33. Lumière
IT: luce
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6 giugno 2023
Parigi, Francia
Nonostante il sole che, insistente, penetrava nella nostra stanza d'hotel, quel giorno io e Isaac avevamo oziato fino a tardo pomeriggio. Non si era accontentato di avere la capitale francese a sua disposizione: fin dalla mattina, mi aveva trattenuta in camera con una colazione squisita, tra battute dal sarcasmo ammiccante e pura intimità.
Non sapevo determinare con certezza il sentimento che provavo in sua presenza, ma permeava ogni millimetro del mio corpo e della mia mente. Più quel viaggio si protraeva, più era difficile delineare il confine che separava l'obbligo di starsi lontani e il bisogno di colmare ogni distanza.
La stessa necessità che percepivo in quel momento. Isaac non era nella stanza, che aveva lasciato qualche minuto prima con la scusa di dover fare una telefonata, e io avevo approfittato della sua assenza per sistemarmi. Indossai un semplice vestito corto color panna, di cui distesi le pieghe guardandomi allo specchio, e fissai un fiocco del medesimo colore tra i capelli, sul retro della testa.
La sicurezza in me stessa non era mai mancata, ma era qualcos'altro a scarseggiare, quel pomeriggio. Le sue lodi, le sue frasi in grado di farmi sentire migliore di ciò che ero. Eppure, lui non era lì.
O meglio, non ci fu fin quando non sentii la porta sbloccarsi, rivelando l'ingresso dell'uomo che popolava i miei pensieri.
Una riflessione così ossessiva da farmi dimenticare che, dall'altro capo della nazione, si trovava colui che avrei dovuto sposare; le braccia crudeli da cui sarei dovuta tornare, una volta a casa.
«Dove sei stato?» curiosai, finendo di spennellare una spolverata di illuminante sugli zigomi.
«Ho telefonato a Giselle» replicò, monocorde. Dalla sua voce non trasparve né gioia, né contrarietà, ma una punta di gelosia serpeggiò inspiegabilmente tra gli anfratti del mio cervello. Lui, dallo sguardo che mi lanciò, parve notarlo e riprese la parola: «Mi ha detto che tra una settimana sarà a Monaco con il suo fidanzato. A quanto ho capito, hanno organizzato questo viaggio in Costa Azzurra per commemorare il fidanzamento» spiegò, lasciando cadere il cellulare sul letto. «Auguri» aggiunse ironico, in un mormorio. Con pochi e lenti passi, poi, mi raggiunse alle spalle e instaurammo un contatto visivo attraverso lo specchio.
Fingendo di non essere catturata dalle sue iridi a tal punto da immobilizzarmi, riposi alcuni cosmetici nella trousse e terminai il trucco con una passata di rossetto. «Almeno Erin avrà l'occasione di rivedere sua madre, o sbaglio?»
Lui annuì con un mero cenno del capo. «È l'unico aspetto positivo di questa situazione», sospirò.
Non riuscii a formulare una risposta adeguata, reazione che portò un silenzio teso tra noi. Isaac odiava quella sensazione tanto quanto me, pertanto si sforzò di compiere un ulteriore passo avanti. Il suo petto entrò a contatto con la mia schiena e lui, imponente, torreggiò su di me.
Nemmeno quella volta scampai ai brividi che aveva imparato a seminare sulla mia pelle. La sua mano si fece strada sul mio fianco, cingendolo con delicatezza, mentre l'altra piombò dinanzi a me. Tra le dita, due biglietti di cui non decifrai la dicitura, né lo scopo.
«Sono stato anche alla reception, a dire la verità» confessò, abbassando la voce. Si sporse leggermente in avanti, il fiato caldo che ora, a ogni lemma, mi solleticava la pelle del collo mentre lui sussurrava al mio orecchio. «Mi hanno offerto due biglietti per il Louvre. Chiuderà a breve, ma possiamo visitare il museo anche a porte chiuse. Il personale dell'hotel ha già avvisato la struttura» proseguì, accennando un sorriso tra il soddisfatto e il contento. La mano libera passò dal mio fianco alle mie dita, che intrecciò alle sue per farmi voltare nella sua direzione. Non potei resistere a quella proposta, e la sua felicità contagiosa portò anche le mie labbra a inarcarsi, a poca distanza dalle sue. Così irresistibili, così inavvicinabili. «E potrei aver pensato a una serata diversa dal solito...»
