Automatic Laundry - a Christmas Tale

Storia vincitrice all'Advent Challenge indetta dal TheHopeTeam

Automatic Laundry:
A Christmas Tale
By Miryel

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Robert Chaplin ci ha messo esattamente quattro anni a smettere di bere alcolici, ma gli basterebbe un'altra giornata di merda come quella per ricominciare a farlo con la stessa dipendenza tossica di un tempo. Perché sì, giornate così, restano indelebili nei ricordi e non se ne vanno via nemmeno con una doccia.

Che poi, a dirla tutta, parlare di doccia proprio ora, che è fradicio da capo a piedi, non è esattamente entusiasmante. Trema come una foglia, riparato sotto al balcone di una palazzina che, per colpa di tutte quelle luci natalizie che decorano il quartiere, ha preso un colorito violaceo, quasi blu e ha perso, inesorabilmente, tutta la magia di quella vigilia totalmente da riscrivere. 

Si dà dell'idiota da solo, con le mani infilate sotto alle ascelle per scaldarle, e i chiede che accidenti gli ha detto il cervello quando ha accettato di lavorare durante le festività. 

Okay, è vero, lo ha fatto per evitare il cenone a casa dei suoi, perché lo sa che, alla fine, ogni volta si va a parare sempre sulle stesse, noiose e insopportabili argomentazioni: lui che si è rovinato la vita, lui che ha cercato di rimettersi sui binari, barcollando, e che ha buttato anni dietro a delle stronzate, come quel corso di Trading Online che gli aveva consigliato di fare quel tizio – sì, quello dell'università, che in verità cercava solo polli da spennare e Robert, a quanto pareva, di piume ne aveva abbastanza da farsi fregare – che lo ha lasciato senza un soldo, dipendente dagli alcolici e solo come un cane.

Poi è rinsavito, e si domanda ancora come sia stato possibile riuscirci, ma ringrazia il cielo di averlo fatto, solo che ora è tutto da rifare. La vita. Completamente da resettare e riorganizzarla e allora ha deciso di fare qualche lavoretto così, part-time, per guadagnarsi qualcosa e occuparsi finalmente di quello che ha sempre voluto fare: studiare economia e mettere la testa a posto. 

La strada però è ancora lunga, e per ora si accontenta di fare il driver di una compagnia famosa che si occupa di consegne a domicilio di cibo e bevande. È sconvolgente quanta gente, i giorni di festa come quello, non abbia alcuna intenzione di mettersi sui fornelli e cucinare e non si preoccupi della salute mentale dei poveri fattorini come lui. 

«Robert, idiota, te la sei scavata da solo questa cazzo di fossa!», sbuffa, mentre si guarda intorno, poi sconfortato ferma lo sguardo sul suo motorino, fradicio anche lui, che continua a prendere acqua grazie alla pioggia che ha deciso di cominciare a scendere giù peggio di un diluvio universale. Proprio ora che può staccare e andare a casa. Proprio ora che ha fatto la sua ultima consegna nella palazzina blu.

Lascia cadere le braccia lungo i fianchi, e sospira. 

«Questo è il karma. Potevi startene a casa a sentire tuo padre che ti redarguiva per non aver seguito le sue orme. Sarebbe stata una rottura di palle infinita, ma almeno saresti stato al caldo, vicino al camino.» Soppesa l'ultima parola quasi distrattamente perché, quando il suo sguardo si sposta altrove, incontra un negozio ancora aperto che, forse per via della disperazione e del freddo, sembra quasi una salvezza.

Si tratta di una lavanderia a gettoni, aperta ventiquattr'ore e, da quella distanza sembra più accogliente di qualsiasi altra cosa gli possa venire in mente, con il gelo nelle ossa e un rivolo di pioggia che gli è appena scivolato via lungo la spina dorsale.

«Tanto peggio di così non può andare», borbotta e, deciso, si incammina. Incrocia le braccia al petto e, rigido come un pezzo di cemento, si ferma di fronte alla porta. Il negozio sembra vuoto e la cosa non è più così rassicurante ma, dopotutto, non possono rubargli niente a parte un vecchio cellulare con il vetro rotto e un portafogli pieno di bigliettini da visita. 

