8. Stratège
IT: stratega
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22 aprile 2023
Montecarlo, Principato di Monaco
Il cielo presentava intrecci di sfumature rosee e aranciate, oltre le montagne che spalleggiavano il Principato. La piazza del casinò, in cui mi ero ritagliato alcuni minuti di relax da trascorrere fumando il mio sigaro, pullulava delle luci dei lampioni che la attorniavano. La brezza spirava dal mare, inalare il salino rinfrescava la mente.
Era presente ogni sentore di una serata perfetta, se non fosse stato per gli imminenti giochi organizzati da Desirée. Mi aspettava una partita di blackjack contro giocatori agguerriti, elitari affamati di denaro. A completare il ritratto della seccatura, mio fratello sostava in piedi al mio fianco, le mani insaccate nelle tasche e i piedi ben saldi sul primo gradino dell'edificio; tra i denti stringeva uno stuzzicadenti prelevato dall'aperitivo consumato poco prima al Café de la Rotonde del casinò, condito dal gusto amaro della sua presenza.
Ritrovarlo a Montecarlo dopo la diatriba londinese non fu una sorpresa, bensì una pessima notizia. Era ovvio che tra di noi non scorresse buon sangue, ma la parte buona e ottimista di me aveva creduto, in un frangente illusorio, che lui potesse arrendersi all'idea che l'incarico fosse stato assegnato a me. Ancora una volta, stava dimostrando l'impellenza di dimostrare a nostro padre di essere migliore del sottoscritto in campo lavorativo.
Michael aveva il mondo aziendale nel sangue, gli scorreva nelle vene come linfa vitale. Era una verità che riecheggiava tra le pareti dell'appartamento di South Kensington da quando io vi trovai la mia prigione per necessità, e lui vi scovò la sua gloria liberatrice dalla miseria.
«L'ho vista, l'altro giorno». Con la sua voce arrochita dal lungo e teso silenzio, mi ridestò dalle riflessioni. «Sarebbe un'ottima conquista» constatò, sfilandosi lo stuzzicadenti dalle labbra. Se lo rigirò tra le dita che, a differenza delle mie, non erano imbrattate da ghirigori d'inchiostro scuro.
«Desirée?» domandai retorico; il quesito sfociò in una risata menzognera e canzonatoria. «Tanto bella quanto insopportabile. Dopo due minuti di conoscenza, ti spiattella in faccia la sua ricchezza ed esercita il suo comando come un'adolescente ribelle e viziata». La critica si giustappose a un assiduo gesticolare, che fece vibrare il sigaro e cadere granelli di cenere. Li scacciai con la suola della scarpa.
La nostra fu una conversazione disinteressata, intrattenuta con il mero scopo di abbattere una spessa lastra d'astio, causa della nostra durevole separazione.
Con l'attitudine di un uomo sveglio e calcolatore, dall'indole tuttavia egoista, continuò a rigirarsi lo stuzzichino tra le falangi senza lasciarlo cadere sui gradini marmorei.
«Potrà pur avere un caratteraccio, ma se vuoi portare a termine il tuo compito, la vulnerabilità è l'arma vincente» asserì. Smise di focalizzarsi sul suo giocattolo improvvisato e indirizzò lo sguardo alla piazza, gremita di turisti e gruppi di persone pronte a godersi una serata di gioco tra una scommessa e un bicchiere di champagne. «Dovresti provare ad ammaliarla. Sbaglio, o tutti dicono che tu abbia un grande fascino?» mi derise. «Sii il Don Giovanni della situazione, fratellino. Alle ragazze piacciono le attenzioni».
Si divertì a vestire i panni del consigliere amoroso, quando lui, di relazioni stabili, non ne aveva avuta nemmeno una. Soleva burlarsi della mia serietà avuta con Giselle, mi scherniva per l'impegno che mettevo nei rapporti umani, inconsapevole che lui assomigliasse a una macchina programmata per il lavoro e l'apatia.
«Non è stupida» ribattei. «E, cosa più importante, è fidanzata. Non saranno le avances altrui a farla cedere» affermai con sicurezza.
«Sarà». Incerto, scrollò le spalle. Con la coda dell'occhio, scorsi lo sguardo eloquente che mi lanciò, contenente un monito ben delineato tra le screziature celesti delle iridi. «Potresti smettere di fumare quella merda, Isaac? Cristo, mi stai intossicando» imprecò. «Non mi sorprenderei se i tuoi polmoni, da un giorno all'altro, si ribellassero».
«Neanche la vacanza in riviera riesce a placare la tua urgenza di infastidirmi» osservai con una vena sarcastica. «Se continuo a fumarli senza averne il tempo, finirò per sprecarli tutti» riflettei.
Contro le regole di ogni scuola di degustazione, camminai verso il cestino della spazzatura più vicino e premetti l'estremità contro il posacenere annesso. Il fumo si librò verso il cielo e, senza attendere il suo completo spegnimento, abbandonai il sigaro accanto ai mozziconi altrui. Ne avanzava più di metà, ma sarebbe stato impossibile gustarselo dopo una seconda accensione, vista l'amarezza che portava con sé.
