6. Retour
IT: ritorno
✧✧✧
21 aprile 2023
Montecarlo, Principato di Monaco
Anche il giorno successivo, il sole non si nascose e brillò sul Principato; penetrò dalle immense finestre chiuse dell'hotel mentre, in piedi dinanzi allo specchio del bagno, allacciavo l'ultimo bottone della giacca marrone e sistemavo il colletto della camicia.
In programma c'era una breve visita a un'altra delle proprietà di interesse della Woodward Entertainments, anch'essa capitanata dal senso di superiorità e comando emanato da Desirée. La mia voglia di rivederla era scemata la sera precedente, dopo aver partecipato da spettatore al suo circo di musica, cocktail e lustrini, finto come una casa delle bambole. Mi bastarono pochi minuti per capirlo: il suo gruppo era costituito di burattini di ceramica animati dall'apparenza.
Mi lasciai andare in un sospiro sommesso e abbassai lo sguardo. Cercai, tra le striature del ripiano di marmo pregiato, la boccetta di profumo; la afferrai e ne spruzzai qualche goccia sulla pelle nuda del collo. Frizionai i capelli con le dita.
Non era solo l'impellente necessità nutrita da Desirée di mostrarsi perfetta agli occhi altrui, a infastidirmi: il contorno che lei mi serviva su un piatto d'argento era costituito di impegni in cui mi coinvolgeva solo per il gusto di sfidarmi, di dimostrarmi che quel paio di chilometri quadrati le apparteneva. Tutti conoscevano il suo nome, ma non era per la straordinarietà che lei fingeva di possedere. Era il potere del cognome del padre a renderla inconfondibile tra la folla di nativi e turisti.
La distrazione migliore dai miei obblighi, tuttavia, piombò nel bagno in quell'esatto momento. Erin, abbellita da una gonnellina blu navy che le copriva metà delle ginocchia e una polo bianca che le lasciava le braccia scoperte, corse nella mia direzione. Lo fece per regalarmi un rapido congedo prima di recarsi all'asilo accompagnata da Kira, ma io la fermai e la presi in braccio. I suoi capelli rossi, acconciati in due trecce alla francese, mi solleticarono il volto.
«Che bella che sei» mi complimentai con un sorriso, distendendo una piega formatasi sul tessuto della sua polo bianca. Abbassai lo sguardo e notai il logo dell'École Saint-Charles. «Non dovrai mica conquistare un bambino all'asilo, vero?» le domandai, ridacchiando.
L'ironia era parte integrante del nostro rapporto. Sapevo che era troppo presto per concepire quell'eventualità, che presentai su un piano scherzoso, ma ero altrettanto consapevole della gelosia e del timore che avrebbero rimontato in me quando il momento sarebbe giunto. Eravamo sempre stati io e lei, nella nostra bolla di abitudini e giochi sporadici a causa degli impegni lavorativi. Una terza presenza non era contemplata.
«Non mi piacciono i bambini francesi» si imbronciò.
Scoppiai in una fragorosa risata e reclinai il capo all'indietro. «Non sono francesi, amore» precisai. «Non dire loro una cosa del genere, se non vuoi farli arrabbiare» mi raccomandai.
«E poi, io non voglio un fidanzatino!» continuò a impuntarsi, spalancando le piccole braccia in segno di protesta. Finito il teatrino, le riportò a cingermi il collo. «Preferisco te, papà» sussurrò.
Quell'affermazione dipinse un sorriso sincero sul mio volto. Le carezzai la schiena con fare affettuoso, stampando le labbra tra i suoi capelli morbidi e profumati. Con la spontaneità e l'allegria che emanava, mia figlia riusciva a farmi riconquistare la felicità anche quando si prospettava una giornata metaforicamente plumbea.
Le porsi una guancia. «Dammi un bacio» le ordinai con dolcezza. La sua piccola bocca aderì alla mia barba curata.
«Tu mi pungi!» mi rimproverò, tirandomi un buffetto sulla spalla.
«Scusa, principessa. Papà non lo farà mai più» le promisi. Udii il nome della bambina esclamato da Kira, segno che lei dovesse recarsi all'asilo. La riportai a terra con delicatezza. «Vai, Erin» la invitai. «Ci vediamo oggi pomeriggio, va bene?»
Lei annuì e le treccine le rimbalzarono sulle spalle. Dopo un effimero saluto, saltellò per raggiungere la babysitter nell'atrio della suite.
Nella solitudine e nel silenzio rimasti dopo la chiusura della porta d'ingresso, che notificò il saluto di Erin e Kira, dispiegai un raggrinzimento della giacca. Mi accertai che i gemelli dorati ai polsi fossero saldi, onde evitare di perderli, e finalmente varcai la soglia per tornare nella camera da letto.
In assenza di Kira e della bambina regnava una quiete inimitabile. A tenermi compagnia, solo il suono delle onde increspate del mare, al largo di Port Hercule, e il rombo dei motori potenti che sfrecciavano per le strade sempre trafficate di Montecarlo.
Era ancora presto per recarmi all'esterno dell'hotel e attendere l'arrivo di Desirée. La giornata che aveva organizzato era, per me, una grande incognita: ignoravo quali delle proprietà di mio interesse mi avrebbe mostrato, ed ero altrettanto incerto circa la mia capacità di sopportare la sua voce squillante e il suo atteggiamento spocchioso. Impiegai una serata per calarmi nel suo mondo, ma fu sufficiente un minuto per volerne uscire.
