a te e al mezzano. Probabilmente persino un bambino che ha appena imparato ad allacciarsi le scarpe può essere considerato il cervello della famiglia, rispetto a voi.»
Lo guardo divertita, dopo aver preso un ultimo goccio d'acqua. «Metti da parte il tuo veleno, Ulyscemo, lo so che Seb ti sta iniziando a piacere.»
«Non affidarti troppo ai tuoi istinti, Ellis, sono gli stessi che ti inducono a credere che i film Barbie siano dei film decenti.»
Sono felice di vederlo di nuovo vipera, temevo che, dopo l'ultima discussione avuta con lui, il fine settimana, e l'evento attacco di panico, avrebbe ripreso la carriera da attore. Che ne sia cosciente o no, sta abbassando in parte uno dei tanti muri dietro cui si protegge non solo da me ma anche dal resto del mondo.
«Cos'è questa storia del mentire non sapendo di mentire?» mi domanda all'improvviso, stupendomi.
Richiudo il tappo sulla bottiglia, per poi rimetterla nella tasca esterna della borsa. Sapevo che prima o poi avrei dovuto parlargliene, temo tuttavia le conseguenze della verità. «Io e i miei fratelli abbiamo fatto una promessa» spiego alla fine. «Dopo L'incubo, cioè, dopo quanto mi successe a scuola, una volta che loro vennero a sapere tutto, mi fecero giurare che da quel momento in poi non gli avrei più nascosto e mentito su nulla. Ho promesso che se qualcosa mi preoccupava, ne avrei parlato con loro, non me lo sarei più tenuta per me, e tu sei stato il mio ultimo turbamento più grande, non lo nego, quindi ho parlato di te a loro.»
Le sopracciglia gli si contraggono tra la confusione e l'irritazione, ma non è sembra particolarmente adirato, il che mi solleva. «Ovviamente, solo per le parti che mi coinvolgevano» mi affretto a specificare. «Non riuscivo a capire se eri uno stronzo per davvero o per finta e non avevo idea di come comportarmi, se mandarti a fanculo e basta o provare a capirci qualcosa, così ho chiesto il loro parere. Sebastian è rimasto particolarmente... perplesso, nello scoprire che a volte alcuni mentono non sapendo di mentire, recitano ma non sono del tutto coscienti di star recitando. Lo conosci ancora poco, ma ti sarà ormai chiaro che lui è una persona onesta e sincera al massimo, è uno dei suoi più grandi vantaggi e al tempo stesso un suo immenso difetto.» Un altro risolino sfugge alle mie labbra. «Da ragazzina, lo odiavo per questo, o, per meglio dire, lo invidiavo così tanto da odiarlo. Al di là del suo unico neurone, Seb si risparmia tantissime turbe mentali e molti problemi, facendo così. Anche se, ovvio, non lo fa apposta, ma è comunque un bel modo di vivere la propria vita, sotto certi aspetti.»
Non risponde, si è di nuovo fatto rigido. Potrei pensare che è ancora alterato, ma ne dubito. Come al solito, a discapito della sua dilagante espressività, comprendere quel che pensa è pressappoco impossibile. Mi domando se arriverà mai il giorno in cui si sentirà abbastanza a suo agio per rivelarmi tali pensieri, perché, per quanto spaventato dall'idea di esser umiliato, avverto dentro la sua necessità incosciente di sfogarsi con qualcuno, avere per la prima volta un orecchio disposto ad ascoltarlo senza infangarlo con giudizi spietati e costanti. Ma per il momento è meglio non spronarlo di più, non voglio correre il rischio di pestare troppo il piede sull'acceleratore e finire così per far sfracellare entrambi.
«Perché proprio il tennis?»
Non sono minimamente sorpresa del suo repentino cambio d'argomento, decido però di lasciarlo fare. Se non se la sente, è giusto così. Un sorriso sadico mi deturpa le labbra. «Beh, dato che l'ultima sfida è stata tutta intellettuale...»
«Non esiste intellettualità in un King Kong femmina che distrugge innocenti rompicapo.»
«Questa sfida sarà tutta fisica» lo ignoro. Prendo la racchetta che ci è stata consegnata prima di accedere al campo, lasciata accanto al borsone, e inizio a rigirarla tra le dita, già gongolante dentro. «Le regole sono uguali: se vinco io, farai ciò che io desidero, se vinci tu, farò ciò che tu desideri.» Davanti alla sua stilettata con gli occhi, mostro il mio sorriso più spietato. «Pronto per vederti Barbie – La magia di Pegaso, Ulyscemo?»
«Non festeggiare così in fretta, Ellis.»
«Oh, non sto festeggiando, ti sto solo platealmente provocando.»
«Riserva le provocazioni a qualcuno che interessi davvero riceverle, non il ragazzo che ha avuto la punizione divina di dover condividere con te l'appartamento.»
«Addirittura una punizione divina? La tua stima di me mi commuove.»
«Nessuna stima, Ellis, se non nelle tue allucinazioni da schizofrenia. È un naturale vilipendio ai tuoi danni, il mio. Il solo e unico modo per compensare alla disgrazia di averti come coinquilina.»
«Confessalo, Ulysses Redmond, ti scrivi queste frecciatine nel tuo diario segreto prima di andare a dormire, vero?»
«Non meriti così tanta dedizione da parte mia, il massimo delle attenzioni che ti darei sarebbe una bambola vudù con cui procurarti un attacco di cuore pugnalandole il petto con uno spillo.»
«Per davvero, come diavolo ti escono? Non ci pensi neanche quando scocchi le tue frecce!»
«È un naturale istinto di difesa.»
Quasi gli lancerei il borsone in testa, ma non posso negare che dentro sto gongolando alla grande. Guardo l'orologio appeso alla parete del suo campo, tra dieci minuti potremo iniziare, con l'arrivo dell'arbitro. Mi ricontrollo un'ultima volta per assicurarmi che sia tutto in ordine: anche oggi il colore del giorno è rosa, una tinta unica per i tights aderenti che indosso e il top che termina a metà torace. Gli occhi mi ricadono sull'ombelico... vuoto, sussulto. «Giusto, stavo per dimenticarmene.» Sento lo sguardo confuso di Ulyscemo già addosso, ma lo ignoro. Con le mani, inizio a sfilare pian piano tutti i piercing dell'orecchio sinistro. «Gli altri ricordo sempre di toglierli, quelli alle orecchie, invece, non so perché, li dimentico ogni volta.»
«Puoi tenerli, per quel che mi riguarda, potrebbe essere per me la volta buona per renderti permanentemente sorda. Forse il solo lato positivo di avere due pezzi di carne trivellati che tu hai ancora il coraggio di chiamare orecchie.»
Mi sfilo veloce l'elix e lo ripongo nella tasca esterna allo zaino, opposta a quella della bottiglietta, dove giacciono tutti gli agli altri gioielli. L'occhiataccia che gli lancio è degna del suo veleno. «Non mi dire: sei uno di quelli contrari ai piercing, Ulyscemo?»
Un'altra freccia da parte sua, l'attimo dopo: «Non ho problemi coi piercing, ma mi è evidente che tu ne hai una vera e propria dipendenza, visto che solo con l'orecchio destro ricrei un albero di Natale in miniatura.»
Di per sé non è del tutto sbagliato quello che dice, visto che tra orecchio destro e orecchio sinistro in totale ho quindici piercing, ma non ho dubbi che mi sta recriminando ciò solo perché vuole rompermi le palle come al solito, non per un suo gusto personale.
Molto bene, Ulyscemo, molto bene.
«Non è dipendenza, semplicemente mi piacciono» replico ferma, mentre in testa sto già progettando il malefico piano con cui sconvolgere per sempre il suo animo da diva permalosa.