Con un'andatura lenta da passeggio, mi riavvicinai a mio fratello. Il tramonto stava lasciando spazio alla coltre notturna, ma la piazza affollata era illuminata a giorno. Michael non distolse l'attenzione da me.
«Comprati un pacchetto di sigarette e falla finita» sputò. «Meno rischio di ammalarti e meno soldi da spendere».
L'assenza del tabacco rilassante iniziò a innervosirmi, tanto che inveii contro di lui: «Dio, sei venuto qui per importunarmi o per fare qualcosa di concreto, Michael?» Strinsi i pugni lungo i fianchi e mi sentii soffocare nel completo gessato. «Ho mille cose a cui pensare, tra il lavoro ed Erin. Non ti voglio su quella lista» sentenziai.
Un ticchettio fattosi propinquo ci distrasse entrambi, accompagnato da una pacata voce femminile che diede vita a un dubbio appena sorto: «Ho le allucinazioni?»
Desirée ci studiò entrambi, distinguendoci solo per la presenza o l'assenza dei tatuaggi che, sul mio corpo, erano pervasivi. Lo sguardo di Michael si perse su di lei, in lei e per lei, in un dedalo d'incanto che gli sottrasse ogni ipotetica via di fuga; io fui abile nel mantenere la mia consueta indifferenza.
La ragazza, però, passava tutt'altro che inosservata. Il lungo abito rosso enfatizzava le curve del suo corpo minuto e curato, lo scollo a V sottolineava la forma dei suoi seni e il tessuto setoso riluceva a ogni ondeggiamento della gonna stretta. Uno spacco vertiginoso metteva in mostra la carnagione ambrata della sua gamba sinistra. Nella piazza del casinò, dinanzi a chi la conosceva o a chi ignorava il prestigio del suo nome, sfilava su un paio di stiletti abbinati al vestito. Tra le dita di una mano, scintillava una pochette dorata.
Deglutii prima di risponderle, inchiodando lo sguardo alle sue labbra delineate e tinte alla perfezione d'un rosso brillante. La curiosità la porto a sfarfallare le ciglia annerite e voluminose a un ritmo cadenzato e io, preso alla sprovvista, dovetti concentrarmi per passare dalla conversazione in inglese a una in francese.
«Desirée, lui è Michael» presentai, seppur tentennante, il ragazzo al mio fianco. «Mio fratello».
«Il piacere è tutto mio» dichiarò lei, con un sorriso tirato. Nel voltarsi verso di lui, i capelli acconciati in un mare di onde le solleticarono le spalle nude.
Michael, intraprendente e astuto, non lasciò che l'occasione di una presentazione con i fiocchi gli scivolasse via. Cauto, le sfiorò le dita e si chinò per baciarle il dorso della mano. Non erano gesti che rientravano nelle sue corde, ma l'innegabile fascino di Desirée lo stordì a tal punto da renderlo irriconoscibile.
«Enchanté, mademoiselle» tentò di sedurla, il tono profondo.
Desirée, d'altro canto, rispose all'azione ritraendo la mano. Mosse passi decisi sui tacchi a spillo nella nostra direzione e, inarrestabile, ci lasciò intendere di doverci accostare per permetterle di passare. Le porte del casinò e il lusso che caratterizzava l'edificio aspettavano solo il suo ingresso.
Varcò la soglia nel momento in cui uno dei portinai, con un sorriso smagliante, la accolse. Sapeva di dettare legge: era la sua camminata spavalda a dimostrarlo. Sfilò dinanzi alla statua di Tiche, che nel silenzio e nella freddezza bronzea le augurò la buona sorte, e io proseguii muto al suo seguito affiancato da mio fratello.
Due spine nel fianco a distanza di un solo metro, una a capitanare e l'altra a pungolare la mia seccatura.
«Non apprezza la galanteria» mormorò Michael, indicando la ragazza dal passo lesto e deciso con un cenno del capo. Visto il rifiuto di quest'ultima nei confronti della sua prima avance, lui decise di crearsi uno scudo per il suo ego smisurato, un costrutto di derisione e umiliazione.
«Non mi sorprende che il secondo Woodward sia fastidioso quanto il primo» affermò Desirée, udita la critica. Non ci degnò di un solo sguardo e, negandoci la sua attenzione, imboccò l'ingresso della Salle Renaissance. Le lampade da parete emanavano una calda luce dorata che diventò il suo manto, di cui non si privò nemmeno varcando l'arco che la accolse tra le slot machine e i dettagli blu reale di Salle Europe. «L'unica galanteria che apprezzerò stasera sarà quella che dedicherò a me stessa: una vittoria davanti a voi illusi».
Pungente e determinata: dal momento in cui mi lanciò la sfida durante la sua festa al Jimmy'z, avevo intuito quanto l'idea di arricchirsi tra carte, fiches e scommesse la allettasse. La sua sicurezza mise a tacere persino le battute pronte del ragazzo al mio fianco.
