V
Lo smarrimento iniziale in un paio di giorni era scomparso, alla fine lo "sbigottimento da libertà" era uno di quei problemi ridicoli che sembrano insormontabili solo per un paio di ore. Mi scappava quasi da ridere quando la mattina uscivo di casa dicendo "vado a scuola" e nello zaino avevo una pila di cassette di musica, cacciaviti a stella e a taglio e martellino professionale da bravo sbocchinatore di motorini. E io ero anche abbastanza contenuto, perchè in classe c'era una specie di mercato di pezzi di motore così come in varie altre classi.
Nei pomeriggi in giro mi ero informato se negli altri istituti la baracca funzionasse più o meno così, anche perché la TV dipingeva questo fenomeno dell'autogestione come una rivoluzione che si attendeva da trent'anni, una cosa assolutamente straordinaria, irripetibile, bellissima e che faceva capire come i giovani fossero in grado di prendere coscienza dei loro diritti e di interagire con la costruzione di una nuova scuola più giusta e che preparasse in maniera migliore la classe dirigente del futuro.
Inutile dire che tutte quelle chiacchiere poi avevano portato alla riforma dei cicli del ministro Berlinguer (con annessa la postilla del finanziamento alla scuola privata che non si capisce proprio come possa averla fatta un comunista) , poi alla Moratti, e infine alla Gelmini, che bello. Col senno di poi è facile dire che forse era meglio non fare tutto quel casino, ma noi ci eravamo dentro, non potevamo sfuggire a questa situazione.
E gli altri istituti di Cesena?
Figurarsi se l'autogestione non la facevano al Comandini, al Geometri e alla Ragioneria, ma allo scientifico? Una scuola che doveva preparare i futuri cervelloni nazionali?
Lo scientifico era la rappresentazione dello sfacelo della scuola italiana, non tanto per gli insegnanti o gli studenti o i bidelli o le strutture, perché avevano fior fiore di laboratori ad esempio, ma perché era un liceo inzeppato di classi di progetti sperimentali che non ci azzeccavano una cippa. Sembrava quasi che all'inizio dell'anno ci fosse una specie di referendum per scegliere le materie da fare: abbasso la geografia e la fisica, viva la storia dell'arte e il corso di ricamo e merletto.
E poi ci andavano veramente tutti, c'era gente che in quanto a ignoranza se la giocava tranquillamente con gente tipo me, per intenderci. E il Liceo Classico in quel marasma che molti additavano come una pacifica rivoluzione, che combinava?
Il Classico me lo immaginavo una scuola con finestre ariose da cui si intravedevano alberelli verdi e uccellini cinguettanti, con dentro studenti pacati e tranquilli, vestiti in modo intollerabilmente simile e dediti allo studio di materie dalla scarsa rilevanza pratica. Li vedevo morti e vagamente sorridenti, a disquisire amabilmente tra loro dell'eventuale partita di squash del sabato pomeriggio.
In realtà, uno che frequentava il Classico lo conoscevo: Beppe. Era un 'giovane adulto' come dicono adesso. La famiglia lo aveva sempre tenuto sotto una campana di vetro, preservandolo da qualsiasi contatto con quella che probabilmente consideravano la parte malata della massa studentesca, ma quando io avevo iniziato l'ITI lui aveva già affrontato la quarta e iniziava a sgretolarsi il suo personaggio di ragazzo inappuntabile.
In realtà aveva fatto tutto da solo: aveva una famiglia benestante ma, nella realtà di quel classico, era quasi un pesce piccolo, costretto a vedere esemplari di figli di papà rimpinzati di luoghi comuni e ingabbiati dentro il bisogno di essere perennemente alla moda, sfavillanti di fighetteria, e permeati continuamente dalla peggior cultura religiosa italiana, tanto che al classico c'era una elevatissima concentrazione di membri di CL che, a quanto pare, avevano la tendenza ad allargarsi, ad occupare tutto lo spazio possibile.
A Beppe non interessavano quelle cose, persino la parrocchia lo aveva stancato, mirava a quello a cui miravo anche io: hangar puzzolenti di fumo, pieni di luci e di bassi, che riverberavano dai biglietti riduzione che si trovavano un po' dappertutto.
Lo avevo conosciuto al mare, mentre facevo il bagnino, e lui veniva a lasciare flyer. Mi aveva preso per uno più grande, tanto per cambiare, e aveva provato a vedere se ero uno che poteva mettere in lista, che magari mi portavo qualche amico. Non che sembrassi diciottenne ma andiamo, nessun locale faceva entrare solo diciottenni.