«Come ti piace soffrire, visto il dolore che comporta farsene uno.»
«Che esagerato, un banale piercing all'orecchio non è così doloroso» sghignazzo, vedo già la carta pronta da sfilare. «O vuoi accusarmi anche per quello che ho all'ombelico?»
«Io non accuso nessuno, sto solo constatando una realtà dei fatti.»
«Capisco, capisco, quindi ti preoccupa il dolore vissuto per quello all'ombelico, eh?» I suoi occhi si fanno confusi, specie davanti al mio tono innocente e volutamente stirato per ricreare una voce fanciullesca. «Allora è un bene che tu non sappia in che posto sono gli altri.»
È una violenza tremenda quella che applico al mio viso affinché resti di pietra e non ceda alle risate, davanti alla sua espressione stupefatta e, a tratti, anche un po' disgustata. Per la prima volta da quando lo conosco, so alla perfezione che cosa sta pensando, la prima immagine in assoluto che ha invaso la sua mente non appena ho detto "gli altri".
«Non mi guardare così, Ulyscemo. Puoi star tranquillo, non mi sto riferendo a parti del corpo anatomicamente designate alla riproduzione.»
«Allora ti è rimasto un po' di raziocinio, sto quasi per mettermi a piangere dal sollievo.»
Non posso più trattenermi, le mie labbra si arricciano agli angoli prima che possa bloccarle. «Mi riferivo ai capezzoli.»
Giuro, meriterei un premio solo per non scoppiare in fragorose risate davanti ai suoi occhi grigi sgranati al massimo. La carta segreta ha avuto l'effetto sperato, sono fiera dell'Ashley ventiduenne che prese la decisione di farseli, ne è valsa la pena solo per come l'ho sconvolto. «Si chiamano shield, sono dei piercing a cerchio, di solito, solo che, nel mio caso, sono brillantinati, rosa e a forma di cuore. Ne vado molto orgogliosa, sono i miei cuoricini, dopotutto.»
L'ho lasciato senza parole, non ci posso credere. Sono riuscita a lasciar senza parole la diva velenosa. Ora sono io che rischio di piangere per la commozione. «Fu un atto di autodeterminazione, per me, un modo per rivendicare a me stessa la femminilità che il mondo afferma io non possegga anche per via del mio seno scarso.» Lascio trascorrere qualche secondo di silenzio, così che il suo stupore accresca, per poi gettare l'ultima bomba: «E sono un sacco utili sotto le lenzuola.»
Evito di rivelargli che il motivo per cui finora non ha potuto notarli è perché quando sono in casa con lui o fuori, indosso sempre dei copri capezzoli in silicone, specie se non porto reggiseni. D'altro canto, sono piercing piuttosto in rilievo, è impossibile nasconderli se non in questo modo.
Dopo qualche altro secondo di silenzio, riesce a recuperare la sua faccia da diva, mi era un po' mancata, lo confesso. «Di', prima di farli lì, ne hai fatti altri al cervello, non è così? Quasi rimpiango quello di tuo fratello, il suo è bucato per natura, tu lo hai trivellato consapevolmente.»
«Per davvero, Ulysses Redmond? Ti scandalizzi per così poco? Inizio a sospettare che nel tuo aitante e giovane corpo da ventiduenne ci sia in realtà l'animo di un centenario vissuto nel primo dopoguerra.»
«Non c'è nulla da scandalizzarsi. Ti sto giudicando.»
«Un sacco di attori, cantanti e star hanno i piercing là, c'è gente che addirittura li ha in zone ben più intime dei capezzoli.»
«L'autolesionismo è una piaga della nostra società moderna.»
«Disse colui che passa ogni secondo di ogni ora di ogni giorno a studiare così da liquefarsi il cervello.»
«Disse colei che ha avuto il coraggio di farsi due piercing del genere fottendosene altamente dei rischi che avrebbe potuto correre.»
«Ti stai preoccupando per me?»
«No, sto rimpiangendo il fatto che tali rischi non si siano verificati. Se fossi stato fortunato, a quest'ora non condividerei l'appartamento con un King Kong femmina, vampiro e autolesionista come te. Avvisami quando verrai colta dalla brillante idea di ripetere un'esperienza estrema del genere, mi assicurerò di cercare uno studio di tatuaggi e piercing le cui recensioni sono tutte negative, per poi consigliartelo. La speranza non muore mai: invece che il paletto, chiederò al criminale di conficcarti nel cuore un piercing di argento.»
«Davvero, spiegami quest'ossessione che hai con i miei morsi.»
Sistema meglio la sua borsa di modo che stia al centro della panca e non rischi di cadere: non smetterò mai di rimanere inquietata dal suo perfezionismo. «Non ho alcun tipo di ossessione coi tuoi morsi. Come detto e ripetuto mille volte, io sto semplicemente tutelando me stesso.»
Storco un po' la bocca, mentre lo osservo prendere a sua volta la propria racchetta e passarsi la mano sui capelli per sistemarli all'indietro. Nonostante il piacere di averlo sconvolto in questo modo coi miei due cuoricini, il suo interessamento ai miei morsi mi sta inducendo a ipotizzare di nuovo. Non capita spesso di incontrare persone come me che usano i morsi come modo per dimostrare il proprio affetto, che sia in una relazione romantica o amichevole, è vero, ma non è del tutto impossibile, come invece appare agli occhi di Ulysses.
Mi domando... se il motivo per cui è così fissato sulla questione è perché fino ad ora non ha mai avuto modo di sperimentare un'intimità profonda con qualcuno, fuori dall'ambito sessuale, tale da permettergli di ricevere o fare – o anche solo pensare di ricevere o fare – gesti del genere. Avere un rapporto con l'altro talmente intenso da potersi concedere questi tipi di comportamenti, senza alcun tipo di esitazione e dubbio. Ciò che è naturale a chiunque nella sua mente è una vera e propria stortura, qualcosa di troppo. Quando ne parla, il suo tono è miscelato, ne percepisco sì il disgusto, ma anche una curiosità innata di cui è evidente lui stesso è inconsapevole.
Metto da parte anche quest'informazione, non è il caso di discuterne adesso, soprattutto perché l'arbitro è finalmente arrivato e ci sta chiamando. Un altro dubbio mi assale, mentre entrambi iniziamo a muoverci per la fase di riscaldamento.
Dovrei dirgli... del mio difetto fatale quando faccio sport con qualcuno? Considerando il tipo, sono sicura che neanche mi crederebbe, permaloso com'è, perciò accantono subito l'idea.
Lo scoprirà da solo.
Megan mi ha detto che Ulysses è un vero e proprio prodigio negli sport, ad eccezione del bowling, perciò sto già fremendo al pensiero di poterlo vedere in azione e di poterlo sfidare. Benché non giochi da parecchio tempo a tennis, sono molto sicura delle mie abilità.
Quel che spero è che lui le superi alla grande. Non me ne frega granché di vincere questa sfida, ad essere onesta, anzi, una parte di me spera che sia proprio lui a vincerla, proprio perché in questo modo potrebbe concedersi di fare quello che veramente vuole, invece che quello che si impone ogni giorno. Certo, ciò non significa che lo lascerò vincere apposta, darò il massimo di me, il fatto è che...
In testa ho già ideato un piano malefico per indurlo a guardarsi i film Barbie anche senza esser costretto da una possibile vittoria da parte mia in questa sfida.
E sono sicura al 100%, come Sebastian lo è che Megan è la sua anima gemella, che è un metodo che funzionerà alla grande.
Dopo il riscaldamento, finalmente possiamo iniziare a giocare. Il primo servizio è in mano ad Ulysses, già dietro la linea di demarcazione che recinta il suo campo. Eh sì, è davvero bravo, mi basta solo vederlo mentre si muove, già in posizione per sollevare in aria la pallina, per confermare quanto è abituato a questo sport.