Credeva che il mondo a cui mi stava introducendo fosse un'incognita, per me, ma le sue ferme convinzioni la traevano in inganno: Desirée ignorava che fossi abituato al gioco d'azzardo, benché casalingo e di minor valore. Avevo partecipato ad alcune partite organizzate da mio padre nel suo appartamento, con i suoi colleghi e mio fratello, assistito da occasionali mani fortunate.
La mia vena competitiva, seppur non preponderante come quella di Michael, pregò che i valori ancora ignoti delle carte presto giocate potessero aiutarmi a mettere a tacere la sua esuberanza.
Attraversammo l'ennesimo insieme di slot machine della Salle des Amériques, dove il rosso brillante si fondeva con i ricami d'oro dei drappi pregiati appesi alle pareti, abbinati alle decorazioni bicromatiche del pavimento lucido su cui si rifletteva la luce dei lampadari di cristallo.
Desirée arrestò i suoi passi nell'istante in cui raggiunse il banco dedicato al cambio del denaro. Fummo accolti dal sorriso cordiale di uno degli addetti alle puntate e ai pagamenti. La ragazza procedette senza fornire spiegazioni, avvicinandosi al banco.
«Solita cifra, Maximilien» ordinò, senza specificarne l'ammontare. Estraendo il portafoglio dalla pochette dorata, porse all'uomo sulla quarantina una cospicua mazzetta di contanti. Le banconote viola erano inconfondibili: Desirée gli consegnò più di cinquecento euro senza preoccuparsene. Il denaro fu ritirato e la ragazza aggiunse: «Valentin ed Erika hanno già deciso quanto puntare?»
«Sì, mademoiselle» confermò il suo interlocutore, che lanciò un'occhiata oltre le sue spalle. «I signori sono con lei?»
Lei annuì, riponendo il portafogli nella borsetta, e si accostò a lato del banco. Nell'avvicinarmi, precedetti Michael.
«Duecento» comunicai all'uomo, senza ripensamenti. Era una cifra ben inferiore rispetto a quella scommessa da Desirée, ma giocare d'astuzia significava anche vantare la capacità di non perdere una somma importante. A differenza della ragazza, optai per la carta di credito come metodo di pagamento.
A transazione effettuata, affiancai Desirée per lasciare il posto a Michael. Torreggiai su di lei, incrociai le braccia al petto e diventai il destinatario di uno sguardo bellicoso che non ricambiai.
«Hai paura, Woodward?» curiosò. «O la tua è semplice tirchieria?»
«Si tratta di intelligenza, Daisy: giocare sapendo di poter perdere, senza sprecare denaro. La vita non si basa sulle vittorie».
La nostra conversazione non proseguì poiché Michael, intento a riporre il portafogli in una tasca interna della giacca elegante, ci raggiunse. Desirée si limitò a scoccarmi un'occhiata torva, prima di proseguire con la sua marcia: in quel gesto eloquente era racchiusa l'ennesima dose di intolleranza nei confronti della mia capacità di ribattere.
Ticchettio dopo ticchettio, tra il suono cadenzato dei suoi stiletti e l'eco delle nostre suole rigide, superammo il portone spalancato su Salle Blanche. Il tripudio di diverse sfumature di bianco, dal più candido al più tendente al color crema, si fondeva in una preziosità conferita dagli onnipresenti particolari dorati. Mi distrassi, catturato dall'esagerazione del neobarocco, e furono solo dei saluti elargiti da Desirée a ridestarmi.
Davanti a noi, accomodati su due sgabelli affiancati, Valentin ed Erika erano intenti a sorseggiare due drink. Appoggiarono i calici semivuoti sul bancone del bar e sorrisero alla diretta interessata; l'amica, con i capelli rosa acconciati in una crocchia bassa e ordinata, si sistemò una sbavatura di rossetto prima di rivolgerle la carineria.
Io e Michael restammo in disparte, quando Desirée si avvicinò a Valentin. Il biondo le cinse i fianchi con le mani, generando un insieme di pieghe sul tessuto dell'abito, e la catturò in un bacio che attirò alcuni sguardi nella sala, tra mazzieri, baristi e giocatori. Fu automatico tirare un sospiro di sollievo, quando l'effusione giunse al termine e gli amanti ripresero a coinvolgerci nella loro cerchia ristretta.
Dopo che anche le due ragazze si scambiarono un saluto e un gesto d'affetto, Desirée riprese il comando della piccola comitiva. «Ragazzi, lui è Michael» esordì, indicando il ragazzo alla mia sinistra. «Il fratello di Isaac».
«Il tuo amico si è sdoppiato, Desirée?» scherzò Erika, arridendo per il diletto.
«Per mia sfortuna» replicò. Senza aggiungere altro, si voltò in direzione di uno dei due baristi che sostavano dietro il bancone. «Mi aspetto cinque calici di Moët al nostro tavolo, tra poco» gli comunicò con immensa presunzione e mancante educazione. Poteva permetterselo: il lavoro di quelle persone dipendeva da un padre che, per sua figlia, avrebbe licenziato in tronco anche la persona più efficiente. «Andiamo» imperò, quindi, rivolgendosi a noi.