Spinge la maniglia verso il basso e entra. Il calore di un condizionare lo avvolge; lo invade talmente alla sprovvista che rabbrividisce ancora, ma c'è qualcosa di bello in quel brivido. Si concede un gemito di approvazione che, però, richiude subito nelle labbra quando si rende conto di non essere solo.

Poco lontano, ma quasi in fondo alla stanza – non l'ha visto perché c'era un muretto a fare da scudo al suo campo visivo – c'è un ragazzo seduto su un sedile color vaniglia che ora lo sta guardando come se Robert fosse appena sceso da un'astronave o gli fosse spuntato un terzo occhio sotto al mento. 

«Ah», si lascia sfuggire. «Il proprietario?», chiede, indicandolo. 

Quello, che era seduto con i gomiti sulle ginocchia e guardava una delle lavatrici girare con dentro una manciata di indumenti, si mette dritto sulla schiena e Robert si rende conto di quanto sia alto, ora. E non osa immaginare quanto lo sarà quando si alzerà – e si sente a disagio perché lui non è un nano da giardino, ma nemmeno Michael Jordan, allora si morde le labbra.

«No, un povero sfigato che non si è portato l'ombrello», commenta quello e gli fa un sorriso che dura mezzo secondo. 

Robert sbuffa divertito. «Stesso club», risponde, poi lo guarda meglio. Ha capelli neri e tirati indietro, probabilmente non intenzionalmente perché qualche ciocca gli ricade sul viso lungo e snello. Ha occhi scuri e sopracciglia folte. Labbra fine e un naso un po' adunco, ma che porta con una certa eleganza. Ha indosso dei jeans grigi e una maglia a maniche corte nera, il resto degli abiti – deduce Robert – devono trovarsi dentro alla lavatrice che continua lo sconosciuto è tornato a guardare con una certa attenzione. 

Così, visto che c'è, decide di fare pure lui la stessa cosa: si toglie la giacca verde militare – prima la svuota del telefono, le chiavi del motorino, il portafogli e una caramella che sarà lì da almeno quindici anni – e il maglione blu notte e, senza pensarci, li infila nella lavatrice che ha di fronte e la manda con il programma che comprende anche l'asciugatura. Per lo meno, quando – o se – smetterà di piovere, non dovrà salire su quel motorino con i vestiti tutti bagnati, col rischio di beccarsi una polmonite.

Si siede qualche sedia più in là dello sconosciuto e, senza accorgersene, inizia a guardare l'oblò e i suoi vestiti girare tra il sapone e lo sporco della pioggia. 

Vorrebbe lavarsi anche lui, ma non pensa di entrare nella lavatrice. O forse sì. Di certo quel tipo, alto com'è, non ci entrerà mai. Gli viene da ridere a quel pensiero e, istintivamente, si volta a guardarlo. Sussulta quando vede che quello sta facendo lo stesso con lui.

«Vigilia di Natale a lavoro?», chiede, e lo fa con una certa tenerezza nella voce, e questo rende la domanda meno invadente.

«Sì», sospira Robert, poi si fa scivolare sulla sedia e poggia le mani sulle ginocchia, «Ho consegnato cibo a gente che se ne stava al caldo a festeggiare. Tu?» 

«Lavoro da Ikea», dice quello, e c'è una certa ironia mista a disperazione in quelle tre parole. 

Robert alza un sopracciglio, poi ride reclinando la testa all'indietro. «C'è chi va da Ikea la vigilia di Natale?» 

«Ma certo. Quale occasione migliore! E siamo aperti anche domani. Ovviamente sono di turno.» 

«Ti direi che non ti invidio se non fosse che lavoro anche io, domani.» 

«Molto rassicurante. Tu che porti cibo a chi è in ferie e io che vendo mobili a chi non ne ha davvero bisogno in un giorno come quello, ma che viene comunque a fare un giro perché, ehi, quella parete gli è sembrata così spoglia che ora vogliono comprare per forza quella mensola!» 