A me sarebbe piaciuto andare a ballare, e forse con le mie dimensioni sarei anche passato, ma puntualmente tornavo dalla spiaggia sbudellato, disintegrato, e già i primi giorni di agosto contavo quanto mancava alla fine di quel supplizio. Per sicurezza comunque mi ero fatto lasciare il telefono di Beppe, nella speranza che sarebbe prima o poi tornato utile.
Il suo liceo classico non aveva inizialmente aderito alla autogestione, loro dovevano parlare, dovevano lungamente parlare prima di decidere, e in quei giorni in cui parlavano, venivano fuori posizioni resistenti all'idea dell'autogestione. Beppe sapeva già che nel caso fosse passata l'autogestione, quasi sicuramente sarebbe finito per stare a casa per volere dei genitori, la sua situazione invernale era di continua infelicità.
Alla fine, però, quasi miracolosamente, l'autogestione la fecero anche loro nei loro cachemire e nelle loro orazioni domenicali, e io mi chiedevo come doveva essere l'assenza di insegnanti in una scuola come quella. Mi sarei comunque tolto la curiosità di lì a poco.
Martedì 30 novembre 1993
Il secondo giorno di autogestione mi era arrivato sulla milza come quel porco di Isaiah Thomas: quando avevamo comunicato tutti contenti alla professoressa di italiano la decisione di fare autogestione, lei non l'aveva prese bene, e le vittime predestinate eravamo stati io e un mio compagno altrettanto repellente alla scuola.
«Questa autogestione è una farsa, un modo per farci perdere tempo, ma ricordate che quelli che saranno più penalizzati sarete voi! con questo tempo perso a rincorrere farfalle, di gita non se ne parlerà di certo!».
Poi aveva cercato con lo sguardo me e Casadei, sputando un velenoso «E per quanto riguarda voi due, sappiate già da adesso che in seconda non ci andrete».
Appena chiusa la porta, Casadei aveva mollato un «Ma sta zitta, troia» con una voce tutt'altro che ferma, io sul momento ci avevo riso sopra, magari ero convinto che l'autogestione avrebbe cambiato per sempre la scuola italiana, e con un calcio in culo sarei passato lo stesso in seconda.
I professori si erano rintanati nelle loro sale, attendendo la fine dell'orario di scuola, e noi per i corridoi stavamo quasi più buoni che quando c'era vera lezione: gli uomini della sicurezza dell'autogestione, in special modo gente ripetente di quarta senza l'assillo della maturità, non ci metteva mezzo secondo a prenderti a calci nel culo tanto per farti capire chi comandava. Un comportamento del genere sarebbe stato inaccettabile se compiuto da un professore, ne sarebbe uscito sicuramente un mezzo scandalo sui modi turpi che usava la scuola italiana per "raddrizzare" i ragazzi, invece se lo faceva la "security" nessuno diceva niente.
Security era solo un buon modo per rinominare la voglia di sfogarsi. Non venivamo proprio bullizzati, o forse si, sarà che in una scuola composta al 95% di maschi, ti taravi più facilmente sulla fisicità che sui sonetti di Dante.
Oltre alla Security c'era un altro individuo che ogni tanto si intravedeva nei corridoi: il preside, con un pacco di fotocopie in mano, che distribuiva a tutti quelli che gli passavano a tiro, ricordando come la scuola declinava ogni responsabilità in caso di infortunio di un alunno in autogestione.
Il preside, il prof. Quarto Zanotti, un uomo alto e ben piazzato, con occhiali e faccia sanguigna, era il volto inumano della scuola, un personaggio che definire letterario è riduttivo, perché ora voi leggerete delle sue malefatte, e magari penserete che siano esagerazioni o roba del genere, invece quello che segue è vero parola per parola, vero come l'odio che provavo per lui in certi frangenti, specie quando faceva il vigile in mezzo ai corridoi, distribuendo circolari ai passanti.
Quarto distribuiva le circolari perché era in grado di parlare solo attraverso quelle, che le segretarie gli battevano a macchina, mettendo a posto il suo sgangherato linguaggio di uomo impulsivo.
Era un uomo di quelli all'antica, che si era dimenticato di quando era giovane, e di conseguenza credeva che nessuno meglio di lui potesse governare un istituto. non certo dei moccolosi ragazzini di diciotto anni con idee più grandi di loro. Il suo delirio di onnipotenza avrebbe poi fatto molti danni, facendolo cadere nella disperazione dell'incapace, trasformandolo in una delle figure più detestabili dell'intera scuola italiana, ma sul momento, vederlo in mezzo ai corridoi con la risma in mano faceva solo tenerezza.
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