Nell'attesa, quindi, mi sedetti ai piedi del letto. Sul materasso campeggiava solitario il mio cellulare, abbandonato per prepararmi prima di uscire, e lo afferrai per controllare l'orario. Non furono le due coppie di numeri stagliate sullo sfondo, tuttavia, a catturare la mia attenzione. A farlo fu l'immagine che mi ritrovai dinanzi: quel giorno, il dispositivo aveva deciso di propormi uno scatto di Giselle che, tra le braccia, stringeva la piccola Erin agli albori della sua vita. Senza di me.
Erano passati quasi cinque anni e non potevo concedere spazio ai rimorsi. Così, agendo con freddezza, sbloccai la schermata e cercai la distrazione scrollando la pagina principale dei social. Lo feci con noia, con una lieve seccatura scaturita dalla cultura dell'esibizionismo che mi dilagava intorno, ma fui costretto a riconcentrarmi quando il nome utente di Giselle stessa spuntò davanti ai miei occhi.
La rotellina girò, il caricamento impiegò pochi secondi. La foto che comparve mi mozzò il fiato.
In secondo piano, ignorati dalla messa a fuoco, si stagliavano gli alberi lignei di un antico vascello. Sul ponte, tuttavia, si svolgeva una scena dinanzi a cui le mie pupille dolsero e le mie iridi si spensero. Nash vantava una divisa cerimoniale bianca, i capelli biondo cenere liberi per la cessione del cappello che copriva il capo della sua fidanzata. La mia Ellie che, imprigionando il viso del ragazzo tra le mani, mostrava all'obiettivo un anello scintillante. La didascalia mi confessò la verità più dolorosa che la mia mente potesse concepire: "Sì, tenente", recitavano le singole lettere.
Giselle si sarebbe sposata.
Sentivo le dita tremare, a quella presa di coscienza. Il cellulare non era stabile e il palmo sudava, rendendo scivolosa la superficie metallica. A completare il quadretto di quell'ammissione inaspettata, si aggiunse una lacrima che rivolò, solitaria, lungo la mia guancia. La asciugai in fretta con il dorso della mano.
Aveva impiegato un solo anno a ricostruire la vita da capo. Aveva trovato un uomo degno di tal etichetta, che la amasse senza riserve e senza dolore. Con carezze e senza percosse. Aveva un lavoro, condivideva una casa con il suo futuro marito.
E io, cinque anni dopo la rottura, me ne stavo con le mani in mano ad ammirarla da lontano in una stanza d'hotel, circondato da fonti di irritazione.
«'Fanculo» farfugliai, bloccando lo schermo. Il display si annerì.
Accantonai il dispiacere. I crucci si concatenavano; un problema ne generava un altro per il malessere che causava, e io non potevo permettermi di perdere colpi. In gioco c'era la soddisfazione di mio padre, quella che da bambino non avevo potuto regalargli, e avrei fatto di tutto per sperare che lui credesse in me.
Distesi le gambe e mi alzai dal letto, lasciandomi il pensiero delle nozze prossime di Giselle alle spalle. Meritava quella felicità e nemmeno negli anfratti della mia mente potei concepire l'idea di ostacolarla; avevo già commesso tanti errori nei suoi confronti, pensai mentre mi accingevo a camminare verso l'ingresso della suite, e non avrei rischiato di aumentare i sensi di colpa già gravosi.
Nell'avvicinarmi all'uscio che mi avrebbe condotto al corridoio, il telefono che collegava la reception dell'hotel alla stanza squillò dall'anticamera. Anche quel trillo acuto mi innervosì, ma sfogai la seccatura stringendo un pugno lungo il corpo. Serrai l'altra mano attorno alla cornetta bianca, che portai all'orecchio.
«Sì?» mormorai.
«Signor Woodward, buongiorno» esordì una voce maschile, proferendo un augurio gioioso di inizio mattinata. Al diavolo anche la sua contentezza. «La signorina Aubert è qui per lei, la sta aspettando».
«Certo, le dica che arrivo subito» tentai di ridestarmi. Analizzando il mio riflesso appeso all'ingresso, poco sopra il mobile su cui giaceva il corpo del telefono, passai le dita tra i capelli scuri e sistemai alcune ciocche ribelli.
«Sarà fatto» assentì il mio interlocutore.
Senza degnarlo di un'ulteriore risposta, di una replica o di un commiato, riposi la cornetta e allacciai un bottone della giacca sfuggito dalla sua asola. Mi liberai di un paio di pieghe che imbruttivano il colletto della camicia bianca; dalla superficie lignea del mobile, prelevai quindi il mio paio di Ray-Ban con cui nascosi le iridi celesti.
La suola delle scarpe lucide ticchettò sul parquet e riverberò per l'intero corridoio nel momento in cui mi lasciai la porta alle spalle. Imboccai l'ingresso del primo ascensore libero e, dopo aver premuto il pulsante, attesi di raggiungere il piano terra. Sentivo l'incapacità di sopportare quell'ambiente sulla pelle defluirmi bollente nelle vene, ma fui costretto ad accantonarla quando le porte scorrevoli si aprirono sulla hall dell'hotel.
La luce diurna inondava l'ambiente, coprendo il mobilio e i presenti con un manto dorato. Ad aspettarmi, seduta su un divanetto grigio con le gambe accavallate, fece capolino la figura snella di Desirée. Il suo corpo dalle curve pronunciate vantava un vestitino rosa dalla gonna vaporosa, che mise in mostra quando si alzò per raggiungermi, una volta accortasi di me; il rumore fastidioso che riecheggiò fu causato dai tacchi abbinati all'abito. Con il fiocco che portava tra i capelli acconciati in una mezza coda, la somiglianza che assunse fu quella di un confetto perfettamente confezionato. Ridicola ed esagerata.