Ridono tutti e due, poi scende il silenzio, ma l'atmosfera è talmente rilassata che persino il suono delle lavatrici che girano rumorose è rilassante. Come se facesse parte di uno scenario accogliente, che sa di mura domestiche. E, per come è andata quella giornata, è moltissimo.

«Come ti chiami?», chiede lo sconosciuto, poi, all'improvviso e quando Robert si gira a guardarlo un po' preso alla sprovvista, alza le mani. «Mancano venti minuti alla fine della mia lavatrice, almeno quaranta alla tua, forse è ancora presto? Vogliamo aspettare il risciacquo?»

«Ti ho già raccontato metà della mia vita, direi che siamo già abbastanza in confidenza, no? Mi chiamo Robert», risponde, e in qualche modo quella battuta che ha fatto l'altro, gli ha messo un po' di sicurezza nel presentarsi a un completo sconosciuto, alto quasi due metri.

«Finn», dice l'altro e si stringono la mano, allungando le braccia, siccome sono a distanza di almeno un metro. 

«Abiti qui?», chiede lui, così, per fare conversazione. 

Finn fa un gesto con la testa che vuol dire sia sì, che no. «Più o meno. Sono ospite da un amico siccome sto andando via di casa e... beh, è complicato. In verità mi hanno cacciato di casa ma, ehi, ho un lavoro che mi sostenta – e che mi sta rubando l'anima, ma è la vita!» 

«Dio, mi dispiace.»

«A me no. Era una vita che me ne volevo andare. Mio padre è un omofobo di merda e mi ha cacciato quando ho fatto coming out. Mi ha solo fatto un favore e ha accelerato le cose.» 

Robert si ammutolisce. Non sa cosa dire perché, a dirla tutta, è una vita che vorrebbe fare coming out con i suoi, ma siccome è bisessuale si sente quasi tutelato dal fatto che, chissà, potrebbe portare a casa una ragazza e farli felici invece di deluderli perché ha portato un ragazzo. Sa che suo padre non si comporterebbe in maniera diversa da quello di Finn e, sospirando, gli fa un sorriso.

«Ti capisco benissimo, per questo non dico ai miei che... beh, che viro da tutte e due le parti», spiega e, non sa perché, ma un po' lo imbarazza fare quella confessione. «In più sono un ex alcolizzato che si è ripulito da quattro anni. Non ho più toccato alcol da quel dì, e la sola idea di bere mi dà la nausea ma loro non ci credono e pensano che possa ricadere nella stessa trappola. La fiducia, sai? Quella tipica dei genitori della nostra generazione», confida, e gli lancia uno sguardo di complicità che Finn raccoglie, ridacchiando.

«Belle situazioni di merda. Immagino tu ti sia preso i turni delle festività per non passarle con loro.» 

«E immagino tu abbia fatto lo stesso.»

«Esatto», risponde Finn, poi incrocia le braccia al petto e torna a guardare la lavatrice, anche se stavolta non sembra esattamente guardarla. I suoi occhi sono altrove. Forse nel passato. «A volte spero di non averglielo mai detto. Anche solo per non scoprire che è più importante l'orientamento sessuale di un figlio che la sua felicità.»

«Magari un giorno lo capiranno e torneranno sui loro passi. Non dico che debba essere per forza semplice capire, ma a volte ci vuole tempo... e a volte se ne rendono conto da soli.» 

Finn non sembra convinto, ma gli legge della speranza quando si volta di nuovo a guardarlo e Robert pensa di aver appena perso qualcosa, tipo un pezzo di anima, dentro quegli occhi scuri che lo stanno, tacitamente, ringraziando di essere capitato al posto giusto nel momento giusto. 

«Sì, forse sì. Nel frattempo non ci penso, e vado avanti. Alla fine non vale la pena fermarsi e aspettare, no? Qualcosa che non si sa se arriverà mai, poi.»