Costituendo la punta di una piramide sottomessa a suoi ordini, si diresse verso i tavoli da blackjack posti a destra della zona bar. I suoi tacchi fiammeggianti sfilarono sulle decorazioni floreali del pavimento blu e lei, godendo della sua precedenza, approcciò la sedia centrale. Rivolse un cenno al dealer, probabilmente conosciuto, che ricambiò con l'accenno di un sorriso quando lei si accomodò.
Quello che si svolse davanti agli occhi ignari di me e Michael fu un rituale che i tre conoscenti sapevano a memoria: Valentin si sistemò a destra della ragazza, dopo averle negato il cordiale atto di scostarle la sedia, ed Erika occupò la seduta a sinistra. Io e mio fratello non potemmo che occupare i posti rimanenti: io mi sedetti al fianco del biondo, occupando il posto a destra del dealer riservato all'anchor, e lui accanto all'amica della mia rivale principale. Davanti a noi, il tappeto di velluto verde riportava i contorni dorati delle caselle che avrebbero ospitato le carte prossime a essere consegnate dal giovane mazziere.
«Possiamo cominciare, mademoiselle?» domandò l'uomo, con pacatezza, e afferrò il deck una volta ottenuto l'assenso dell'interlocutrice. Con movimenti rapidi e sapienti, iniziò a intercambiare la posizione delle carte; il quartetto di semi rossoneri scorse veloce davanti ai nostri occhi attenti e trepidi.
Ogni membro del gruppo sistemò le fiches in base al valore della propria puntata. Anche in quell'occasione, Desirée optò per il suo dominio e piazzò, con gesti flemmatici, tre chips color granata. Ben presto, il tavolo da gioco si riempì di un arcobaleno di cifre differenti.
Arrestò le mani leste e, a partire dalla sua sinistra, proclamò tacitamente l'esordio della partita consegnando le singole carte. Davanti a me fu adagiato un dieci di picche, seguito dal jack di fiori di Valentin; a seguire, la leader del gruppo ricevette un otto di quadri, l'amica fu deliziata con un nove di cuori e mio fratello, per ultimo, ottenne un sette di fiori. Il mazziere sistemò un'ultima carta coperta davanti a sé.
Eravamo tutti pronti per il secondo giro di consegna, speranzosi di ricevere la metà mancante di una mano vincente. Nella sala si instaurò uno scambio di sguardi sfidanti, che studiavano le carte altrui e vedevano la partita come una guerra in atto. L'obiettivo che trapelò dalle occhiate eloquenti non era arricchirsi con la vincita, ma umiliare gli altri con la perdita.
Nel pieno del silenzio contemplativo, un cameriere dall'uniforme linda ed elegante servì le cinque flûte di champagne pregiato ordinate in precedenza. Afferrai la mia fra le dita, assaporando un sorso del liquido dolciastro e frizzante prima dell'interruzione di Valentin.
«Non illuderti» suggerì, in un sussurro che non disturbasse la concentrazione altrui. Ottenne la mia attenzione, lo guardai di sbieco. «Abbiamo i valori migliori da cui iniziare, ma non sai contro chi stai giocando» proseguì con il suo avvertimento.
Deglutii e mi schiarii la voce, consapevole che si stesse riferendo alla fidanzata. «Confermi la bravura di cui tanto si vanta?» gli domandai nonostante, a primo impatto, fossi titubante nei suoi confronti.
«Lei è la stratega, è il modo migliore per definirla: analizza le nostre mosse e procede con le sue. Non lascia nulla al caso. Potrai vederla compiere decine di azioni diverse, ma nessuna sarà mai impulsiva» spiegò, calamitando le pupille sulla diretta interessata. Quest'ultima fissò semi e valori, colori e numeri, in attesa della seconda tranche. «Ammetterlo è una sconfitta per l'ego, ma nessuno di noi ha mai eguagliato la sua astuzia» la lodò. «Soprattutto considerando che lei, a differenza nostra, gioca illegalmente».
La sua affermazione mi lasciò attonito. «Stai dicendo che non potrebbe essere qui?» curiosai, ma lui annuì in risposta senza fornire ulteriori spiegazioni. Feci spallucce, arrendendomi all'assenza di informazioni. «Comunque sia, vedremo se i fatti concreti lo dimostreranno» conclusi. «La strategia, spesso, si scontra con la probabilità e la buona sorte».
Il dealer approfittò del silenzio per procedere con la seconda consegna, iniziando dalla sua sinistra. Mi ritrovai in possesso di un rischioso sette di quadri, che si avvicinò pericolosamente al bust, ma mantenni un'espressione neutra per non palesare la preoccupazione. Dopo di me, toccò agli altri: Valentin dovette accontentarsi di un mero sei di picche, per il quale arricciò le labbra. Desirée, al suo fianco, ricevette un misero quattro di fiori, mentre l'amica superò la sua somma con un altro nove. Michael fu l'ultimo a ricevere un quattro di quadri, raggiungendo un undici ben lontano dalla soglia massima, benché vincente, di ventuno. Il mazziere si servì della sua carta scoperta, un tre di cuori.