Non resisto alla tentazione, provocarlo così che lui mi insulti con le sue battutine è diventato sul serio un mio fetish. «Non hai nulla da temere, Ulysses Redmond» urlo a gran voce così che mi senta, subito i suoi occhi scattano pieni di giudizio su di me. «Sono cresciuta a pane e sport da che ero una neonata, non sarebbe colpa tua se perdessi! È il destino dei grandi quello di incontrare, prima o poi, qualcuno che li sconfigga!»
Il fischio dell'arbitro risuona nell'aria, un peccato, perché mi sarebbe davvero piaciuto ascoltare la sua risposta velenosa. Lo guardo mentre nel silenzio assoluto dà inizio al servizio: per davvero, è sul serio un prodigio, una posizione perfetta già dal principio, non un solo movimento in eccesso, calibra ogni mossa affinché non gli risulti inutili riuscendo persino a mantenere la sua innata eleganza. Scruto quasi ammaliata il modo in cui muove la racchetta nell'aria, già piegata sulle ginocchia per attendere il servizio, e nell'attimo in cui odo il colpo della racchetta che si scontra con la pallina–
La stessa pallina mi sfreccia accanto, un vero e proprio proiettile, per andare a schiantarsi contro il recinto del campo. Non la vedo neanche, non ho nemmeno il tempo di capire cosa sta succedendo, sento soltanto il rumore dell'impatto sul pavimento del mio campo e il sibilo acuto che produce quando mi supera a missile.
Sbatto le palpebre, il cervello è paralizzato, un'indigestione di informazioni lo sta tormentando ed è merito del fischio dell'arbitro che alla mia destra urla «Ace!» se finalmente riesco a realizzare quanto appena accaduto.
Mi rimetto in piedi a fatica, mi volto a guardare la pallina ora a terra, lontana da me, ai piedi della recinzione. La voce della Diva, alle mie spalle, mi costringe a girarmi verso l'altro lato del campo. «Come dicevi, Ellis?» Non lo nasconde neanche, ora che lo sto fissando in viso, è più tronfio che mai, un sorriso sadico al massimo gli curva le labbra. «Il destino dei grandi, eh? Sono pienamente d'accordo. Questa sarà la volta buona per ridimensionare il tuo ego sportivo.»
La bocca si spalanca da sola, le conseguenze di questa sconfitta atroce si manifestano all'istante in me: brividi ovunque, i peli delle braccia che si rizzano, la mandibola che rischia di cadere a terra, un formicolio viscerale capace di indurre lo stomaco a rivoltarsi.
«Oh! Mio! Dio!» Le mie urla acute sovrastano il fischio dell'arbitro e fanno sussultare Ulysses, ma non ci bado, sono già in preda alla frenesia e all'eccitazione, il mio corpo sta saltellando da solo a destra e a sinistra con costanza, non riesco proprio a nascondere il gigantesco sorriso che mi sta aprendo la bocca. «Quel servizio era fantastico, Ulyscemo! Nemmeno papà mi ha mai fatto un servizio del genere! Cazzo, non l'ho nemmeno vista, la pallina! Chi ti ha insegnato? Giuro, ho la pelle d'oca! Guardami le braccia! Guardale! Sembra che i peli abbiano preso l'elettroshock! Dio, rifallo, ti prego! Stavolta starò più attenta, lo giuro, ma rifallo! Voglio vedere di nuovo un servizio così! Ehi, hai mai provato a calcolare a che velocità arrivano i tuoi colpi? Penso che potresti battere persino il record di Reid e Sebastian messi assieme, santo cielo!»
Eccolo, il mio difetto fatale negli sport di competizione.
Che sono di competizione, sì.
Ma io non sono competitiva.
Per niente.
Il mio lato da fanatica incallita per gli sport soprassiede qualunque desiderio possegga di vincere la partita – sempre che esista anche solo l'ombra di un desiderio simile, in me – e in risultato a ciò, anche quando sto venendo stracciata dall'avversario, invece che irritarmi, demoralizzarmi, incazzarmi...
Mi gaso.
Mi gaso un mondo.
Persino l'arbitro è stupefatto dalla mia reazione, mi fissa sconvolto dalla sua sedia a mezz'aria, ma di nuovo, non me ne può fregare niente, sono vittima dell'eccitazione. Non vedevo un servizio del genere dal vivo da anni, mio Dio! Sto letteralmente saltellando dietro la linea di campo da una parte all'altra, sconvolgendo sempre di più Ulysses, ma per la terza volta, non m'interessa. La frenesia è a livelli stratosferici, perché mi è ben chiaro che con lui non avrò una semplice partita di tennis.
Avrò una partita di tennis estenuante al massimo. Già lo richiesco a vedere: il sudore, le bestemmie, le imprecazioni...
Un nuovo brivido di eccitazione mi attraversa, costringendomi a scuotere tutto il corpo per potermi liberare. La confusione dilaga negli occhi di Ulysses, specie davanti al mio sorriso gigante, raro da parte mia che sono nota per la mia faccia di pietra, ma è così bello riuscire a vivere un'esperienza simile, al momento, che mi è proprio impossibile spegnerlo. Nell'attimo in cui gli viene restituita la pallina da uno degli addetti, il corpo ritorna a saltellare da solo. «Sono pronta! Prontissima! Rifai quel servizio! Anche più forte, se puoi! Giuro che risponderò a dovere, stavolta! Però rifallo, Ulyscemo!»
«Tu metti davvero la cicuta nel tuo succo al mirtillo, vero?»
La sua battuta mi fa scoppiare a ridere. «Giuro, non riesco a trattenermi!» provo a giustificarmi. «Che ci posso fare? Era un servizio stupendo! Quando mai ti capita di rivederlo?! Andiamo, Ulysses Redmond, fallo di nuovo! Sono super, mega, iper pronta, adesso!»
Lui resta fermo sul posto, la pallina ancora tra le dita della mano sinistra. Sono troppo lontana per poter vedere bene il suo viso e le sue espressioni nel dettaglio, eppure, anche così, percepisco in maniera inequivocabile non più solo lo stupore, ma anche... qualcosa di diverso. Il timore che pensi io lo stia prendendo in giro apposta mi assale, sfumando l'istante dopo, tuttavia, nell'attimo in cui di nuovo lancia la pallina in aria e dà vita a un secondo, straordinario, meraviglioso servizio dall'eleganza encomiabile.
Il sorriso arriva a squarciarmi le labbra, tanto dilaga.
Ulysses Redmond, per te io sarò una punizione divina.
Ma per la fanatica da sport che c'è in me tu sei tutt'altro.
Sei una grazia divina.
Il mio difetto fatale negli sport ha tante e orrende conseguenze.
La prima fra tutte è che l'avversario pensa lo stia prendendo per il culo, quando il mio lato nerd fuoriesce e inizia ad emozionarsi per le sue vittorie, arrivando addirittura a fargli i complimenti a raffica e ad analizzare ogni suo gesto nella sua prestanza fisica e professionalità con l'ossessione di uno scienziato con il suo topo da laboratorio. Se poi perdo, com'è successo oggi, tale dubbio nell'altro si accentua gravemente, perché è difficile credere che una ragazza che è stata stracciata alla grande dal suo avversario si ritrovi ad avere un sorriso ebete addosso, arrivando addirittura a canticchiare per l'emozione e a straparlare sulle meraviglie compiute proprio da colui che l'ha appena sconfitta, con tanto di viso a fuoco non per la fatica ma per l'entusiasmo.
La seconda è che non posso fare alcun tipo di sport a livello agonistico: la reale ragione per cui sin da piccola avevo deciso di diventare personal trainer, solo successivamente, proprio incontrando Megan, ho scelto di unire quest'idea a una carriera da nutrizionista. La mia passione per le attività fisiche, infatti, non riesce mai ad assumere preferenze specifiche, si mostra in forme diverse per sport diversi, ma sempre nella stessa quantità.