«Non avrei saputo dirlo meglio!», risponde Robert, ma sa che lui ha fatto esattamente questo: sì è fermato ad aspettare la vita, ad aspettare un'occasione, prendendo in mano solo le briciole che gli altri gli avevano lasciato. E ancora è lì, ad aspettare una svolta, che sa di non arriverà mai se non sarà lui a farla accadere. Si promette che da domani le cose le affronterà con più criterio. Si illude che domani svolterà tutto e comincerà a vivere, ma sa anche che è un bugiardo quando si tratta di sé e che, dopo quei fallimenti, non è più sicuro di niente. 

Poi Finn reclina la testa e lo scruta e, con un sorriso che pare capire quei pensieri, scala di qualche posto e si mette accanto a lui. 

«E tu dove abiti?» 

«A dire il vero sono fuori zona. Abito a dieci chilometri da qui.» 

«E sei in motorino?»

«Faccio le consegne in questa zona stasera. Siccome mi sono offerto di mia volontà, mi hanno dato la zona migliore!» 

«Posso solo immaginare come sia la peggiore!», ironizza Finn e Robert vorrebbe dirgli di smetterla immediatamente di farlo ridere e di farlo sentire caldo in mezzo al petto. Eppure quando si volta di nuovo a guardarlo perde un altro pezzo d'anima e, di riflesso, abbassa lo sguardo per non affogare. 

«Scusa. Ti sto mettendo a  disagio, vero? Mi dispiace, a volte parlo senza pensare ma... a dirtela tutta, mi sembra quasi di conoscerti da sempre e mi viene naturale.»

«No, no. Cioè, sì, sono un po' a disagio ma è per questo... mi fa strano che siamo già così in confidenza. Non mi era mai capitato con nessuno, specie dopo il fatto della dipendenza, sai?» 

«Posso capirlo. Non so cosa vuol dire, ma posso immaginare che la cosa sia, boh, in qualche modo destabilizzante.» 

«Lo è, ma anche essere cacciati di casa non deve essere una passeggiata.» 

«No. Ci si sente abbastanza soli e mi sa che sai di cosa parlo.» Robert annuisce e, allora, Finn tira fuori il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans grigi – e con quel gesto nota quanto siano attillati e quanto gli stiano dannatamente bene – e lo accende. «Tagliamo la testa al toro e ti chiedo il numero? Non so perché ma voglio essere rassicurato che questo non sarà un incontro isolato.» 

«La prossima volta mi chiedi di convivere?», ironizza Robert e intanto accende anche il suo, di telefono. 

Finn finge una risata senza ironia. «Sì, come no, in un reparto di interior design dell'Ikea. È l'unica sicurezza che ti posso offrire.» 

Si guardano e, condividendo un sorriso che sa quasi della stessa solitudine colmata, si scambiano i numeri di telefono e poi, subito dopo, cala il silenzio e, la cosa strana, è che non porta con sé disagio o insicurezza. Solo una calma che, forse, entrambi stavano ricercando. 

Poi l'orologio digitale sul muro della lavanderia suona e, entrambi, alzano lo sguardo senza pensare.

È mezzanotte precisa, le campane suonano e si sentono lontane; l'aria sembra più calda, gli spazi più stretti, eppure non invadono niente. 

Finn sorride e gli regala uno sguardo che sa di calore umano, qualcosa che a Robert mancava. «Buon Natale, Robert.» 

«Buon Natale, Finn.» 

Le lavatrici finiscono i loro lavaggi; asciugano i panni e si fermano, ma Robert e Finn restano lì, per nulla intenzionati ad andare via; rimangono chiusi nel Natale più strano che sia mai capitato loro di festeggiare, a raccontarsi tutto quello che hanno da dire, pronti ad ascoltarsi, ad essere ascoltati e a creare, tra loro, qualcosa che è nato per caso, in un giorno di pioggia che, alla fine, un po' di sole, in quelle vite vuote, l'ha portato.


Fine

Note autore:
Non nego che l'idea del tipo alcolizzato l'abbia spudoratamente rubata a Midnight Mass (così come l'altezza e i capelli corvini di Finn sono SPUDORATAMENTE quelli di un giovane Hamish Linklater ❤️). Spero che la storia vi sia piaciuta, se vi va fatemi sapere cosa ne pensate ❤️
Un abbraccio
La nostra amichevole Miryel di quartiere.

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