Fu istintivo allungare le braccia per cingergli il collo. Con un movimento flemmatico lo attirai a me, ma limitai gli sfioramenti a quelli che lui, fino ad allora, mi aveva concesso. «Dimmi di più» lo incalzai, ampliando il sorriso e socchiudendo le palpebre per lasciarmi beare dal suo profumo fresco.
Lasciò che i suoi palmi mi accarezzassero fino a finire attorno alla mia vita, per la seconda volta. Per neanche un secondo che trascorremmo in quella posizione, mi vennero in mente le conseguenze che avrei dovuto affrontare nel Principato. Nulla aveva importanza, se Isaac era lì per annebbiarmi i pensieri razionali.
«Lascia che io ti sorprenda, chérie» dichiarò, la voce roca. «Ho constatato che mi riesce molto bene».
La sua asserzione mi sottrasse un respiro, che aleggiò sospeso nel vuoto lasciato da lui, nel momento che si allontanò e sistemò il colletto della camicia celeste. Solo allora notai che quel colore chiaro, oltre ad abbinarsi alle sue iridi, delineava la sua muscolatura con una precisione tale da mozzare il fiato.
Come avevo fatto a restargli indifferente per settimane?, pensai.
«Quando vorresti uscire?» gli domandai, più per sfuggire al silenzio che per effettiva curiosità.
In risposta, controllò le lancette del Rolex allacciato al polso – che ben si discostava dall'umiltà che declamava e ostentava. «Adesso, o ti colgo impreparata?»
Nel sentire quelle parole, mi costrinsi a mascherare l'entusiasmo che mi permeava. Non vedevo l'ora di scoprire ciò che Isaac aveva in serbo per la serata, considerata la sua conoscenza della città. Di conseguenza, mi limitai ad annuire con un sorriso, mentre afferrai la piccola tracolla con gli effetti personali.
«Dovresti sapere che sono sempre pronta, in qualsiasi occasione. Oppure non hai imparato a conoscermi abbastanza?» lo canzonai, pungente, camminando verso l'uscita della stanza. Lui si avvicinò a me, pronto a ribattere.
«Non ho mai avuto alcun dubbio a riguardo» affermò. Affiancandomi, poi, mi indusse a credere di voler accompagnarmi alla solita maniera e mi avvinghiai al suo gomito. Lui, tuttavia, mi sorprese facendo scivolare la mano fino a intrecciare le nostre dita; a ogni centimetro conquistato, i brividi disseminati si moltiplicarono. «È la nostra ultima serata insieme, godiamocela» mormorò, il suo sguardo fisso nel mio, il suo potere intenso come una stilettata nel petto.
L'ultima. Dopodiché, solo una prigione di costrizioni che soffocava l'anima.
Il sorriso si spense, ma non perì del tutto. Ne rimase un accenno, tra il malinconico e il mesto, che però cercai di camuffare in felicità per le sorprese imminenti organizzate dall'inglese.
Con lui e con quella convinzione, superai la porta della camera da letto e mi imposi di scacciare ogni pensiero ossessivo.
Godiamocela, Woodward, mi ripeteva la mente. Poi torneremo a fingere, guardandoci da lontano tra confessioni mute e segreti inconfessabili.
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La vista davanti cui ci lasciò il taxista mi rese incapace di proferire verbo.
Dinanzi a noi si stagliava l'immensa piazza del museo. L'edificio maestoso del Louvre, con il suo porticato accessibile tramite gli archi e i decori pomposi che caratterizzavano ogni via della città, abbracciava i visitatori, accogliendoli nel suo fulcro di storia e capolavori artistici. Al centro, la piramide in vetro spiccava come un simbolo inconfondibile.
Non riuscivo a descriverne la meraviglia. Il solo fatto che la nostra serata nella Ville Lumière cominciasse da quel luogo era troppo da elaborare, soprattutto per una che, come me, non aveva mai superato i confini opprimenti della propria città d'origine.
Mi avevano servito tutto, nella vita, ma Isaac mi stava portando oltre la mia concezione di quest'ultima. C'era un intero mondo, e io lo stavo esplorando tramite le sue iniziative.