Sì, adoro in particolar modo l'MMA, ma se mi dovesse esser chiesto "Vorresti fare carriera come i tuoi genitori nell'MMA?" la mia risposta automatica sarebbe "No, mai". Se per mamma, papà, Seb e Reid dedicare la loro intera vita a uno sport specifico è un modo per sconfinare e ottenere la versione migliore di sé stessi, per me, invece, è un limite atroce. L'idea di passare quasi tutti i miei anni a impegnarmi su un'unica attività, senza poter sperimentare le altre con egual sacrificio, mi irrita non poco. Sarebbe un matrimonio vero e proprio con cui dichiarare fede eterna a una sola disciplina, lode e vanto specialmente per essa, e io possiedo uno spirito sportivo nubile, incapace per natura di instaurare un legame singolo, destinato invece a vagabondare da una conoscenza all'altra per poter riconoscersi in una relazione poligama.
La terza è che durante la partita il fermento e l'euforia mi permettono di rompere i miei limiti per poter ottenere il massimo dal mio corpo – soprattutto perché così posso indurre il mio avversario a dare anche lui il massimo –, ma una volta che suddetta partita si è conclusa, è proprio il fisico a cedere per primo e a patire gli effetti di aver gareggiato per lungo tempo sfruttando il 100% delle sue potenzialità. Se prima l'adrenalina agiva da anestetico così da impedirmi di avvertire i dolori, non appena inizia a ridursi ecco che le fitte sopraggiungono in un istante a vendicarsi su di me per essermene fregata alla grande di tutto e di tutti perché drogata al massimo per la mia passione.
Il risultato di ciò è quello che si vede adesso: un metro e ottantasette di donna sdraiato a pancia in su sulla sua panchina, così sudata da avere i capelli attaccati al viso, la frangia corta e di lato che mi si impiglia sulle ciglia dell'occhio destro, il respiro affannato, i polmoni due sacche incendiate, e un sorriso ebbro che mi corrode il viso. Non c'è una sola cellula del mio corpo che non si sta lamentando per i dolori, mai nella vita mi era capitato di affaticarmi in questo modo, nemmeno quando mi alleno con papà che è l'esemplare assoluto di vigore e resistenza della famiglia. Eppure, queste fitte strazianti a muscoli e nervi non mi infastidiscono, tutt'altro: sentirle mi emoziona come non mai, provoca sghignazzi e risatine continue, involontarie, che sfuggono dalle mie labbra ancora arcuate in alto.
«Io ti denuncerò presto.»
Non posso irritarmi per la dichiarazione di Ulyscemo, stavolta, mi rendo conto anche io di quanto inquietante sono in questo momento: sdraiata e con il sorriso di chi sembra essersi sniffata almeno dieci grammi di cocaina. Fatico persino a muovere gli occhi per spostarli dal soffitto alto che stavo fissando prima e posarli su di lui, in piedi alla mia destra, palesemente irritato e forse anche un po' disgustato.
Di nuovo, non posso biasimarlo proprio.
«Mi dispiace...» mormoro con grande sforzo. «Mi sono fatta prendere la mano, lo so.»
Le sue sopracciglia si arricciano in modo adorabile, prova della sua confusione. Non mi spiego come faccia a mantenere la sua bellezza e professionalità persino in un momento del genere: nonostante sia sudato e affaticato quanto me o addirittura più di me, non solo riesce a muoversi tranquillamente, ma addirittura mantiene il fascino di ogni giorno. I capelli biondi sono stati pettinati all'indietro con le mani così che non si attacchino al viso, la pelle è sì accaldata, ma non una fornace come la mia, una sottile pellicola di sudore lo riveste ovunque con grazia, rendendo così la sua tuta un velo leggiadro che scolpisce in maniera decisiva la proporzione dei suoi muscoli.
«Che razza di problemi affliggono la tua mente, donna gorilla?»
«Ehi! Mi stavo solo gasando per la tua bravura ed ero sincera, credimi!» Un sospiro mi scuote, facendomi sussultare le spalle. «Era da un casino di tempo che non mi divertivo così. Mi avevano detto che eri bravo negli sport, ma non pensavo così tanto, diavolo! Se lo avessi saputo, ti avrei proposto una partita simile molto tempo fa!»
Il suo ciglio si fa più profondo. Persino nell'ebrezza del fanatismo, realizzo il suo smarrimento. «Non ti stavo prendendo in giro, sul serio» mi spiego alla fine, il suo corpo ha un leggero sussulto. «Purtroppo, non possiedo neanche un goccio di competitività. Se vinco o se perdo, non me ne frega niente, voglio solo divertirmi, e quando l'avversario è forte come te, mi diverto il doppio ed esce la secchiona che è in me. Lo faccio con tutti, giuro. È uno dei motivi per cui Sebastian vuole lanciarmi dalla finestra, ogni volta che faccio sparring con lui, oltre al fatto che lo sconfiggo sempre, nonostante questo.»
Qualche secondo di silenzio, da parte sua, l'attimo dopo la mia visuale su di lui viene coperta da un tessuto bianco che mi viene letteralmente lanciato sul viso senza alcuna grazia. Ci impiego qualche secondo per riuscire a capire cos'è successo, stringo tra le mani quanto Ulyscemo mi ha scagliato addosso, il mio sorrisetto aumenta non appena, sollevandolo per liberare i miei occhi, mi accorgo che è uno degli asciugamani gratuiti offerti dalla palestra. Li avrà chiesti all'arbitro prima di raggiungermi. Torno a guardarlo, ne ha uno a sua volta sulle spalle, ne sta usando l'estremità destra per asciugarsi il volto.
«La mia ipotesi che tu sia nata mediante un gene demoniaco trasmesso di generazione in generazione nella tua famiglia si fa sempre più fondata.»
Stuprando ciascun mio muscolo, mi costringo a rimettermi a sedere, il solo modo per poterlo vedere bene, ancora in piedi davanti a me. Cerca di celarlo, ma è evidente che i suoi pensieri sono in subbuglio, sospetto sia dovuto non tanto per il mio modo strano di vivere le partite, quanto perché lui stesso, più e più volte, tra un set e l'altro, si è ritrovato a sorridere senza accorgersene sia per i miei commenti che per la sfida in sé.
«È il mio difetto fatale: non possiedo un briciolo di agonismo.»
«Non vedo come possa essere un difetto» ribatte, lo sguardo rivolto al campo ora vuoto, con i vari addetti che lo stanno ripulendo pian piano.
«Tutto è un difetto, se portato all'estremo» rispondo, iniziando ad asciugarmi anche io la faccia e, soprattutto, i capelli. «Me lo spiegò una volta il mio psicologo. Non mangiare nulla per giorni o mangiare troppo per giorni è controproducente in entrambi i casi, sebbene siano situazioni agli opposti. Questo vale con ogni cosa di noi esseri umani. Essere competitivi al massimo o non esserlo per niente è pericoloso in egual misura. È nella parsimonia e l'equilibrio che si trova il benessere; l'eccesso, al contrario, si trasforma in un comportamento nocivo tanto per gli altri quanto per noi stessi.» Un altro sospiro mi attraversa, non appena il tessuto fresco dell'asciugamano va a lenire il bruciore sulla nuca. «È per questo che non ho mai voluto fare uno sport a livello agonistico.»
Ancora silenzio da parte sua, mi chiedo che diavolo stia pensando, in tutta la confusione che gli deturpa il viso e con cui continua a scrutare uno dei ragazzi addetti a recuperare le palline, con occhi vuoti, senza guardarlo davvero. «Immagino i tuoi avversari non sarebbero stati particolarmente felici, se come oggi ti fossi messa a strillare entusiasta e fare la loro cheerleader accanita nel bel mezzo della partita.»