Giunse, così, il momento delle nostre singole azioni, un concatenamento di possibilità che poteva portare all'immensa fortuna o al gusto del rischio. Fui il primo a esercitare un paio di tocchi con due dita sul tavolo da gioco, comunicando la mia volontà di chiamare una terza carta. Il dealer mi porse un due di picche, che non mi portò al bust, ma mi avvicinò alla mano vincente. Dovetti solo sperare che nessuno degli sfidanti distruggesse un futile sogno di gloria con un blackjack.
Anche Valentin optò per un hit, ottenendo un sette. Quella mossa lo portò a sballare, raggiungendo un ventitré che lo fece sbuffare per la sconfitta; si lasciò cadere contro lo schienale della sedia, abbandonando la postura rigida. Quindi fu il turno della stratega che, prima di agire, vagliò la situazione circostante. Memorizzate le carte in possesso da ognuno di noi, anche lei colpì la superficie vellutata con due dita, ricevendo un nove dal mazziere. Senza sforzi e servendosi della sua furbizia, raggiunse il tanto agognato ventuno.
Avrebbe vinto, qualora non si fosse verificato un pareggio da parte di Erika, di Michael o del banco. La partita proseguì, immersa in una palpabile tensione che Desirée non palesò. Al contrario, festeggiò prematuramente con un tacito brindisi, prendendo un sorso dal calice.
La sua amica, in possesso di un'ottima ma rischiosa coppia di nove, aggiunse al suo bottino una seconda chip viola, comunicando al dealer la sua intenzione di compiere un callido split. Colto il segnale, l'uomo si accinse a dividere le carte e a pescarne due da aggiungere alle singole mani. Erika, tuttavia, non ebbe la medesima fortuna della leader che la fiancheggiava.
Michael, con il suo undici, si trovava nella posizione perfetta per richiedere un double down. Addizionò una chip granata alla sua puntata, indice della sua sventatezza, e con un doppio tocco richiamò la sua terza e ultima carta. Ottenne un cinque di picche, che lo tenne ben distante dal blackjack di Desirée.
Erano gli ultimi minuti di pietrificante tensione: ci scambiammo sguardi attenti, nell'attesa che il mazziere rivelasse il valore della sua carta scoperta. Sul volto della principessina era già disegnato un ghigno orgoglioso, che perdurò mentre il dealer si accinse a svelare l'arcano: possedeva una regina di quadri, che lo fece necessitare di compiere un hit. Aggiunse una carta alla sua mano, un cinque di fiori che non gli concesse il push rispetto a Desirée.
Da un ghigno a un sorriso smagliante, da una possibilità a una certezza. L'ipotetica futura proprietaria dell'intero edificio che ci aveva accolti quella sera aveva vinto una partita a casa sua. La regina aveva trionfato nel suo regno, persino contro chi non era inferiore a lei.
«La signorina Aubert si aggiudica una somma di 7.500 euro, che potrà ritirare nei giorni successivi alla richiesta» dichiarò il mazziere, ritirando le carte di ogni singolo giocatore per raggrupparle in un singolo deck. Compiendo quell'azione, si rivolse alla vincitrice. «Può comunicare i dati per il bonifico al banco nella sala accanto, se non ha intenzione di giocare ancora» la informò.
Ben conscia della prassi del gioco, fece scivolare la sedia all'indietro e si alzò, torreggiando su di noi. «Va bene così» attestò. Comprendendo che la partita fosse ufficialmente giunta al termine, il gruppo emulò i suoi movimenti. Ci aveva resi succubi del suo controllo senza che noi lo realizzassimo. «Grazie» concluse, infine, dedicando un ampio sorriso al dealer.
Prendemmo commiato in modo cordiale, allontanandoci dal tavolo da gioco capitanati da Desirée. Al suo fianco, il principe azzurro le afferrò la mano, ingabbiando le sue dita. Accanto a me e Michael, invece, sfilava un'Erika silenziosa che sfruttava i suoi minuti per la contemplazione dei dintorni.
Ritornammo, quindi, nella fiammeggiante Salle des Amériques, i cui giocatori erano focalizzati sulle slot machines, escludendo ogni possibilità di distrazione. Desirée si arrestò dinanzi al bancone del precedentemente menzionato Maximilien; la gonna stretta dell'abito accarezzò il pavimento con dolci movimenti e lei ci lanciò un'occhiata.
«Aspettateci fuori, sarà una questione di qualche minuto» ci concesse, lasciando intendere che Valentin avrebbe compiuto il gesto cortese di rimanere con lei. «Approfittatene per prendere un po' d'aria fresca» consigliò.
Il nostro fu un tacito assenso che permise a me, Michael ed Erika di ripercorrere le sale a ritroso, in direzione dell'uscita dell'edificio pacchiano. Fu così che, in un battito di ciglia, ci ritrovammo a varcare uno degli usci dell'atrio; la notte ormai calata sul Principato ci abbracciò nella sua coltre di stelle e luci che illuminavano la lussuosa esagerazione del luogo.