«La puntualità non è tra le tue virtù» mi stuzzicò, camminando nella mia direzione. Tra le sue dita dondolò un mazzo di chiavi, tra cui spiccò il logo scintillante di Lamborghini. «Non sei felice di essere nelle mie mani anche oggi?» Nel domandarmelo, roteò sui tacchi e la chioma scura le si adagiò su una spalla lasciata scoperta dall'assenza di spalline. Marciò come se la distanza tra lei e il portone dell'hotel fosse stata una passerella.
«Preferirei il patibolo, Daisy» replicai sarcastico, arrendendomi al suo seguito. Rifugiai una mano in una tasca e lasciai che un numero cospicuo di metri intercorresse tra noi.
«Simpatico» mi restituì l'ironia.
Un giovane portinaio spalancò l'uscio per lei, munendosi di un sorriso cordiale. Lo superò con la sua camminata spavalda di cui io fui un banale seguace, e infilai il portone ligneo una volta raggiunto. Accostata al marciapiede dinanzi all'hotel sostava l'ennesima ragione della mia novella seccatura monegasca: migliaia di cristalli scintillavano sotto il sole a rivestire la carrozzeria nera di un'imponente Lamborghini sportiva. La sua Lamborghini, quella di cui lei spalancò la portiera per accomodarsi al volante.
Un ronzio riverberò nel silenzio quando lei abbassò il finestrino oscurato. Mi scrutò, gli occhi nocciola celati da un paio di scure lenti quadrate.
«Non sali?» mi intimò, impaziente. «Voglio mostrarti il Country Club».
La diedi vinta alla cedevolezza e aprii la portiera, scivolando all'interno della vettura. Il morbido sedile mi diede il benvenuto, così come il poggiatesta su cui era ricamato il toro dorato dell'azienda automobilistica italiana, e sfilai gli occhiali da sole per godermi il sole che brillava sulla Costa Azzurra.
Nonostante il carattere pacchiano dei cristalli che sostituivano la sua lucentezza originale, l'auto era un vero gioiellino. Il taglio degli interni le conferiva un connubio di modernità ed eleganza, unite a un tocco sportivo che non guastava; il logo riportato negli angoli liberi ne esaltava il prestigio e l'esclusività. Una miriade di comandi e un display dividevano me e Desirée, che serrò le dita guantate intorno al massiccio volante di pelle. Per la sua piccola statura, quel veicolo sembrava una presa in giro.
«Una Lamborghini» constatai, la frase che assunse una piega interrogativa. In attesa di un riscontro da parte della ragazza, appesi i Ray-Ban alla giacca per mezzo di un'astina.
«Regalo di papà» precisò. Il rumore emise un rombo e lei iniziò a spingere sull'acceleratore. La raffinata architettura del Principato scorse al nostro fianco, dissolvendosi in una macchia indefinita.
La sua affermazione scaturì la mia risata. «Cos'altro potevo aspettarmi?» commentai. Appoggiando un gomito accanto al finestrino abbassato, mi godetti i palazzi e la vegetazione che, in quel territorio circoscritto dalle dimensioni minime, non scarseggiava.
«Cosa vorresti insinuare?» Per ammonirmi, mi lanciò un'occhiata torva che la deconcentrò dalla strada. La paura di un ipotetico incidente mi assalì finché lei non riportò lo sguardo sull'asfalto, riconquistando la calma. «Anche se lui non avesse pensato di regalarmela, mi sarebbe bastata la mia carta di credito, Woodward» puntualizzò.
«Touché» la canzonai. «Credo solo che sia sprecata, in città. Questo gioiellino può spingere fino ai trecento chilometri orari».
Dalla mia affermazione ricavò una piccola vendetta di cui assaporò la dolcezza con un ghigno furbo: spinse il piede sul freno e inchiodò, all'improvviso e incurante dei pericoli, nel bel mezzo della strada che stava percorrendo. Fui spinto in avanti, privo di cintura di sicurezza. Il batticuore mi ricordò di allacciarla.
«La tua saccenteria mi dà sui nervi» asserì. Si sfilò gli occhiali da sole, riponendoli nel vano portaoggetti al suo fianco. «Te lo faccio vedere io, se è sprecata o meno».
Fu così che cambiò il pedale. Mentre adocchiavo un cartello che notificava la nostra vicinanza alla spiaggia pubblica di Larvotto, Desirée spinse sull'acceleratore, la lancetta del contachilometri raggiunse l'emisfero opposto del quadrante e, in una manciata di minuti, la velocità ammontò a un paio di centinaia di chilometri orari. Era ben oltre il limite consentito sulla statale, ma lei non parve curarsene. Procedette decisa e io, con le dita salde attorno alla maniglia soprastante al finestrino, tentai di scongiurare il voltastomaco repentino. Il rombo del motore era solo un sottofondo; il mare cristallino scorreva alla mia destra e, alla mia sinistra, la ragazza ostentava un sorriso orgoglioso.
«Va bene, Desirée, finiscila» le ordinai. «Per la mia e per la tua incolumità. E per evitare una multa salata» aggiunsi.
Lei fece spallucce, diminuendo gradualmente la pressione sul pedale. «Mio padre la pagherebbe».
«Non lo metto in dubbio, ma la tua patente ne risentirebbe».
Non mi degnò di una risposta. Era stanca della prontezza delle mie battute, tanto che decise di tergiversare: «Alla tua destra, il Monte-Carlo Bay Hotel & Resort, l'unico hotel a quattro stelle tra le nostre proprietà. Affaccia su una piccola laguna mozzafiato, ha una spa e due piscine. Un piccolo angolo di paradiso» illustrò. «Per farti un'idea, siamo nella zona del Jimmy'z, dove eravamo ieri sera» aggiunse.