Non mi aspettavo una battuta del genere, quasi priva di veleno, proprio adesso. Sentirla mi rilassa in parte i nervi, è la conferma che non ha visto il mio fanatismo come una presa in giro o una forma sottile di umiliazione per lui, è un altro passo in avanti rispetto a prima.
«Già» confermo. «A scuola, prima che ogni cosa esplodesse, un sacco di ragazzi mi detestavano per questo. Anche quando mi trattenevo e non dicevo niente durante le partite, si irritavano perché dopo, una volta concluse, mi gasavo da morire nel ricordare le prestazioni delle squadre rivali, soprattutto se ci avevano sconfitti.»
«Ehhh» lo sento soffiare con voce sarcastica, lo guardo con la bocca coperta dall'asciugamano, mentre lui continua a passare il suo sul mento. «Non tutti sanno ammettere le qualità di chi li ha sconfitti, preferiscono dire di aver perso per cause esterne a loro. Un blando tentativo di ignorare i propri errori per rimetterli ad esterni.»
Da sotto il tessuto, le mie labbra si arcuano ancora. «Mi hai appena fatto un complimento?»
«Uccidi all'istante una speranza del genere. Semmai verrà un giorno simile, chiederò personalmente una lobotomia per me stesso, la giusta punizione per aver lodato un King Kong come te.»
Nonostante ciò, sono sicura che lo fosse per davvero, un complimento. Sono... sollevata che abbia compreso i miei intenti da fangirl per lo sport, benché corressi il rischio di ferirlo in questo modo. Sapere che ha colto da subito le mie reali intenzioni, senza fraintenderle... è confortante. Forse è addirittura la prima persona che conosco che le realizza all'istante, senza necessità di troppe spiegazioni da parte mia, nemmeno Sebastian e Reid, da bambini, lo avevano compreso subito. Seb si adirò alla grande, una volta, dopo una nostra partita di basket, competitivo com'è.
È un bene che sia così accaldata di mio per la fatica, posso giustificare la nuova vernice di rossore sul mio viso con questo, semmai la notasse.
«Dove hai imparato a giocare così bene a tennis?» gli domando, le sue spalle si irrigidiscono. Dannazione, quindi era meglio non chiederlo.
Continua a fissare il campo, la ragazza che sta ripulendo il pavimento con il mocio e il detergente apposito. Per un minuto intero, mi lascia senza risposte, per poi bloccarmi prima che possa cambiare argomento: «Mi sono allenato con costanza per ogni sport principale e più in voga, sin da bambino. Mio padre riteneva necessario per la mia crescita che fossi dinamico in ogni ambito, incluso quello atletico, così ho avuto insegnanti privati per ogni genere di sport.»
Mi sorprendo che abbia deciso lui per primo di citare il padre, era nelle mie intenzioni farlo, prima o poi, per proseguire il discorso lasciato interrotto durante la nostra ultima litigata. Ero troppo incazzata, all'epoca, dopo quanto scoperto sul suo sacrificio, per poter riflettere con coscienza sulla nostra situazione e soprattutto la sua.
Tra le mie filosofie di vita, c'è sempre stata quella di non affidarmi mai alle voci e alle bocche altrui per giudicare qualcuno. Preferisco sempre dare il mio giudizio sulla persona solo una volta averla incontrata per davvero. Ovviamente, un'idea generale posso farmela mediante quanto mi è noto sul suo conto, ma la lascio sempre isolata, in un angolino in disparte del cervello, senza farvi troppo affidamento. È un codice morale che mi auto impongo per non scadere nella stessa superficialità con cui vengo criticata ad oggi per quello che sono in apparenza, motivo per cui anche per Thomas Redmond – nonostante le varie dichiarazioni che ha fatto e ho letto e l'evidente bigottismo che maschera dietro la sua raffinatezza – ho cercato comunque di non condannarlo all'istante.
Ma dopo aver saputo la verità sul perché Ulysses si è comportato con me in quel modo, sul perché non può nemmeno chiedere di trasferirsi in un altro appartamento, mi è impossibile rispettare tale codice.
Può nasconderlo, provare a dar la colpa ad altri, lui, ma sarebbe inutile. Ai miei occhi è chiaro che Thomas Redmond per Ulysses non è un semplice padre.
È un aguzzino.
Pur di far sì che il signor Redmond non venisse a sapere dell'errore che aveva commesso, Ulysses si è finto uno stronzo che non è, perché il meraviglioso multimilionario avrebbe condannato lui e me, non sé stesso, se fosse venuto a conoscenza di avermi scambiata per un uomo.
E non ho più dubbi: la causa dell'attacco di panico dello scorso fine settimana è senz'altro Thomas Redmond. Forse ce ne sono state anche altre, come i coniugi Geenstone, ma di sicuro Thomas Redmond è una di queste.
Così come non ho più dubbi su chi gli ha ficcato in testa quell'idea tossica e malsana che un uomo che soffre di attacchi di panico o vomita per un trigger psicologico non è un uomo, solo e soltanto un debole che merita di essere umiliato. La ragione principale che ha portato un ragazzo di ventidue anni a credere che il dolore sia sempre da nascondere, mai da condividere con altri.
Il suo stacanovismo, la dipendenza dallo studio e dal lavoro, a loro volta possono essere stati indotti sempre da quello stronzo di Thomas Redmond. Quanto mi ha detto sulla sua vita sportiva sembrerà nulla, ma è in realtà un'informazione importante: suo padre riteneva necessario che lui fosse dinamico in ogni sport. Considerando l'urgenza di Ulysses di esser egregio in tutto, sospetto che per lui la parola "dinamico" sia sinonimo della parola "perfetto".
Quel che dubito è che Ulysses realizzi di essere vittima del padre. Con grande orrore di Sebastian, è più probabile che il suo inconscio lo intuisca o addirittura già lo sappia, ma a livello logico e razionale Ulysses continui a restarne ignaro. Una parte di lui è consapevole che i comportamenti di Thomas Redmond non sono né giusti né umani – altrimenti non si sarebbe sacrificato in quel modo per me, all'epoca una totale sconosciuta – ma l'altra, la più preponderante, li ritiene naturali e doverosi, tanto da fargli credere che chiunque incontrerà al di fuori del contesto familiare sarà proprio come suo padre.
Mente non sapendo di mentire.
«Ti va di parlarne?»
Difficile per me tirar fuori il quesito, la mia voce è granulosa e non per via della fatica, la sento grattarmi la gola come se un fiume di biglie roventi la stesse attraversando per sfociare poi dalle labbra.
«Hai proposto di giocare a tennis con questo obiettivo, quindi? Volevi farmi stancare al massimo nella speranza di indurmi a parlare?»
«No» rispondo all'istante. «Ti ho chiesto di giocare a tennis insieme perché volevo divertirmi con te, dato che mi avevano detto che eccelli nello sport. Ti sto facendo questa domanda adesso, invece, perché voglio saperne più su di te e sulla situazione in cui sono coinvolta anche io. Se però non vuoi parlarne, mi va bene, non ho fretta.»
Il suo corpo riprende a irrigidirsi, mentre il profilo è ancora chino sul campo da tennis adesso vuoto. Dopo qualche istante, sospira e con mio grande stupore si mette a sedere al mio fianco. O meglio, dall'altro lato della panchina, opposto al mio e con grande distanza dal mio corpo, ma ciò mi entusiasma lo stesso. Sebbene continui a guardare dritto davanti a sé per non guardare me, sono io la persona a cui sta pensando e sono sempre io quella a cui vuole dare delle risposte.
«Cosa vuoi sapere esattamente?»