Approfittando del mio silenzio riflessivo, il britannico colmò la distanza che ci separava e, per la seconda volta in pochi minuti, mi afferrò la mano. Al gesto, accompagnò uno sguardo eloquente da cui trapelò la sincera e dolce attenzione che mi dedicava.
«Andiamo?» mi domandò, destandomi dalla contemplazione della piazza. «Non riusciremo a visitarlo tutto, ma vorrei che tu vedessi almeno le opere più belle».
Annuii con un cenno, ancora incantata dai dintorni. Ci pensò Isaac a muovere i primi passi verso il centro della piazza e, dopo alcuni metri, approcciammo l'entrata centrale, nei pressi della piramide. Un guardiano controllò i nostri biglietti e ci consentì l'accesso alla struttura.
La quiete che regnava tra le sale immense era rilassante; tra le alte pareti, l'unico rumore che rimbombava era quello delle nostre suole che impattavano sul pavimento lucido. Superammo presto l'area di costruzione più recente e Isaac, sapientemente, mi condusse fino all'ala del museo dedicata alle sculture antiche.
Rimasi strabiliata dalla grandezza della sala, accentuata dal soffitto in vetro che lasciava intravedere l'appropinquarsi del tramonto estivo. In religioso silenzio, passeggiammo tra statue appartenenti a ogni epoca storica – dai combattenti romani alle divinità della mitologia greca – abbracciati da un capolavoro architettonico inimitabile.
«È stupendo» commentai, in preda all'estasi. Ignara di quale angolo dell'esposizione osservare, voltai il capo in tutte le direzioni.
Isaac saldò la stretta delle sue dita sulle mie. «E non hai ancora visto una delle sale più belle» dichiarò.
La sua camminata lenta mi guidò fino a un ampio corridoio dal soffitto basso, in cui prevaleva il bianco candido delle pareti, scaldato dai raggi dorati che penetravano dalle finestre. Spiccavano sculture di angeli e altri soggetti ultraterreni sui quali mi concentrai finché, in fondo alla stanza, notai un'altra statua in grado di catturare la mia attenzione.
«Quella è...» mormorai, incredula per la bellezza mentre, ticchettio dopo ticchettio, ci avvicinavamo all'opera d'arte in questione.
«Amore e Psiche di Canova» confermò Isaac. «Un capolavoro del Neoclassico, se non addirittura il suo simbolo» aggiunse, ammirandola.
Un raggio di sole illuminò l'ala marmorea dell'angelo e, di riflesso, indorò il viso dell'uomo. Era arduo focalizzarsi su uno dei due, ma mi sforzai di mantenere lo sguardo fisso sulla scultura. Ancora di più nel momento in cui Isaac, ammaliato, riprese la parola.
Era naturale, per lui, se non addirittura istintivo.
«Credo che sia una delle dimostrazioni d'amore più pure della storia dell'arte» dichiarò. Sollevando la mano libera, poi, iniziò a indicarne alcuni dettagli. «Nonostante ritragga un bacio intimo, Canova non ha ceduto alla lascivia e ha scolpito i due amanti con linee dolci e sinuose, proprio per sottolineare l'innocenza dello scambio. Vedi il braccio di Amore e il modo in cui avvolge il seno di Psiche?» mi domandò, quindi annuii senza interromperlo. Attratta dalle sue conoscenze, potei solo azzerare i centimetri che aleggiavano tra noi, portando il mio capo sulla sua spalla per bearmi della coccola del suo calore. «La stessa tenerezza si vede nella maniera in cui Psiche si abbandona a lui, come se si fidasse ciecamente del suo unico appiglio» aggiunse. «Era l'intento di Canova: manifestare qualcosa di intenso, pur conservandone la sobrietà e l'eleganza. Edle Einfalt und stille Größe» recitò teatralmente in tedesco, attenuato dalla cadenza britannica.
Curiosa, distolsi lo sguardo dalla scultura per indirizzarlo al suo viso. Perso nella bellezza di un interesse che coltivava senza mai manifestarlo, era ancora più attraente. E impossibile da ottenere, rammentai a me stessa prima di chiedergli: «Cosa significa?», in riferimento alla frase straniera.