Avevo lo sguardo perso fuori dal finestrino, nel momento in cui lei svoltò a sinistra. Aveva entrambe le mani fisse sul volante, vista l'assenza di cambio manuale e della conseguente necessità di scalare le marce. La strada proseguì in una breve salita, che culminò con un pannello verde a bordo del marciapiede accogliente turisti e nativi: il corsivo elegante recitava, a caratteri cubitali, la dicitura "Monte-Carlo Country Club", affiancata dal piccolo disegno di una racchetta da tennis.
Giunti sul posto, parcheggiò l'auto nell'area adibita e spense il motore. Regnò la quiete, intervallata solo dai borbottii delle macchine vicine e dai cinguettii degli uccellini rifugiati nella natura circostante. Quando scesi dal veicolo, emulando i movimenti di Desirée, inspirai una boccata d'aria e mi godetti il paesaggio.
Il Country Club sorgeva su una collina dall'altitudine non eccessiva che regalava ai visitatori una vista mozzafiato sul mare. Era la giornata perfetta da trascorrere all'aria aperta in un luogo come quello. O, per meglio dire, ne ebbe tutti i sentori finché Desirée non mi rammentò della sua presenza con il suo insostenibile ticchettio.
«Piccola curiosità» esordì affiancandomi, intenta a infilare il cellulare in una borsetta bianca che appese al suo polso. Era priva dei guanti che portava alla guida. «Siamo oltre il confine del Principato, in questo momento. Anche se il Country Club è di nostra proprietà, è stato costruito in Francia per una questione di spazio».
«In Francia, dove?» curiosai.
«Roquebrune-Cap-Martin, vicino all'Italia» mi informò. Concessami la soddisfazione di una risposta, quindi, si allontanò da me per marciare verso l'entrata dell'area di nostro interesse. Si accorse della mia immobilità e si voltò per passarmi al vaglio. «Andiamo?»
Gettai un ultimo sguardo al paesaggio che mi si stagliava dinanzi, poi obbligai il mio corpo a seguirla. Dopo un ultimo e breve tratto in salita, giungemmo davanti a un piccolo edificio dai colori chiari, il cui muro era abbellito in parte da pietre a vista. Il cancello verde dalle linee sinuose che si apriva al suo fianco consentiva l'accesso al Country Club. Lo varcammo senza problemi di alcuna sorta: Desirée, lanciando un'occhiata al gabbiotto in muratura, si fece riconoscere e potemmo procedere.
Camminammo lungo una passeggiata che ci concedeva di osservare, da un punto rialzato, i primi campi da tennis a terra rossa che costituivano il complesso. Affacciavano tutti sul mare, incluso uno che vantava di enormi tribune. Mi avvicinai al muretto per godermi al meglio il panorama.
«Posso immaginare il perché dell'interesse di tuo padre per questa struttura» proferì Desirée, avvicinandosi a me. Anche il suo sguardo si perse all'orizzonte. «Il Country Club rappresenta una delle nostre più grandi ricchezze, perché coinvolge le persone sia in chiave sportiva, che di intrattenimento» cominciò a spiegare. «Qui ha sede l'accademia di tennis di Montecarlo e, soprattutto, ogni anno ospitiamo il torneo Masters dell'ATP. Migliaia di persone vengono qui solo per assistervi» esplicò. «Si è tenuto proprio la settimana scorsa».
«Posso farti una domanda?» le chiesi, incuriosito dal suo racconto. I miei occhi piombarono su di lei, sui suoi capelli morbidi adagiati su una spalla scoperta, sul rosa del suo abbigliamento che spiccava sotto i raggi dorati del sole insistente.
«Certo, siamo qui per questo».
«Perché il luogo nominale rimane Montecarlo, se siamo in Francia? Non potreste semplicemente dare a Cesare quel che è di Cesare?» la questionai.
In risposta, fece spallucce. «Per sottolinearne il prestigio, credo» ipotizzò. «Se hai finito di citare il Vangelo, possiamo proseguire?» scherzò, sarcastica. A tratti, la seccatura che provavo per lei tramutava in una velata simpatia limitata a un'ironia condivisa e compresa.
Annuii mascherando un ghigno divertito, e la seguii quando lei avanzò. La affiancai, i passi ben distesi sulle piastrelle della passerella in direzione di un secondo edificio. Mi godetti la vista del mare, la sua sfumatura che andava dal verde al blu, finché il panorama non scomparve alle spalle di un muro imponente.
«Nonostante sia un complesso prettamente sportivo, dedicato soprattutto al tennis, il Country Club permette di svolgere molte altre attività» riprese a spiegare, gesticolando nell'aria. «Abbiamo una piscina, diversi spazi per il fitness e il ping-pong, dei campi da golf e, per non farci mancare nulla, anche alcuni ristoranti». Camminava lenta, un piede dinanzi all'altro a ogni passo ben calibrato; le braccia aperte, a sottolineare gli intenti di tenere una presentazione teatrale.
Spettacolo e vanto, impeccabilità e lustro: i pilastri portanti della sua personalità.
«Per essere una società che controlla due chilometri quadrati di territorio, non vi manca niente» commentai, piacevolmente sorpreso. Mi concentrai sulla parete che scorreva alla mia sinistra, su cui erano esposte alcune fotografie dei vincitori del torneo di tennis nel corso degli anni. «Un Country Club come il vostro, in particolare, sembra l'attività perfetta per guadagnare nel nostro settore».