Il suo tono è duro, freddo, in contrasto con il calore che emanano i nostri corpi sudati. Continua a stringere l'orlo dell'asciugamano che gli copre le spalle, ma non lo usa più per tamponarsi il volto, lo stringe soltanto.
«Voglio sapere quello che tu ti senti di dirmi in merito al casino che sta provocando tuo padre.»
La fronte gli si contrae d'istinto, non appena lo nomino. «Definisci "casino".»
«Casino nel senso di quello che tuo padre farebbe, se venisse a sapere dell'errore che ha commesso scambiandomi per un uomo.»
Serra la mandibola, lascia andare l'asciugamano che gli ricade al fianco sulla panchina, nello spazio vuoto che ci separa, con la fatalità di un corpo moribondo. «C'è poco da dire» risponde, il suo tono si sta facendo meccanico, un tentativo di distanziarsi non solo da me ma anche dalla stessa verità che mi sta mostrando. «Non sarebbe contento nello scoprirlo, tutto qua.»
«Posso comprendere la sua scontentezza, quel che non comprendo sono altre cose, lo sai.» I suoi occhi si fissano sul pavimento, tra i suoi piedi, le scarpe da ginnastica bianche. Sospiro. «Ti farò delle domande, se non vuoi rispondermi, resta in silenzio, ok?» Sbatte le ciglia, cheto, prendo a mia volta coraggio: «Prima di tutto, era una volontà sua o tua, quella che tu avessi solo e soltanto coinquilini maschi?»
Le sue dita tamburellano sulla coscia tesa, continua a non guardarmi, ma compie l'ennesimo passo in avanti. Il suo desiderio e bisogno di parlare, suppongo, è troppo invasivo, ora che ha trovato qualcuno disposto ad ascoltarlo senza giudizi. «Più o meno... di entrambi, ma per motivi diversi.»
«E il motivo di tuo padre quale sarebbe?»
Il tamburellio si ferma per un istante soltanto. «Lo ritiene più... conveniente per me.»
Il ciglio mi deturpa la fronte. Gli occhi di Ulysses si corrodono per un timore evidente, il dubbio se proseguire o no. «Sono abbastanza certo che il motivo per cui ha commesso l'errore con te» ammette alla fine, dopo un altro minuto di pausa, «è proprio per via del tuo aspetto.»
Mi ci vuole fin troppo tempo per riuscire a fare il collegamento, quando la mente lo realizza, l'orrore mi deturpa il viso intero. «Mi stai dicendo... che il motivo per cui tuo padre ha accettato me come tua coinquilina e in generale vuole che tu condivida l'appartamento solo e soltanto con uomini è perché spera che così tu possa...» mando giù un tappo di acido e saliva che mi ha otturato la gola, «virilizzarti?»
Non ha neanche bisogno di rispondermi, la luce che deflagra nei suoi occhi è sufficiente. Nel vedergliela un'altra esplosione nasce, ma in me, stavolta, ed è l'esplosione dell'ira. Contraggo il corpo per mantenerlo stabile, impedire alla mente di arrendersi a questo sentimento così primitivo. «È una delle accuse che farebbe a me e a te, se venisse a sapere dello sbaglio? Condannerebbe me per il mio aspetto, tirando fuori chissà che insulti assurdi, e condannerebbe te perché... io, donna, sembro più uomo di te, secondo lui?»
Gli leggo di nuovo la risposta in faccia, il disgusto infetta il sangue nelle vene, generando costanti ondate di nausea. Cristo, ora mi è chiaro perché mi detestasse così tanto, agli inizi. Non c'è da sorprendersi. Non appena mi ha scorta, non appena ha capito che io sono in verità una donna, per lui deve essersi realizzato uno dei suoi incubi più grandi: il perfetto pretesto per il padre per distruggerlo e riconfermare la sua debolezza.
È un bene che io non abbia mai incontrato dal vivo Thomas Redmond, perché non avrei esitato un secondo a uscire dalla palestra per andare a sfondargli il setto nasale, se così fosse stato, ora che gli occhi di Ulysses mi danno un'altra conferma. Credo che questa sia la prima volta in assoluto per me che devo violentarmi pur di costringere il corpo a restare fermo sul posto, seduto alla panchina, pur di bloccarmi dal guadagnarmi una bella sentenza d'ergastolo per aver ucciso Thomas Redmond con un pestaggio estremo. Ho quasi terrore di me stessa, perché animale è il modo in cui il mio istinto vuole correre da quello stronzo per trasformare il suo viso in un quadro di sangue, denti rotti e bulbi oculari esplosi.
Il viso mi si deturpa da solo, maciullato dall'ira, le gengive iniziano a bruciare per la furia con cui sto serrando i denti nel tentativo blando di contenermi. Prendo un grosso respiro, il più grande mai preso in ventisei anni di vita, al punto che i polmoni, ancora sacche di fuoco, rischiano di scoppiarmi in petto. «Ok» mormoro alla fine, obbligando la voce ad assumere un tono naturale, «ora mi è chiaro tutto.»
Si irrigidisce con più forza di prima. L'istinto in me mi urla di stringerlo o comunque provare a consolarlo, in particolar modo quando la luce nei suoi occhi si riveste di vergogna e umiliazione, ma mi trattengo anche in questo. Non mi è ancora chiaro che difficoltà lui abbia col contatto fisico, fino a che punto si estendano, e non voglio in alcun modo che lui si veda come un caso di carità o di pietà per gli altri.
«Adesso capisci» dice, la voce roca, «perché era meglio che te ne andassi via subito?»
Un altro, grosso respiro. «Sarebbe stato meglio, se me ne fossi andata?» domando. «Staresti stato davvero bene con te stesso, dopo esserti finto uno stronzo sessista con me e avermi guardato andarmene via perché ferita dalle tue parole?»
«Non stavamo parlando di me, qua.»
«Stiamo parlando anche di te. Non so esattamente come la vedi tu, ma io e te, nella mia testa, stiamo sullo stesso piano, io non ti sono superiore così come tu non sei superiore a me. Le mie eventuali ferite non valgono più delle tue o meno delle tue, ma quanto le tue.»
Il tamburellio delle dita sulla coscia si accentua insieme al ciglio in fronte. «Tuttavia» sospiro alla fine, «se anche adesso vuoi che io me ne vada, lo farò.»
Il suo capo scatta su di me l'attimo dopo, sconvolto, provocandomi un sorriso amaro. «Ad essere sincera, non so proprio dire qual è la soluzione giusta a questa situazione, la risposta corretta» confesso. «Detta in maniera franca, tuo padre potrebbe pure chiamarmi maschia, ermafrodita, schifosa malata, urlarmi contro le peggio nefandezze, e non me ne fregherebbe un cazzo. Tra lui e un sacco di merda non c'è alcuna differenza, ai miei occhi. Tuttavia, tu non puoi dire la stessa cosa, perché quello, giusto o sbagliato che sia, è e resta tuo padre. So bene che c'è un mondo intero dietro al vostro rapporto e di cui sono all'oscuro, per questo non posso avere la pretesa che tu lo mandi a fanculo o te ne sbatti improvvisamente i coglioni di lui, come faccio io, solo perché io possa continuare a vivere là. Non mi conosci nemmeno da così tanto tempo, sarebbe ipocrita da parte mia forzarti in questo modo. Al momento, nella mia scala di priorità per questa situazione di merda in cui ci troviamo, tu sei al primo posto.»