Gradino dopo gradino, il nostro trio silenzioso si ritrovò a piantare le suole sulla pavimentazione chiara della piazza. Io mi fermai a qualche centimetro da mio fratello ed Erika, nel suo mutismo, si isolò per estrarre il cellulare dalla pochette e intrattenersi.
«Hai una sigaretta?» domandai a Michael, rammentando la mia assente intenzione di sprecare l'ennesimo sigaro; era tabacco pregiato di cui godere, tiro dopo tiro. In più, la stanchezza iniziava a essere palpabile. La mia unica volontà era quella di tornare in hotel e dedicare il mio tempo a mia figlia. «Per favore» aggiunsi.
Michael prelevò il pacchetto ancora imballato dalla tasca interna della giacca elegante; afferrandone un lembo con i denti in un gesto rozzo, scartò l'involucro trasparente e lo accartocciò tra le dita. Aprì la linguetta di cartone e indirizzò la ventina di filtri verso di me. Ne afferrai uno e me lo portai alle labbra.
«Ho avuto ragione anche questa volta, fratellino» ammiccò con un sorriso fiero. «Non c'è di che» finse gentilezza, ritraendo il pacchetto.
Non lo degnai di una risposta e accesi l'estremità della sigaretta con il mio accendino. Quando la fiammella perse d'intensità, sbuffai il primo nugolo di fumo che si dissolse nell'aria.
Michael insaccò le mani nelle tasche, contemplando la piazza gremita nonostante l'orario. «È più furba di quanto credessi» constatò, lasciando trapelare il chiaro riferimento a Desirée.
«Si tratta solo di fortuna» ribattei, picchiettando con l'indice sulla sigaretta per far cadere la cenere in eccesso. «Mera probabilità» conclusi.
«Ti ricrederai quando capirai che da lei non otterrai nulla» si intromise Erika con intento difensivo nei confronti dell'amica, guadagnandosi un'occhiata incuriosita da parte di me e Michael. Con indifferenza, ripose il cellulare nella borsetta; le unghie laccate brillarono alla luce dei lampioni. Quando alzò lo sguardo verso di noi, la chioma rosa acconciata traballò. «Desirée è nata in questo ambiente e niente riuscirà a farla uscire» asserì.
Scrollai le spalle, incurante e incredulo circa la sua effettiva supremazia nel campo aziendale. La mia opinione non faceva che prendere le sembianze di una certezza: Desirée vestiva solamente i panni di una ragazza viziata, a cui il mondo aveva deciso di offrire dei privilegi invidiabili. Non era un soggetto da temere, non per un colosso del terziario come quello che dovevo impegnarmi a rappresentare.
Inspirando per rubare un altro tiro alla sigaretta quasi consumata, liberai una nuvoletta di fumo. Si librò nell'aria fresca proprio nel momento in cui, alle nostre spalle, si udì una voce femminile.
«Lasciami» mormorò infastidita la vincitrice della serata, nonostante il tono lieve fosse facilmente identificabile nel chiacchiericcio. Con il suo onnipresente ticchettio, scese ogni singolo gradino per ricongiungersi al gruppo. Adocchiò la sigaretta e i suoi occhi mi fulminarono per una frazione di secondo, l'espressione seccata. «Scusate il ritardo, c'è voluto più del dovuto» si rammaricò sfoderando un sorriso luminoso, quando Valentin la raggiunse e la affiancò.
«Desi» esordì Erika, conquistando l'attenzione della diretta interessata. «Non credi che dovresti smetterla di giocare contro le regole?» le consigliò. «Potrai anche vincere tutte le volte, ma prima o poi ne pagherai le conseguenze».
Ancora una volta, mi immersi in un dubbio che nessuno chiarì.
Lei le scoccò un'occhiata infastidita, indice della sua natura anarchica. «Se qualcuno me lo impedisce, papà lo licenzia» asserì. «Finché è il nostro nome a comandare, nessuno può opporsi».
L'amica scrollò il capo, glissando sulla questione. «Ad ogni modo, dopodomani hai un set fotografico qui» le rammentò. Michael sussurrò un commento che io non afferrai. «Ti ricordi, vero?» si accertò.
«APM Monaco, giusto?» tirò a indovinare la mora, giocherellando con una ciocca di capelli. «Dio, dovrò subire...»
«Non pensarci» la invitò l'amica, lasciando che un velo di segretezza ci rivestisse. «Scatterò io, ti farò compagnia» la rassicurò, poi, da un ipotetico istante di incertezza.
Credendo che la conversazione fosse terminata, Valentin afferrò la mano della fidanzata. Lei appoggiò il palmo opposto sul suo petto, sfiorando la camicia e infilando la punta delle dita sotto la giacca scura. Le iridi nocciola, tuttavia, saettarono su di me.
«Ti ho fatto due promesse implicite, da quando sei arrivato» premise, sostenendo il mio sguardo. «La prima è che sarò in grado di tenermi ciò che è mio, e la seconda è che ti avrei dimostrato che non perdo mai». La soddisfazione personale la portò ad arridere, un ghigno accennato che trasportò la mia concentrazione sulle sue labbra piene. «Mantengo la mia parola su tutto, Woodward. Tienilo a mente» mi avvertì.