«Ed è per questo che me lo terrò stretto, Woodward». Emise un fruscio, quando piroettò sulla suola spessa delle scarpe. Si avvicinò a me con le iridi impreziosite dal brillio della sfida, l'andatura flemmatica; dal basso, mi scrutò con le pupille attente, quando fu una scarsa decina di centimetri a dividerci. «Dovrai pregare per vedere mio padre firmare quei contratti».
«Il nostro compito non è quello di farvi soccombere, Daisy» le ricordai. «I fatturati delle nostre aziende rimarrebbero quasi pari, anche se voi aveste delle proprietà in meno tra le mani, e sai il perché?»
«Illuminami», e incrociò le braccia sotto il seno messo in evidenza dalla scollatura a cuore. Fu una caduca attenzione, quella richiamata dalle sue curve prosperose, ma mi inumidii le labbra per il piacere visivo e riportai lo sguardo sul suo viso.
«Voi controllate l'intrattenimento del secondo Paese più piccolo al mondo, un paradiso fiscale in cui la maggior parte delle persone viene per la qualità della vita e usufruire dei vostri servizi» illustrai. Braccia conserte, creai uno scudo contro la guerra che mi stava dichiarando con la forza del suo irremovibile ghigno. «Noi, d'altro canto, lavoriamo in un Paese in cui le periferie sono soffocate dalla povertà. Solo al centro delle metropoli si respira un'aria simile alla vostra» proseguii. «Le persone da cui guadagniamo costituiscono un numero limitato, Desirée. Comprare e gestire alcune delle vostre attività ci aiuterebbe solo perché le entrate arriverebbero dal vostro pubblico, ma la vostra situazione non cambierebbe» conclusi. «In parole povere, i miliardari giocherebbero sempre in casa, con voi».
«Interessante, sì» annuì, ciondolando il capo con lentezza. Si prese gioco di me, tuttavia, con un sorriso dettato dal diletto. «Peccato che io sia una persona troppo determinata, e che mi tenga stretto ciò che è mio. Il guadagno è in secondo piano. Io, da questa azienda, voglio solo un'ampia area di influenza» ammise. «So di meritarmelo, Isaac, e non sarai tu a sminuire i miei intenti» dichiarò. Riprese a camminare nella direzione opposta, i passi ora lesti e indirizzati all'uscita del Country Club. «Andiamo, Cambridge» mi apostrofò, con l'evidente intenzione di burlarsi dei miei studi. «Voglio farti vedere il Palazzo dei Principi e mettere un punto a questa giornata».
Non potevo intestardirmi e disobbedire ai suoi ordini. Lasciai cadere le braccia lungo il corpo e, a malincuore, la seguii. Dalle mie labbra uscì un sonoro sbuffo contrariato.
«Era Oxford, comunque» precisai.
Lei alzò le mani, dimostrando innocenza senza guardarmi. «Pardon».
Uscimmo dal complesso in pochi minuti e, in silenzio, raggiungemmo la sua auto. I cristalli scintillavano al sole che si innalzava nel manto azzurro di ora in ora. Con movimenti identici e sincronizzati, io e Desirée entrammo nell'abitacolo e ci lasciammo cullare dal tepore primaverile. Un clima così mite e piacevole che, in Inghilterra, era un'utopia.
La ragazza avviò il motore e spinse sull'acceleratore, la strada percorsa a ritroso: con il vento che si soffiava nel veicolo attraverso i finestrini abbassati, costeggiammo il Monte-Carlo Bay Hotel & Resort e fiancheggiammo l'immensa lingua di sabbia di Larvotto. Ritornando nell'eleganza estrema del quartiere di Montecarlo, accanto a noi scorse il casinò, che scomparve alle nostre spalle quando Desirée imboccò la discesa verso Port Hercule.
Era concentrata sulla strada, l'asfalto era l'unico oggetto della sua attenzione. Senza gli occhiali da sole, abbandonati nel vano portaoggetti, le iridi nocciola brillavano al loro incontro con i raggi e la pelle ambrata assunse un colorito dorato. Il naso all'insù, abbinato a labbra carnose e un paio di zigomi alti, le conferivano un profilo degno d'invidia.
Non era solo la sua determinazione, a renderla perfetta per l'incarico che bramava. Il suo aspetto, oggettivamente gradevole, garantiva un'ottima immagine alla società di cui avrebbe preso le redini.
Schiarendosi la voce, mi impedì di perdermi in un'ulteriore distrazione.
«Potremmo costeggiare il porto» enunciò, stringendo le dita attorno al volante, «ma su Boulevard Albert Premier stanno lavorando al nuovo asfalto» esplicò. «È lì che...»
«Che si trova la griglia di partenza del Gran Premio di Formula Uno» conclusi, avvalendomi di un sorriso fiero. «Lo so, Daisy» affermai. «Ho visto questo circuito decine di volte in televisione».
L'automobilismo, in particolare la sua massima categoria, era stato lo sport che per anni mi aveva tenuto compagnia nel piccolo appartamento in cui abitavo con mio fratello, mia madre e mia sorella, oltre a essere l'unico passatempo che io e Michael condividevamo. Sempre insieme, su un divano logoro; il nostro divertimento consisteva in venti auto che correvano in cerchio, prima che il nostro rapporto si deteriorasse.
«Non puoi odiare il Principato così tanto, allora» dedusse quindi la ragazza, palesando il solito ghigno soddisfatto.
Appoggiai un gomito alla portiera per godermi la sfilata di palazzine curate e alberi potati alla perfezione, studiando i passanti. «Mi limito ad amare i tre chilometri di circuito. Il resto è noioso».