«Nobile semplicità e quieta grandezza, la descrizione del Neoclassicismo coniata da Winckelmann» spiegò. Facendosi catturare dai miei occhi che lo fissavano insistenti, si voltò verso di me; le sue pupille trovarono le mie, un legame impossibile da sciogliere. «A mio parere, non si applica solo al modo in cui venivano realizzate le sculture. Nel caso di Amore e Psiche, ritengo che questa frase descriva appieno il loro sentimento: senza pretese, immenso nel suo silenzio» proseguì. Fu l'unico istante in cui la sua mano lasciò la mia per arrampicarsi fino al viso, le dita che seguirono fedelmente la forma della mia gota. Eravamo così vicini che ogni lemma implicava una carezza del suo fiato caldo. «Un amore privo di malevolenza che salva dalle difficoltà» sussurrò, prima di ingabbiare completamente il mio volto nella sua presa confortante. «Quello che ti meriti, Daisy» assodò.
Difficile era smettere di guardarlo, arduo prendere fiato. L'ossigeno aveva smesso di alimentare persino il mio raziocinio, tanto che socchiusi le palpebre per godermi il momento nella sua totalità.
Nella tranquillità del Louvre, solo i nostri respiri emettevano un suono. Si mescolavano e si fondevano in un'entità inscindibile, la medesima che io avrei voluto diventare con lui. Eravamo così vicini al compimento del passo che avrebbe forgiato la nostra unione, intima come quella da lui narrata, e per una frazione di secondo ebbi l'impressione di sfiorare le sue labbra morbide.
«Hey, il museo è chiuso!» esclamò una profonda voce maschile, con autorevolezza. Isaac si affrettò nel separarsi da me, lasciandomi boccheggiare per il vuoto improvviso e il cuore scalpitante a causa dei respiri mancanti. «Andate ad amoreggiare nella vostra camera d'hotel!» continuò l'uomo, percorrendo il corridoio ad ampie falcate per raggiungerci.
Isaac mi prese la mano e, riacquisendo la lucidità perduta, fronteggiò colui che immaginai fosse un guardiano: «È stato proprio l'hotel a offrirci i biglietti, assicurandoci una visita a porte chiuse, a dire la verità. Soggiorniamo al Ritz» lo informò.
«Mi rincresce usare questi toni bruschi, ma ve lo ripeto: il museo è chiuso» ribadì. Un ultimo paio di passi, e finalmente fu davanti a noi.
Mai come in quel momento desiderai riavvolgere il nastro degli eventi per cancellarli. Quei capelli biondi, uniti agli occhi imperscrutabili e ai lineamenti cesellati segnati dalle rughe dell'età, erano inconfondibili. Troppo somiglianti alla loro versione più giovane.
Solo allora mi ricordai che il padre di Valentin, Antoine, era il direttore del museo.
Si esimette dal spiccicare parola, in seguito al nostro contatto visivo che si protrasse a lungo. Un'espressione austera da cui trapelò un monito dolente, che bruciò all'altezza del petto e scombussolò ogni emozione.
«Ce ne stavamo per andare» mi sforzai di pronunciare, ignorando la crepa lieve che minò la mia voce.
«Bene. Grazie della collaborazione» concluse, e distolse l'attenzione dal mio viso solo quando si incamminò oltre la sala delle sculture.
Un tremolio incessante iniziò a scuotermi le mani, mentre i respiri persero la loro regolarità per la seconda volta. Più pensavo a come avrebbe potuto agire quell'uomo, che sicuramente avrebbe rivelato tutto al figlio, più il cuore minacciava di esplodere nel petto. Era doloroso contro lo sterno, i battiti difficili da controllare mentre ansimavo e un velo di lacrime mi offuscò la vista.
Cosa sarebbe accaduto se Valentin fosse venuto a conoscenza della verità? Il viaggio in compagnia di Isaac, il nostro rapporto rafforzato: tutto, per lui, era un mistero. Un segreto da cui temevo che sarebbero arrivate gravi conseguenze.
«Desirée» mi chiamò Isaac, precipitoso, afferrandomi con delicatezza la mano che avevo portato sul petto nel tentativo di calmarmi. «Daisy, che succede?»
«E-Era il padre di Valentin» mormorai, la voce spezzata dalla paura. «Lui... Lui dirige il Louvre, Isaac, e ci ha visti!» strillai in preda al panico, le dita libere che si inerpicarono tra i capelli. «Gli dirà tutto e mio padre...» proseguii, trafelata, ma incapace di concludere la frase.