La fretta di Valentin, però, non mi concesse di ribattere. Strinse la mano minuta di Desirée impartendole un freddo comando: «Andiamo, Desi».
Lei sembrò vacillare, tanto che distolse lo sguardo dalla mia figura per non palesarlo. Privò il petto del biondo del suo tocco senza sciogliere l'intreccio delle loro dita.
«Stavo solo salutando gli altri» si giustificò, la voce ora ridotta a un sussurro.
«Muoviti, allora» continuò il ragazzo. La sua arroganza la infastidì, ma lei non lo dimostrò.
Non era il primo atteggiamento di Valentin a farmi sentire i nervi a fior di pelle. Da quando ci presentammo vicendevolmente all'aeroporto di Nizza, in compagnia della fidanzata si era comportato con una prepotenza tale da rimuovere ogni pelo presente sulla mia lingua.
Conoscevo quegli atteggiamenti perché avevano preceduto l'episodio più marchiante della mia vita, i cui segni, però, avevano imbrattato l'immacolata pelle altrui.
Quando arricciai le labbra, sfilando via il mozzicone della sigaretta ormai consumata, mio fratello captò l'intenzione impulsiva dettata dalla mia irascibilità e la arrestò stringendomi l'avambraccio tra le dita. Fu un gesto tacito con il quale mi intimò di non immischiarmi, un'azione troppo razionale per un animo indomabile come il suo. Come il nostro.
La voce cauta di Erika subentrò al suo intervento, sventando la possibilità che io potessi impicciarmi nella questione. «Va' pure, Desi. È tardi, devi riposarti». L'amica le dedicò un sorriso gentile, poi spostò lo sguardo sul biondo che fiancheggiava la capogruppo. «Godetevi la serata, piccioncini» augurò alla coppia.
«Noi torniamo in hotel?» mi chiese mio fratello, accodandosi al commiato. «Erin ti starà aspettando». Fu così che seminò in me la tenerezza verso mia figlia, elemento con il quale sapeva di potermi dissuadere da ogni impulso iracondo.
In risposta, mi limitai ad annuire con un cenno del capo. Avevo ancora il mozzicone stretto fra le dita, che rotolava tra i polpastrelli per scongiurare il nervosismo. Diventare taciturno fu la soluzione che prevenne ogni ipotetico problema.
«Ti accompagniamo a casa» propose quindi Valentin, indirizzandosi a Erika. «Siamo di passaggio».
La ragazza accettò e, per dimostrarlo, tornò a formare un trio con gli amici. Desirée rimase in silenzio avvinghiata a Valentin, che tuttavia si discostò. «Vado a prendere la macchina e vengo qui» le comunicò, rispondendo a un tacito quesito, quindi si allontanò camminando sulla pavimentazione chiara della piazza.
Fu allora che le attenzioni delle due amiche piombarono su me e Michael, ma fu solo la mora a spiccicare parola, riacquisendo la leadership apparentemente perduta al termine della serata.
«È stato un piacere dimostrare a voi nuovi arrivati che avete scarse chance di concludere qualcosa, qui» ghignò. La sua arroganza non era stata lavata via dal silenzio entro cui si era rifugiata. Non impiegò molto tempo a focalizzarsi su di me. «Mi auguro che tu sia furbo abbastanza da preservare un po' di ego e prendertene cura, invece di perdere tempo e sgretolarlo. Se giochi con il fuoco, si ridurrà in cenere».
Erika celò un risolino complice con le dita affusolate, dimostrandosi d'accordo con l'amica alla stregua di un'adolescente pettegola.
«Io non ho un ego da preservare, ma un compito da portare a termine senza che sfoci in una lotta continua» puntualizzai. «Vuoi apparire intelligente, ma non riesci ad afferrare i concetti più semplici». Oltracotanza contro oltracotanza, finché un sonoro clacson non impedì a Desirée di rilanciare. Si voltò per identificare l'origine del suono, inquadrando l'auto fiammante di Valentin su cui lui sedeva con fierezza, il finestrino abbassato. Anche lui non sembrò badare a spese, su quella Ferrari di tutto rispetto.
Per invogliare la bellicosa a dileguarsi, Erika si avvinghiò al braccio di quest'ultima e glielo chiese con un sussurro indecifrabile.
«Sì, andiamo» replicò lei, ma mi gettò un'ultima occhiata. «Hai ancora due mesi per renderti conto della mia sagacia. Non sputare sentenze premature, è inutile» mi consigliò. Allora indietreggiò sui suoi stiletti, pronta a marciare in direzione del fidanzato. «Buonanotte, Woodward» mi augurò, il sorriso furbo che non si spense.
«'Notte» ricambiai, seppur contrariato.
Non un lemma aggiuntivo, e lei si confuse tra turisti e abitanti nell'approcciare la possente vettura di Valentin. Scomparve al suo interno, l'amica si accomodò sui sedili posteriori e la saetta rossa sfrecciò via, lungo la strada che conduceva a Larvotto. Nell'aria echeggiò il rombo del motore potente.