Quell'affermazione parve infastidirla, poiché separò i palmi dal volante per farli aleggiare in una manifestazione di seccatura. Uno sbuffo mosse una ciocca che le era ricaduta sul viso. «Con questa negatività, non ti godrai nulla» mi ammonì.
In risposta, feci spallucce. «Non posso godermi qualcosa che mi è stato imposto».
«Quello che stiamo facendo è solo una minima parte del nostro futuro lavoro, Isaac» mi rinfacciò. «Siamo destinati a questo, che ti piaccia o meno».
Le lanciai uno sguardo: imboccando una rotonda trafficata, gonfiò i polmoni pur trattenendo un sospiro. Fu allora che scorsi un baluginio di arrendevolezza, ma lo sguardo deciso che scelse di indossare nascose ogni accenno di vulnerabilità.
Sei più trasparente di quel che credi, Desirée.
Non replicai alla sua affermazione e, nel mutismo liturgico in cui ci rintanammo, lei accelerò lungo un rettilineo in salita. Dopo uno stretto tornante, rallentò fino a frenare in un parcheggio. Intorno a noi si ergevano edifici chiari e semplici, adornati da bandiere monegasche di ogni dimensione che danzavano secondo l'andamento della brezza.
Una volta scesi dal veicolo, Desirée tornò a camminare dinanzi a me. Con passo deciso e consapevolezza, si addentrò in un reticolo di vicoli concedendomi uno scarso metro di spazio vitale.
«Benvenuto nella parte vecchia della città» proclamò. «Il quartiere è noto anche con il nome di Le Rocher, ed è amato dai turisti per il Palazzo dei Principi, che tra poco ti mostrerò» illustrò. «Qui hanno sede anche il Consiglio Nazionale, la Cattedrale dell'Immacolata Concezione e il Museo Oceanografico».
Continuai a camminare al suo seguito, una mano rifugiata in una tasca morbida e l'altra lungo il fianco. In direzione del palazzo, le vie si stringevano e si incontravano a formare un labirinto di edifici chiari, in cui si alternavano boutique di prodotti tipici e ristoranti. A essere esaltato, in quel quartiere, non era la ricchezza, bensì il prorompente patriottismo degli abitanti.
Curiosai con lo sguardo, perdendomi in targhette affisse alle pareti e locali decorati minuziosamente, fin quando un dettaglio non attirò la mia attenzione.
«Perché le vie sono chiamate anche "carrugi"? La lingua ufficiale non è il francese?» domandai alla ragazza.
«"Carrugiu" è una parola monegasca» rispose senza indugi. «In realtà, viene dall'Italia. Dovrebbe essere dialetto ligure».
«Sembrate più legati all'Italia, piuttosto che alla Francia» commentai con un risolino.
«La storia ci insegna che, prima di essere indipendenti, noi monegaschi siamo stati sotto il dominio della Repubblica di Genova, Woodward» illustrò; dalla voce trapelò la fierezza per le conoscenze e gli aneddoti che di certo non le mancavano. «Questa ne è la conseguenza».
Non ebbi il tempo di replicare perché, imboccato l'ultimo vicolo, sbucammo in una piazza semicircolare. Di fronte a noi, imponente nella sua raffinata semplicità, si stagliava il Palazzo dei Principi.
Con le sue pareti chiare, prive di fregi ornamentali eccessivi, presentava delle grandi vetrate che conferivano luce all'interno dell'edificio, sormontate da archi a tutto sesto. A spiccare sulla sinistra era una torre grigia, realizzata in pietra, sulla cui sommità sventolava una bandiera: su uno sfondo bianco, i monegaschi vantavano l'araldica della dinastia regnante. Anche il portone non passava inosservato, intarsiato con precisione e perfettamente simmetrico; sulla sua cima, il protagonista era una riproduzione dello stemma biancorosso della città-stato. L'ingresso era affiancato dalle postazioni dedicate alle guardie, occupate da militari in divisa nera muniti di fucile. Il loro sguardo gelido era puntato dinanzi a sé, inespressivo.
La piazza, dinanzi all'edificio, era gremita di turisti di ogni fascia d'età, raccolti entro i limiti delineati da alcune catene nere. Io e Desirée ci avvicinammo alla folla con passo lento, tanto che io la affiancai, intento a rimettermi gli occhiali da sole per proteggermi dai raggi insistenti di metà giornata.
«A breve si svolgerà il cambio della guardia» mi informò la ragazza, proteggendosi le sclere con una mano appoggiata alla fronte. «Ogni giorno, è uno dei momenti che attira più turisti qui a Monaco. Per te che non ci sei mai stato, è imperdibile».
Ci sistemammo ai lati di un corridoio centrale, disegnato dalle medesime catene che separavano il pubblico dalla procedura del cambio. Fu proprio quando diventammo parte dei presenti che, al suono allegro delle campane, due guardie marciarono verso il portone d'ingresso, assumendo una posizione rigida e inchiodando il calcio dei fucili al suolo.
Con un passo felpato sui tacchi rosa, Desirée ridusse la distanza che intercorreva tra noi per produrre un sussurro informativo, l'indice puntato verso i militari in marcia: «Loro sono i carabinieri del principe, corpo di guardia della famiglia reale» esplicò.
Cinque carabinieri, quindi, varcarono la soglia; quattro di loro puntavano le canne dei fucili al cielo azzurro. Quando si posizionarono in riga, immobili a gambe divaricate, la banda fece il suo ingresso dal retro della piazza suonando un'allegra fanfara, distribuita tra ottoni e tamburi. Un'altra fila di militari si posizionò di fronte alla precedente, le carabine adagiate sulle spalle, abbassate al loro fianco secondo i comandi impartiti. Disposti anch'essi in riga, la fanfara ricominciò a riecheggiare in un mero squillo di trombe.