Lo stupore dilaga ancor più nei suoi occhi, aumentando l'amarezza del mio sorriso. «Se tuo padre scoprisse tutto, per me non ci sarebbero problemi, perché, come detto, me ne sbatto i coglioni di lui, dato che è un totale sconosciuto. Stessa cosa non si può dire per te: è tuo padre, in fondo. Perciò, ora, l'unica cosa che posso fare è darti il mio pieno sostegno e il solo modo che mi viene in mente per riuscirci è proprio chiedendoti cosa vuoi tu, cosa senti di aver bisogno per tutelarti un po' dagli eventuali danni che tuo padre potrebbe causarti. Se pensi che sarebbe meglio che io traslochi, lo farò. Sia chiaro» mi affretto ad aggiungere, non appena noto una goccia d'ombra macchiargli gli occhi, «non lo sto proponendo perché provo pietà per te, men che meno perché ho un fine caritatevole. Come detto, io rinnego qualunque forma di sacrificio: così come non tollero che qualcuno lo faccia con me, così mi rifiuto di farlo io con altri. Questo non sarebbe un sacrificio, sarebbe un sostegno per te che sei incastrato in una situazione scomoda, a differenza mia.»
Gli lascio il tempo di digerire per bene le mie parole da solo, con i propri pensieri. Volgo lo sguardo sul recinto alto che delimita il campo da tennis, la porta a rete chiusa da cui presto dovremo passare per andare agli spogliatoi. Forse ho esagerato? Difficile da stabilire. Sopperisco al nervosismo iniziando a battere il piede destro sul pavimento, un ritmo sottile il cui suono frequente va a confondersi con i rumori ovattati dell'altro lato del piano, la zona pesi e attrezzi. Dopo ben cinque minuti di totale silenzio da parte sua, sospetto che mai troverà una risposta, apro la bocca per suggerirgli di pensarci in questi giorni, ma lui mi anticipa: «Non ti farebbe arrabbiare?»
«Cosa?»
«Dover traslocare per colpa mia?»
«Non vedo come questa possa essere una tua colpa, non sei stato certo tu a chiedere di nascere da un bigotto come tuo padre» faccio presente, continuando a guardare la porta chiusa, accelerando il ritmo del piede.
«Non mi riferivo a questo.»
«A cosa ti riferivi, allora?»
«Che io non affronti mio padre, costringendo te ad andartene.»
«Prima di tutto, non mi stai costringendo, sono io che ho fatto l'offerta. Secondo, anche se non lo conosco di persona, ho un'idea piuttosto chiara su tuo padre, ora che mi hai spiegato meglio il problema. Ho avuto a che fare con i tipi come lui per un sacco di anni, ne incontro una miriade anche adesso, so bene che affrontare, in casi come i suoi, non serve a niente. Non sono persone con cui si può instaurare un dialogo sano, sono troppo fossilizzati sui loro preconcetti, affrontarli, nella gran parte dei casi, equivale a buttarsi nelle loro fauci e uscirne moribondi, specie se si ha un rapporto profondo come quello di un genitore con suo figlio. In terzo luogo, so che non mi crederai, visto che per te sono solo la prossima Ted Bundy al femminile, ma forzarti a fare qualcosa che non senti di esser pronto a fare non mi piace: violare la volontà di un'altra persona non mi appassiona granché, mi disgusta proprio.» Mi blocco per qualche secondo. «Certo, nel caso di stronzi come tuo padre, violare non la loro volontà, ma alcuni degli orifizi a loro estremamente cari, con armi contundenti, è invece un hobby di cui vado molto fiera.»
«Per davvero? Persino in un momento del genere hai voglia di vantarti dei tuoi pestaggi?»
«Non ci posso fare niente: sono un King Kong femmina, non è colpa mia.»
Non lo sento ridere, ma l'aria tra noi sembra essersi fatta più leggera, la battuta ha sortito l'effetto sperato (anche se non era una battuta).
«Come detto, se vuoi che me ne vada, me ne andrò. Potrai usare qualunque scusa con tuo padre per giustificare il mio improvviso trasferimento.» Storco un po' il naso, d'improvviso pruriginoso. «Tuttavia, se tu non vuoi che me ne vada, per qualsiasi ragione, ma ti obblighi a volerlo, lì sì, mi arrabbierei.»
«Dubito esistano alternative, Ellis.»
«Sei un ingenuo, Ulysses Redmond. Io sono la degna nipote di nonna Titti, la stessa che al colloquio di lavoro, quando le domandarono se fosse sposata o avesse figli, mentì dicendo no a entrambi i quesiti e si spacciò per una cattolica estremista che aveva fatto voto di castità, solo per poter ingannare il suo datore di lavoro per dieci, lunghi anni, diventare una dipendente fondamentale senza cui l'azienda sarebbe andata allo scatafascio, così da licenziarsi nel momento in cui la ditta era più in crisi di personale. Coprì la scrivania di lui con tutte le foto di suo figlio, mio padre Theodore, e suo marito e sopra lasciò la lettera di licenziamento con tanto di Post Scriptum finale: Così impari a fare domande di merda ai colloqui, stronzo.»
«È un'altra delle sue leggende?»
«Nessuna leggenda, lo ha fatto sul serio.»
Riprendo a guardarlo. Prometto a me stessa di portare un pupazzo a forma di koala a nonna, questa domenica, per ringraziarla di come, grazie alle sue storie assurde, sono riuscita ad allibire in questo modo Ulysses Redmond e alleggerire un po' il peso che gli grava sulle spalle.
«Come ti stai comportando con lui, al momento, per evitare che si renda conto dell'errore?»
Il tamburellio si accentua ancora di più. «Al momento, non gli ho detto niente. Lui non ha realizzato nulla. Penso proprio che abbia cestinato la tua cartella, ormai. Il solo modo in cui potrebbe capirlo è incontrandoti.»
«E quanto sono elevate le possibilità che ciò avvenga?»
Ulysses storce un po' le labbra, di nuovo accigliato. «Di solito, se mi viene a trovare, lo fa nel weekend. Durante la settimana ha troppi impegni per riuscirci.»
Lo sospettavo.
«Ti avvisa sempre, quando ti viene a trovare?»
«No, non è lui ad avvisarmi, è Darleen a farlo ogni volta. Mi manda un messaggio non appena mio padre prende la decisione.» Davanti al mio smarrimento, mi spiega: «Sua moglie.»
Un'altra sorpresa. Sapevo della moglie di Thomas Redmond, l'ultima dopo una lunga serie di matrimoni falliti e, stando a quanto mi ha detto Megan, anche la più giovane rispetto a tutte le altre. La sua età si aggirava sui trent'anni, se non sbaglio, una bella differenza rispetto ai sessanta del coniuge. È un po' strano pensare che la matrigna di Ulysses abbia poco più di una decade rispetto a lui, non voglio nemmeno immaginare che sensazioni crea in Ulysses stesso, tutto ciò.
«Lo fa per aiutarti?»
«Non saprei» ammette. «Io e Darleen non ci parliamo molto. Ha preso quest'abitudine da quando mi sono trasferito. Se lo fa per aiutarmi o per altri motivi, non mi è chiaro e non gliel'ho mai chiesto. Penso che lo faccia, più che altro, per evitare che mio padre si alteri nell'eventualità che venga a trovarmi e io non sia in casa.»
Perché sarebbe lei la persona con cui sfogherebbe la sua rabbia.
Non lo dice, ma è una conseguenza naturale a quanto ha appena affermato. Non so stabilire se tale sfogo sia solo verbale o fisico, ma è evidente che è distruttivo in ambedue i casi. Più cose so su di lui, più la mia voglia di pestare a sangue Thomas Redmond accresce a dismisura. Il semplice fatto che va a far visita al figlio con la pretesa di trovarlo in casa, ogni volta, nel weekend – il periodo in cui noi ragazzi usciamo di più –, pur non avendolo avvertito del proprio arrivo, dice molto sul suo conto.
Mi passo un'ultima volta l'asciugamano sul viso ormai asciutto, masticato dall'ira. «E ti viene a trovare ogni fine settimana?»