Isaac tornò a colmare la distanza che si era formata tra noi; con un solo passo, finì davanti a me mentre, a stento, riuscivo a guardarlo negli occhi. Non mi lasciò la mano tremante, ma ne accarezzò il dorso per attenuare gli effetti del panico.
«Daisy» ripeté il mio nome, il tono più basso per infondermi la sicurezza che il mio futuro suocero mi aveva sottratto. Portò le dita libere sulla mia guancia, che lambì con movimenti cauti e delicati. «Guardami» ordinò, la voce priva di durezza.
Continuai a sfarfallare le ciglia per evitare di piangere, ma ogni battito del cuore spingeva fuori le lacrime. Boccheggiavo, l'aria mi riempiva i polmoni solo se compivo sforzi erculei.
Qualcosa, però, mi ancorò ai suoi occhi. Le screziature celesti delle iridi diventarono un appiglio, l'unico punto fisso su cui fui in grado di concentrarmi senza perdere il senno.
Come Psiche si fidava di Amore.
Lui continuò a tracciare percorsi invisibili sulle mie gote umide. Solo una lacrima si ribellò al mio controllo, ma lui la asciugò prontamente, spazzandola via con il pollice.
«Valentin non potrà farti nulla. Con te ci sarò io, va bene?» mi domandò, impegnato a ravviare alcune ciocche di capelli dietro le orecchie. «Non gli permetterò di farti ancora del male, Desirée. E quanto a tuo padre... troverai il modo di spiegare tutto. Fidati di me» continuò, le parole accompagnate da cenni del capo pressoché teatrali.
La sua era una supplica. Voleva che credessi alla sua protezione nei miei confronti, ma non capiva che, una volta tornati a Monaco, tutto il mio mondo sarebbe finito in subbuglio. Ciononostante, non proferii parola a riguardo e annuii in silenzio.
La mia conferma fu sufficiente per lui che, poco dopo, fece scivolare giù una mano per afferrare la mia. Non lasciò che io vagassi nel vuoto della sua assenza. Con mia sorpresa, il suo gesto sovrastò l'agitazione.
«La serata non è ancora finita» mormorò, quando fui abbastanza calma da ascoltarlo davvero. «Ho un'ultima sorpresa per te, prima di andare via. E voglio che tu te la goda fino alla fine» asserì.
Forse per il sovraccarico, un'altra lacrima minacciò di cadere, e la soppressi prima che colasse lungo la guancia. Isaac allungò il polsino della camicia e asciugò un rivolo di mascara, con cui si macchiò di nero; sul suo volto comparve un sorriso divertito.
«Trattieniti, avrai altro per cui commuoverti» ridacchiò. «Sicura di non avere bisogno di un mascara waterproof?» mi canzonò ancora.
La sua risata genuina scatenò la mia, che scacciò i resti dei dispiaceri repentini. Riconquistato un barlume di serenità, lo guardai negli occhi e, in un sussurro, gli dissi: «Andiamo, dai».
Ci incamminammo così verso una delle uscite del museo. Ero ignara di ciò che aveva in mente per terminare la serata, ma gli avevo promesso che mi sarei fidata di lui, a prescindere dalla situazione.
Sotto il cielo caldo seppur già cupo, mi lasciai condurre fin oltre la piazza ancora gremita, finché non arrivammo dinanzi a una scalinata. Alzando lo sguardo, compresi la sua direzione e i suoi intenti, che mi fecero inchiodare al suolo.
«Tu vuoi portare me qui, Woodward?» gli chiesi, sorpresa, additando il cartello che indicava la stazione della metropolitana. «Su un treno che puzza di fogna e liquidi non meglio identificati?»
Lui fece spallucce, il sorrisetto arguto non scomparve. «Mi dispiace, chérie, ma per una volta non sarai in prima classe» si burlò delle mie abitudini. «Allora? Vogliamo rimanere qui ad ammirare una rampa di gradini, o preferisci seguirmi? Prometto che ne varrà la pena» giurò.
Se solo non fossi stato così convincente, Isaac.
Pur indossando una maschera di finta ritrosia, di conseguenza, lo seguii all'interno della stazione. Era ancora popolata da alcuni nativi parigini e turisti, che si riversarono all'interno del convoglio non appena arrivò. Occupai il primo posto libero che trovai e Isaac si accomodò di fronte a me. I sedili di plastica erano sudici e scomodi, ma evitai di avanzare l'ennesima lamentela a riguardo.