In sincronia, le guardie rialzarono i fucili al cielo, muovendoli secondo gli ordini di un unico carabiniere. Quando quattro di loro si separarono dal gruppo e presero a marciare in direzione delle postazioni, la cerimonia giunse al termine e sfociò nel silenzio, popolato solo dai chiacchiericci del pubblico.
La folla iniziò a diradarsi e io rimasi solo con Desirée, i turisti ora sparsi per l'intera piazza. La ragazza continuò ad affiancarmi, con la pelle ambrata del braccio scoperto che sfiorava la manica della mia giacca. Curiosava come se non conoscesse quel luogo a memoria.
«Non vorrei permettermi di giudicare, Daisy» esordii, compiendo un passo per separarmi da lei. «Ma tutto questo non ha niente a che vedere con il cambio della guardia a cui assistiamo noi londinesi».
«Sei incredibile» sbuffò lei, voltandosi infastidita; tornò a fronteggiare i vicoli con l'evidente intenzione di ripercorrere i nostri passi verso la sua auto. «Snob e vanitoso» continuò a giudicarmi. «Un po' di originalità, Woodward. Voi inglesi siete tutti dannatamente uguali».
Iniziò, quindi, ad addentrarsi nelle vie popolate dai turisti. Io la seguii, certo della presenza di una distanza tra noi tale da permettermi di difendermi dalle sue ironiche offese. Mi lanciò le ultime critiche con le spalle voltate, concedendomi la mera vista della sua chioma castana e del fiocco rosa che spiccava tra i capelli.
«E ci tengo ad aggiungere che il nomignolo che mi rifili, per tua sfortuna, mi fa ribrezzo» commentò, acida. «Il tuo accento britannico mi farà venire la nausea».
Essere la fonte della sua seccatura mi provocava un piacevole diletto, che si manifestò sul mio volto sotto forma di un sorriso di cui lei non poté accorgersi. Accelerai l'andatura per raggiungerla, la lontananza imposta in precedenza si trasformò in una scarsa decina di centimetri. Nonostante l'altezza conferitale dai tacchi, la sua statura era ben inferiore alla mia, tanto che, compiendo un ultimo passo per affiancarla, mi chinai verso il suo orecchio. Passai dal francese all'inglese con una facilità estrema, smosso dall'obiettivo di infastidirla, e le sussurrai un roco: «Ci aspettano infinite settimane da trascorrere insieme, Daisy. Cambierai idea». Mi sforzai per marcare la pronuncia.
Fiero della mia replica e certo che lei avesse afferrato ogni parola, la superai a testa alta senza perdere il mio ghigno divertito. La sentii sospirare alle mie spalle, nonostante l'assiduo vociare che riempiva i vicoli di Le Rocher, ma continuò a camminare mantenendo la mia velocità senza degnarmi di una risposta. Avevo avuto il privilegio di essermi guadagnato l'ultima battuta tagliente nei confronti di quella ragazzina viziata, e indubbio era il fatto che bastasse una minima provocazione per metterla a tacere.
Fiancheggiando gli edifici dai colori pastello e dai balconcini decorati con vegetazione rigogliosa, metro dopo metro, sbucammo nello spiazzo in cui Desirée aveva parcheggiato la sua auto. I cristalli continuavano a scintillare sotto il sole, troppo caldo per le temperature primaverili, mentre nell'abitacolo i gradi si accumulavano. La ragazza continuò a non rivolgermi la parola: spedita, aprì le portiere con un semplice comando da remoto e salì alla postazione di guida, aspettando il mio arrivo per avviare il motore.
Prima di fare retromarcia e imboccare la discesa, afferrò gli occhiali da sole abbandonati nel vano portaoggetti e nascose le screziature verdi delle sue iridi. Quindi si concentrò sulla strada, le dita strette attorno al volante e il piede premuto sull'acceleratore. Il rombo fu una sinfonia gradevole, l'intensità accentuata dalla velocità a cui lei decise di procedere.
«Stai tentando un omicidio stradale?» la presi in giro, infilandomi la cintura di sicurezza per ubbidire a un istinto prudente.
«Sporcarsi di sangue non è un atto di gran classe, Woodward» ribatté, le labbra carnose che si sfiorarono nel pronunciare il mio cognome.
«E le manette ai polsi non sono eleganti, sì» finsi di annuire, completando la sua affermazione, divertito per l'ipotetico scenario di vedere la principessina dietro le sbarre.
Sul suo viso, tuttavia, prese forma un sorriso pregno di malizia e diletto. Scosse il capo in un cenno di diniego, senza perdere l'espressione canzonatoria. «Dipende dall'uso che ne si fa».
Fui zittito dal fruscio dei finestrini che venivano abbassati e dal vento fresco che soffiò all'interno del veicolo. I capelli di Desirée danzarono sulle sue spalle, indorati dal sole, e io mi ritrovai a lanciarle un'effimera occhiata. Le sue risposte taglienti, segnate da un lieve sarcasmo, erano la dimostrazione della sua indole provocatoria, ma simpatica al contempo; l'insopportabilità era data solo dal suo costante bisogno di mettersi in mostra, nella vita e nel lavoro.
Ripercorrendo la strada a ritroso, Desirée imboccò la salita in direzione del casinò. Alla nostra destra si stagliava la distesa cristallina increspata dalla brezza, mentre a sinistra sfilavano alcune boutique di lusso che ci accompagnarono fino allo scorgere dell'imponente ed elegante struttura dell'Hotel de Paris, a lato del casinò.