La risata che produsse Michael mi ridestò dalla distrazione, fungendo da magnete per le mie pupille. Lo osservai con un punto interrogativo palesato sul volto, mentre lui era intento ad avvicinarsi una sigaretta alle labbra. Ne accese l'estremità.
«Sono in vena di confessioni non richieste, fratellino» mi avvertì. «Quella ragazza ha un caratterino non indifferente ed è... cazzo, non le avrei tolto gli occhi di dosso per un solo secondo, se non fossi stato di fronte al suo fidanzato per tutto il tempo» ammise. Alzai gli occhi al cielo, sfinito dalla serie di chiacchiere superficiali che mi avevano propinato per l'intera serata. «Come fai a non accorgertene?»
Sfiorato dalla brezza che giungeva dalle montagne, infilai una mano nella tasca dei pantaloni e chinai il capo. «Ho altre preoccupazioni» glissai. «Si tratta del lavoro di papà, non userò il mio tempo per valutare la bellezza di una ragazza con cui devo solo portare a termine degli affari».
«E io, invece, penso che sei troppo severo con te stesso» rifletté. «Lasciati andare, sei a Monaco!» proseguì, imperterrito. «Hai serate da urlo a tua disposizione, locali assurdi, e sei single» precisò. «Fa' come me: dopodomani farò casualmente una passeggiata in queste zone, e casualmente incrocerò quello schianto».
«Passo» dichiarai. «Se ho una giornata libera dagli impegni, preferisco passarla con Erin».
«La gravidanza di Giselle ti ha proprio rovinato» constatò. Strinsi il pugno nella tasca, il sangue che defluì nelle vene insieme a una rabbia ribollente. «Stai invecchiando prima del tempo». Un altro giudizio, un'altra scarica d'ira che mi fece gettare il mozzicone a terra, guadagnandomi un'occhiataccia dalla guardia del casinò.
«Torniamo in hotel, prima che io ti tiri l'ennesimo pugno» sentenziai, sbuffando per stemperare la tensione. A passo lento, iniziai ad avviarmi verso Avenue des Beaux-Arts per risalire all'Hermitage. «Non ho voglia di discutere».
Michael sembrò comprendere perché, silenzioso, marciò al mio seguito. Non proferì vocabolo alcuno, consapevole delle mie reazioni esagerate quando la rabbia prendeva il sopravvento. Bastava toccare pochi, piccoli tasti per scatenarmi, e non era conveniente per nessuno dei due che ciò accadesse in pubblico. L'immagine della Woodward Entertainments ne avrebbe risentito. Non che m'importasse, certo.
Metro dopo metro, tuttavia, era un costrutto di realtà a prendere forma nella mia mente. Lì, a Monaco, le frustrazioni e le seccature stavano aumentando di giorno in giorno, rappresentando l'ennesimo motivo per cui avrei voluto salire sul primo volo per Londra.
I nemici contro cui combattere erano diventati due: Desirée da un lato, Michael dall'altro.
Erano astuzia e presunzione, illusione e sarcasmo. E io avrei dovuto lottare contro entrambi.
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Nota dell'autrice
Buongiorno a tutti, amici, e buon sabato! Come state? <3
Oggi siamo qui con l'ottavo capitolo di AD e ci caliamo nel fulcro della vita mondana monegasca: il casinò. Il nostro quintetto ormai formato (perché finalmente abbiamo occasione di conoscere anche Michael, che sarà un personaggio abbastanza peperino) passa la serata con una partita di blackjack, a colpi di astuzia, seccatura e invidia.
Non vi nascondo che capire le regole del gioco sia stato complesso, ma estremamente affascinante. Non vedo l'ora di portarvi in altre serate di gioco organizzate dal nostro futuro capo...
Anche qui, inoltre, ritroviamo gli scontri tra Isaac e Desirée, ma ricordate: siamo solo all'inizio, e le cose potrebbero cambiare presto. Nel prossimo capitolo avremo un accenno alla loro prima occasione di avvicinamento... Non vedo l'ora di farvi scoprire cosa sarà!
Nel frattempo, come sempre, vi chiedo il vostro parere sul capitolo e le vostre teorie sulle vicende future. Cosa vi aspettate dai personaggi? Fatemelo sapere!
Ci vediamo sabato prossimo, pronti a far fronte alle prime debolezze di Desirée e a qualche indizio su ciò che accadrà.
Vi aspetto... <3
IG & TikTok: zaystories_
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Note informative
- Per legge, i monegaschi non possono giocare d'azzardo in qualsiasi casinò del Principato. Questo divieto è stato stabilito ufficialmente solo nel 1987, ma pone le sue radici all'epoca del principe Carlo III di Monaco, che aveva vietato ai monegaschi di giocare per evitare l'impoverimento (visti i bassi redditi dell'epoca) e il rischio di frode. Ciò si collega a un lato di Desirée che avremo modo di esplorare più avanti e che la porterà ad andare oltre questa regola.
Salle Blanche, Casinò di Montecarlo
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