«Dove siamo diretti?» curiosai, cercando in ogni modo di comprenderlo attraverso il finestrino, che tuttavia affacciava sulle pareti del tunnel sotterraneo.
«Sorpresa» dichiarò, rilassandosi contro lo schienale del sedile.
La mia attenzione vagò dal finestrino all'interno del vagone, silenzioso e semivuoto nonostante la quantità di persone. Me ne pentii solo quando, tuttavia, il mio sguardo incrociò quello di un uomo sulla cinquantina non troppo distante da me.
Mi scrutava, le pupille lascive che strisciavano sulle cosce che il mio vestito non copriva, fino al seno messo in evidenza dalla scollatura. Con indifferenza, finsi di sistemare le coppe dell'abito per coprirmi.
Isaac, nel momento in cui se ne accorse, non la affrontò con altrettanta tranquillità. Lanciò un'occhiata all'uomo e, pochi secondi dopo, a me.
«Vieni qui» mimò con il labiale. Per avvicinarmi a sé, mi porse la mano che io afferrai. Fu impossibile prevedere il gesto brusco con cui mi portò a cavalcioni sulle sue gambe. Mi circondò la vita con le braccia, stringendomi a sé; l'attenzione rivolta all'uomo che, viscido, portò una mano sulla propria intimità, continuando a studiarmi. «Pezzo di merda, togli gli occhi dalla mia donna» sbottò l'inglese.
Bastarono gli ultimi due lemmi di quell'avvertimento per raggelarmi. La sua...? Mi rifiutai di credere che l'avesse detto davvero, davanti a decine di persone che assistettero alla scena. Il mio cuore era ora un focolaio di fiamme indomabili, che bruciava per lui e la sua dichiarazione.
La durezza, perlomeno, aveva messo un freno alla molestia dello sconosciuto.
Isaac, però, non smise di sorprendermi. Mi rubò un altro respiro quando poggiò la mano sulla mia testa e mi accostò al suo petto, così che io potessi ammirare lo scorrere del paesaggio fuori dal finestrino. Il treno era risalito in superficie.
«Guarda fuori, tra pochi secondi ci sarà la prima sorpresa» mormorò, il mento sul mio capo. «Tre, due, uno...»
E il fiato mi si mozzò per l'ennesima volta. Davanti a noi, la Torre Eiffel stava mettendo in scena uno spettacolo di luci dorate lungo i tralicci di ferro. Una bellezza raddoppiata, se accostata alla sensazione di completezza che stavo provando in quel momento.
Accanto a lui, in quei giorni, ogni vuoto era stato colmato. Non esistevano più mancanze o incertezze, ma solo un senso di totalità e appagamento che, a casa mia, non avrei potuto trovare.
E so benissimo che è effimero, Isaac. So che sei un regalo temporaneo che la vita mi sottrarrà perché è una nemica avida e ingiusta, ma promettimi che ti ricorderai di me. Scolpiscimi nella tua memoria.
Non attese che io commentassi il paesaggio. Ben presto, con un cenno, mi fece capire che avremmo dovuto prepararci a scendere.
«La prossima fermata è la nostra» mi informò. «E se la torre ti è piaciuta qui, aspetta di vederla dai giardini del Trocadero» aggiunse, tornando a far intrecciare le nostre dita per avvicinarci alle porte del treno.
Queste si aprirono dopo un paio di minuti e, riversandoci sulla banchina della stazione insieme agli altri passeggeri, ci dirigemmo verso l'uscita. Bastò salire una gradinata e compiere qualche passo per rimanere mozzafiato.
Un ampio piazzale dai decori marmorei si stagliava davanti ai nostri occhi e affacciava sui giardini del Trocadero, accompagnando lo sguardo fino a Torre Eiffel che, trionfante, regnava sulla città con il manto dorato della sua illuminazione.
Ad allietare l'atmosfera, un gruppo di artisti di strada suonava un allegro motivetto jazz che animava i turisti presenti.
La serata non poteva procedere meglio così. Nella cornice della città dell'amore, Isaac era riuscito a privarmi delle preoccupazioni che mi stavano divorando le viscere e a trasformarle in un attimo pregno di incanto, benché caduco.