La ragazza superò le auto già parcheggiate in fila e, senza premurarsi di controllare i dintorni, arrestò il suo bolide dinanzi alla scalinata dell'albergo. Prima di rialzare il finestrino, si fece riconoscere con un cenno indirizzato al portinaio dell'albergo: il suo nome rilevante non avrebbe fatto insorgere alcun problema, nemmeno se in divieto di sosta. A motore spento, si assicurò che tutto fosse in ordine e aprì la portiera per recarsi all'esterno. Imitai i suoi movimenti.
«Ti concedo la libertà dalla mia insopportabile presenza, per oggi» dichiarò, sfilandosi le lenti scure. Appese l'astina al punto più basso dello scollo a cuore, evidenziando ancora di più i suoi seni. «Ma sei pregato di non dimenticarti dell'odio che provi per me, viste le "infinite settimane" che dobbiamo trascorrere in compagnia» virgolettò, con la chiara intenzione di burlarsi di me.
Passo dopo passo, mi raggiunse sul limitare della strada. Di tanto in tanto, dinanzi a me, sfrecciavano macchine dal valore inestimabile, le carrozzerie impreziosite dall'oro del sole.
«Ti ricordi la strada per l'Hermitage, vero?» aggiunse, poi.
Mi limitai ad annuire con un cenno del capo, perso nella contemplazione della facciata del casinò che si ergeva di fronte a noi. Vantava colori sobri, fregi privi di elementi frivoli intervallati da sculture di bronzo ormai verdognole. A giudicare dall'esterno, sembrava impossibile che quell'edificio potesse contenere l'esagerazione barocca di Garnier, come Desirée mi aveva illustrato qualche giorno prima.
Incrociando le braccia, mi lasciai cadere contro la tempesta di cristalli della Lamborghini. Desirée, tuttavia, mi ammonì con un'occhiata torva, che mi portò a distaccarmi nell'immediato.
«Prega che non ci sia nemmeno un graffio» mi consigliò con un ringhio.
Alzai le mani per dichiarare la mia innocenza. «Me ne vado, Daisy» la apostrofai per infastidirla. Iniziai a compiere qualche passo indietro per concretizzare le mie parole. «Non c'è bisogno di scaldarsi».
«Ricordati del casinò, tra due giorni» rispose con noncuranza, impegnata a studiare le sue unghie perfettamente laccate. «Sarà mio padre a comunicarti gli altri eventuali impegni».
«A che ora aprono le danze?» le domandai, di conseguenza.
«Alle dieci della sera» replicò. «Sii puntuale».
Fu alla sua ennesima raccomandazione, che finalmente mi volta per concentrarmi sulla strada che si estendeva dinanzi a me. Mancavano pochi metri ad Avenue des Beaux-Arts. «Puntuale per batterti».
Se lei mi diede una risposta, io non potei sentirla per la distanza che, ormai, intercorreva tra noi. Riacquisendo la serietà perduta nel nostro scambio di battute, quindi, risalii la via popolata da turisti e acquirenti; in fondo, si apriva il maestoso portone dell'Hermitage, che raggiunsi con un'ultima decina di passi.
Varcai la soglia e la stanchezza si appropriò di me. Non desideravo altro dal pomeriggio che stava per cominciare: volevo solo dedicare il mio tempo a mia figlia, una volta tornata dall'asilo, per colmare tutte le mancanze di cui lei soffriva a causa dei miei impegni.
Mani in tasca per la rassegnazione, presi la via dell'ascensore. Intorno a me, nella hall elegante, il chiacchiericcio era lieve ed era accompagnato dal cigolio delle ruote dei carrelli utilizzati per il trasporto dei bagagli.
Quando una voce maschile fu schiarita alle mie spalle, tuttavia, capii subito che era troppo vicina per non avere niente a che fare con me. Fu il brivido che mi percorse la spina dorsale all'udire la frase che pronunciò, a raggelarmi.
«Hai già stretto amicizia con la principessa, fratellino?»
✧✧✧
✧✧✧
Nota dell'autrice
Ciao a tutti e buon sabato, amici, come state? <3
Bentornati su AD per il suo sesto capitolo! Facciamo un piccolo recap: oggi, siccome siamo ancora in piena fase introduttiva, abbiamo visto una delle proprietà dell'azienda degli Aubert, il Country Club. In questa sede, ci sono stati i primi sguardi sfuggenti tra i nostri protagonisti, soprattutto l'occhio di Isaac che è inevitabilmente caduto sulla zona privata... D'altronde, non è facile rimanere indifferenti a Desirée.
Dopodiché, ci siamo spostati al Palazzo dei Principi, nella parte vecchia della città. Un luogo che ho voluto farvi vivere al 100%, così da lasciarvi calare nel mondo in cui vivremo per un bel po' di mesi...
Abbiamo anche scoperto una novità destabilizzante e distruttiva per Isaac, ovvero il futuro matrimonio della sua Giselle. Vi avverto: anche questo dettaglio avrà delle conseguenze sull'andamento generale delle vicende.
Tuttavia, è sul finale che cominciano a smuoversi gli equilibri: ritroviamo infatti Michael, l'agguerrito fratello di Isaac ed ennesimo rivale in affari. Come si evolveranno le cose insieme alla sua presenza? Non vedo l'ora di farvelo scoprire!
Come sempre, vi chiedo cosa ne pensate del capitolo e aspetto le vostre teorie.
Ci vediamo sabato prossimo! <3
IG & TikTok: zaystories_
✧✧✧
Monte-Carlo Country Club
Palazzo dei Principi di Monaco
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top