«No, a volte non lo fa per un mese intero e si limita a contattarmi per telefono, dipende se ne ha voglia o meno.»
Se ne ha voglia o meno. Che frase abominevole per un padre che dovrebbe prendersi cura di suo figlio.
«Chi altro sa dell'errore commesso da tuo padre?»
«Al momento, solo io e te.»
«E il proprietario dell'appartamento?»
«Dubito lo abbia ancora realizzato, altrimenti mio padre già lo avrebbe saputo.»
Mi mordicchio il labbro inferiore coi denti. «Al proprietario posso pensarci io» suggerisco, il suo sguardo si corruccia di nuovo. «Ti ricordi cosa ti ho detto in merito ai miei colpi di fortuna? Beh, si dà il caso che il proprietario sia un fan accanito di MMA» gongolo. «Quando ha saputo che ero la figlia di Theo La Bestia, l'ho proprio visto mangiarsi i gomiti pur di trattenere il desiderio irrefrenabile di chiedermi di presentarglielo di persona. Sono piuttosto certa che nasconderebbe persino un omicidio, se gli garantissi un incontro privato con papà. Ora che ci penso, anche il portinaio è come lui, l'ho visto guardarsi al telefono, di nascosto, un vecchio match di papà, devo ricordarmene per il futuro.»
«E tuo padre sarebbe d'accordo?»
«Oh sì. Se gli dirò che mi sarà utile, lo farà in un attimo. Non chiederà neanche il perché.»
Sembra... davvero incredulo. Un'altra prova del fatto che fino ad oggi nessuno mai si è dimostrato così disposto a sostenerlo in questo modo. Ignoro lo squarcio che mi si è creato in cuore, solo nel vederlo smarrito in questo modo. «Quante possibilità ci sono che tuo padre venga a trovarti durante la settimana?»
«Sono piuttosto basse, a dirla tutta. Durante la settimana, è sempre in viaggio per un lavoro o un incontro, ed è spesso anche fuori dallo Stato. Usa il suo jet privato. Nelle rare occasioni in cui può venirmi a trovare in quel periodo, Darleen non manca mai di avvisarmi.»
Strano ma vero, Darleen inizia a incuriosirmi molto più di Thomas Redmond. «Pensi che lei ti potrebbe dare una mano, se le spiegassi dell'errore che ha compiuto tuo padre?»
Le sue spalle tornano a irrigidirsi. «Non lo so. Come ti ho detto, non parlo molto con lei, non la conosco affatto. È entrata all'improvviso nella vita di mio padre e nel giro di un anno si sono sposati.»
Quindi non se la sente di affidarsi a lei. Non ha tutti i torti. D'altro canto, Darleen rimane pur sempre la moglie di suo padre: a parte quello stronzo, non ha alcun legame con lui. Non devo neanche dimenticare che Thomas Redmond colleziona divorzi come papà colleziona papillon, Ulysses ha visto una quantità assurda di donne diventare le sue matrigne e poi in pochi anni tornare ad essere delle totali sconosciute, un altro motivo, per lui, per non legarsi o credere troppo in Darleen.
Una parte di me è tentata di porgli domande in merito a sua madre, colei che l'ha messo al mondo e mi è evidente non fa più parte della sua vita in maniera attiva, la prima moglie di Thomas Redmond, ma metto subito in disparte il desiderio. Il fatto che si stia aprendo con me già sulla situazione in cui sono coinvolta è un gigantesco traguardo, non voglio calcare troppo la mano con lui. Sarà pure consumato dalla necessità di sfogarsi con qualcuno, ciò però non vuol dire che la lascerà esplodere e basta in un colpo solo.
«Ok» dico alla fine, «io vedo due possibilità, qua.»
«Pestare a sangue mio padre non è un'opzione.»
«Se lo fosse stata, sarebbero state tre possibilità.»
Non mi crede per niente, ha le sue ragioni per farlo, impossibile negarlo. «La prima è che io me ne vada, per l'appunto» spiego. «La seconda è invece proseguire come stiamo facendo ora, con la sola differenza che adesso che so la situazione in cui siamo messi, posso anche capire come comportarmi nel caso incontrassi per davvero tuo padre.»
«I pestaggi non contano, ripeto.»
«Se tuo padre pensa che io sia un uomo, allora glielo lascerò credere.»
È più allibito che mai, mi verrebbe quasi da ridere. «Adoro prendere per il culo i tipi come lui» gli confesso. «Vederli così fieri delle loro idee primitive, permettergli di gasarsi un mondo per essere nel giusto, così da tirargli il tappeto da sotto i piedi quando meno se l'aspettano. Forse persino più soddisfacente di pestarli a sangue. Lo lascerei convinto del mio essere un uomo per il tempo necessario e poi, quando tu te la sentirai non di affrontarlo, ma di prendere una tua posizione, per te stesso soltanto, gli butterò in faccia la verità. Potrei avere un orgasmo già al solo pensiero dei suoi occhi sconvolti.» Attendo qualche secondo. «Tuttavia, questa seconda opzione comporta il rischio di esser scoperti e quindi la possibilità che tuo padre si adiri. Un rischio che spetta a te scegliere se correre o meno, non a me. Comporta anche la necessità che tu mi informi, almeno a grandi linee, sulla situazione: quando tuo padre verrà a farti visita, ad esempio. Ti dovrai fidare di me e come tu stesso hai notato, non mi conosci ancora bene, perciò hai ogni motivo per rifiutare questa opzione e scegliere invece la prima.»
«E a te andrebbe bene? Dover traslocare così all'improvviso per via di un uomo come mio padre?»
Una smorfia mi attraversa. «No, per niente, non lo nego. Mi mancheresti troppo come coinquilino, soprattutto per le tue critiche alla mia amata Barbie. Inoltre...» Esito, prima di ammettere quest'altra verità: «Non mi piace l'idea che tu resti da solo come prima.»
Il suo corpo trasalisce appena, una scossa tanto violenta quanto invisibile.
«Se io me ne andassi, un altro coinquilino prenderebbe il mio posto e tu saresti di nuovo costretto a far fronte a questa situazione di merda senza nessuno a sostenerti. Potrei darti una mano da lontano, sì, ma non sarebbe la stessa cosa e non ho dubbi che riprenderesti a nascondermi tutto, approfittando della distanza. Non ti sto accusando, spero sia chiaro, è il modo con cui te la sei cavata finora, non è di certo con un'improvvisa coinquilina come me che puoi cambiare di colpo un'abitudine del genere. È proprio per questo che vorrei rimanere.»
Lo guardo negli occhi, sicura, la sua mandibola si serra.
«Per dimostrarti che ci sono altre strade. Altre strade che non comportano sacrifici e nemmeno isolamenti. Altre strade che comportano, al contrario, un sostegno vero. Come durante la partita di tennis prima, io sarò la tua cheerleader più accanita. Sarò sugli spalti a fare il tifo per te, che tu perda o vinca. Uno dei pochi vantaggi per un difetto fatale come il mio.»
Un sorriso leggero mi affiora in bocca.
«Perciò cosa scegli, Ulysses Redmond? La libertà dalla tua punizione divina o il sostegno della tua punizione divina?»
Nota autrice:
Sti due capitoli pubblicati avrebbero dovuto essere UNO, ma come ormai avrete capito io soffro di diarrea verbale.
E poi era da un po' che non parlavo di Ulyscemo, presa com'ero a tentare il suicidio a causa di Orange Boy Dante e il suo dannato dirty talking.
Eviterò il pippone analisi per oggi, lo farò al prossimo capitolo che sarà IMPORTANTE.
Posso però dire questo:
Due frecce de Cupido sono state scoccate.
Una da Ulysses per Ash.
Una da Ash per Ulysses.
Provate a indovinare QUANDO.
Sciau!
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