Mi ricongiunsi a lui, nella piena contemplazione di quel pensiero, e azzerai la distanza che ci separava. Con le nostre dita ancora intrecciate mi sentivo nel posto giusto, o forse ero io, a non sentirmi più sbagliata. Come se lui mi accettasse con le mie sfaccettature, con il bisogno di crollare contrastato dell'impossibilità di farlo.
«È meraviglioso» constatai con un filo di voce, interrotta dalla bellezza del panorama e dall'unicità del momento. Mi chiesi se mi stessi davvero riferendo alla città, o a lui. «Mi hai tolto le parole, e sai che ho sempre la risposta pronta» ridacchiai, abbassando il capo per l'incapacità di affrontare le sue iridi del colore del cielo terso.
La risposta fu preceduta dalla sua mano che, delicata, mi cinse il fianco per stringermi a sé; a causa della differenza d'altezza, la mia testa finì contro il suo petto, ad ascoltare il confortevole battito del suo cuore. «Non hai ancora visto la parte migliore» sussurrò, il mento appoggiato tra i miei capelli. Interruppe il nostro contatto solo per gettare un'occhiata alle lancette dell'orologio. «Tre, due, uno...»
La sua voce sfumò nel silenzio, quando una miriade di piccole luci a intermittenza illuminò la notte parigina, inseguendosi lungo ogni ramo metallico della torre. Tanti brillii che si rifletterono nelle mie sclere ora lucide, già vittime di una nostalgia precoce che mi assalì.
Isaac, prontamente, ravviò una ciocca di capelli dietro il mio orecchio e mi ingabbiò il viso tra le mani; i palmi caldi sfiorarono le mie guance, i pollici le carezzarono. Fu inevitabile far incontrare i nostri occhi, in un'unione che non aveva più il sapore di un "non possiamo", ma di un "correrei ogni rischio, per rimanere con te, lontano da riflettori e pettegolezzi".
Schiusi le labbra per provare a rompere il silenzio, ma lui mi precedette.
«Ascoltami, Daisy», mi implorò. «Domani dovremo tornare alla nostra recita, ed è l'ultima cosa che voglio» sussurrò, un intimo scambio di lemmi che accentuò il luccichio incontenibile. Lacrime che repressi. «Desidero che tu sappia che conoscerti davvero è stata la vittoria più soddisfacente di questo viaggio. Avrei dovuto conquistare ciò che ti appartiene per sottrartelo, ma ora so che sei tu, la mia conquista. Vali più di ogni centesimo di quel mondo di merda che mi tiene lontano da te» dichiarò tutto d'un fiato, dedicandomi ogni più piccolo quantitativo di ossigeno rimasto. La stessa aria che mi aveva rubato, lasciandomi annaspare per ottenerla da lui. Ogni vocabolo corrispondeva a un respiro. «E c'è un'ultima cosa che voglio dirti...»
Attesi con ansia che proseguisse, perché ero diventata schiava di quelle labbra che non mi avevano mai sfiorata. Ancora così vicine, ancora così vietate.
«Le vedi tutte quelle luci?» mormorò, indicandole con una mano che separò dal mio viso. «Meriti di brillare come questa città. Devi riuscirci, mia Daisy. Non accetterò che qualcuno ti spenga» sentenziò.
Avrei tanto voluto promettergli che sarebbe accaduto, ma non potevo prevederlo. L'autostima e la sicurezza in me stessa che ostentavo non erano altro che la maschera per proteggermi dagli attacchi esterni; nel profondo, sapevo che mi sarei piegata alla volontà altrui solo per soddisfare le persone a me care.
E sì, Isaac, forse brillerò. Lo farò perché non voglio essere una delusione anche per te, ma sarà luce riflessa, la mia.
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Nota dell'autrice
Ciao a tutti amici, come state? <3
Aggiornamento improvviso perché ieri sera sono miracolosamente riuscita a terminare questo capitolo. Oltre al rapporto burrascoso che sto avendo con questa storia, si aggiunge la sessione universitaria a cui sto dedicando la maggior parte del tempo.
Eppure, eccoci qui nella magia parigina! È stato bellissimo immergersi in questa atmosfera e spero che questa parentesi romantica di Desirée e Isaac possa avervi fatto sognare un po'. Soprattutto perché nel prossimo capitolo si ritorna a Montecarlo...
Ci aspettano dei ricongiungimenti famigliari, qualche litigio e qualche scena forte... Siete curiosi?
Vi aspetto!
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