31. All-in
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4 giugno 2023
Venezia, Italia
Un calore inaspettato accompagnò il mio risveglio, quel giorno, ma non apparteneva ai raggi che penetravano dalla finestra della stanza. Era un tepore stranamente famigliare, che serpeggiava lungo ogni centimetro della mia pelle lasciata in parte scoperta dal pigiama di seta.
Solo aprendo gli occhi a fatica, notai Isaac steso al mio fianco. I nostri corpi erano avvinghiati; la mia mano era a contatto con il suo torace nudo. Stargli accanto, tuttavia, non era bizzarro come credevo all'inizio: c'era del conforto nella sua presenza così vicina, quasi inseparabile dalla mia. Un'aria rassicurante che, forse, proveniva dall'ondata di confessioni del giorno precedente.
La storia di sua sorella era ancora fonte di brividi e attonimento, per me. Una vicenda così cruda e assurda da sembrare irreale, ma che sentivo sulla pelle come un vestito troppo stretto. Le urla, la possessione e il culmine della violenza: riflettendo capii che, tra le parole di colui che avrebbe dovuto essere il mio rivale in affari, era insito un avvertimento.
Prima che sia troppo tardi, aveva detto.
Avrei dovuto liberarmi del male causato da Valentin prima che anche lui avesse compiuto un gesto estremo. Eppure, nonostante la consapevolezza, ero incerta sul da farsi. La mia vita era stata plasmata per orbitare intorno a quella relazione, la cui sofferenza pareva solo una mera conseguenza.
La serenità provata lontana da casa mi aveva fatto capire che non era normale. La distanza dal Principato e la compagnia di Isaac erano due elementi fondamentali, e mi avevano aiutato a comprendere che non c'era niente di giusto in quel rapporto.
Ma come potevo distaccarmene se agli occhi altrui – e probabilmente anche ai miei – dipendevo da lui? Se il mio futuro era stato creato su misura per includerlo?
Avevo a disposizione ancora uno scarso paio di giorni per distrarmi e capire come agire. Nel frattempo, mi sarei goduta la presenza confortante di Isaac senza lasciarmi sopraffare dal pensiero soffocante di dover tornare a Monaco dove le persone – reali e virtuali, come quel profilo misterioso animato dal desiderio di affossarmi – avrebbero preteso persino l'impossibile.
Era strano, il modo in cui si riusciva ad assaporare il gusto dolce e fresco della libertà solo dopo aver abbandonato le proprie abitudini per la prima volta. Lontana da casa mia c'era la vita vera, quella che non avrei mai conosciuto se avessi continuato a relegarmi nel castello di obblighi e aspettative che mio padre in primis aveva edificato per me.
Durante la mia breve fuga, quella sensazione aveva solo le sembianze dell'uomo che dormiva al mio fianco. La percepivo nelle vene mentre, con delicatezza e attenzione a non svegliarlo, profilavo il reticolo di tatuaggi che gli ornava il petto con il polpastrello. Dai dorsi delle mani, i disegni scuri risalivano fino alle spalle e si incontravano sui pettorali tonici; tanti simboli che si confondevano l'uno con l'altro. Al centro, spiccava il ritratto di due occhi tondi e dalle iridi chiare, identici a quelli di sua figlia. Sulla clavicola, invece, aveva fatto incidere una G rossa in corsivo, nel ricordo della ragazza che aveva amato e di cui mi aveva raccontato.
Nel silenzio, riuscivo quasi a udire il battito rilassato del suo cuore e i suoi respiri lenti, che mi cullavano. Aveva i capelli spettinati e i lineamenti distesi, baciati da sole che, sul suo viso, creava giochi mozzafiato di luci e ombre.
Interrompere la nostra vicinanza una volta tornati alle nostre vite di lavoro e doveri avrebbe lasciato una scia di nostalgia, ma avrei dovuto imparare a conviverci.
Che ne sarà della spensieratezza che provo con te, Isaac?
«È inutile che provi a contarli o guardarli tutti. Sono troppi». La risata di Isaac, impastata dal sonno, mi ridestò dai pensieri. Solo dopo capii che si stava riferendo ai tatuaggi, che il mio dito seguiva con fedeltà.
«Non avevo intenzione di contarli» replicai con un sorriso divertito. «Ma ora mi hai incuriosita. Quanti sono?»
«È l'unione di tanti tatuaggi piccoli o medi, in realtà» spiegò. «Sono all'incirca un centinaio, tutti disegnati da me. Il tatuatore si è solo occupato di riprodurli».
La sua affermazione attirò ancora di più la mia attenzione, che si focalizzò sui singoli tatuaggi. Ogni disegno era realizzato con minuziosità, persino nei più piccoli particolari. Era come un museo indelebile sulla pelle, enigmatico perché ogni opera d'arte nascondeva un significato a me ignoto.
«Hai dormito bene?» mi domandò, poi, rompendo il silenzio. La voce bassa e roca mi accarezzò i timpani, e socchiusi le palpebre per godermela.
Annuii, il capo sfregò contro il suo petto. «Una delle notti migliori» aggiunsi. «Tu come stai?» mi interessai, in seguito, rammentando le tribolazioni della sera precedente.
«Anche se è sempre sconvolgente ricordare quelle cose, va meglio» replicò. «Ma so che, non appena saremo a Parigi, riuscirò a distrarmi. È la città di mia madre e la sento come se fosse un po' mia» ammise.
Provai un certo sollievo nel ricordare che quel giorno saremmo partiti per la capitale francese. Avendo superato di rado i confini del Principato, l'idea di mettere piede in una città così viva, dinamica e romantica mi allettava. Non sapevo quanto sarei riuscita a vedere di quel gioiello, ma sperai il più possibile, nonostante l'evento di beneficenza.
Voltandomi sul fianco, appoggiai anche l'altro braccio sul petto di Isaac e drizzai il capo per guardarlo. Mi sorrise, pur cercando di nasconderlo. Quella tra noi era una situazione talmente ambigua da non essere definibile, ma non aveva importanza: era un bagliore di felicità illusoria che presto si sarebbe affievolito.
«Non mi hai spiegato cosa faremo a Parigi» proferii, mentre un suo dito si avventurava tra i miei capelli e giocò distrattamente con una ciocca.
«L'evento consiste in una donazione di beni di prima necessità alle famiglie delle banlieue. Sono luoghi davvero degradati in cui le condizioni economiche sono pessime» spiegò, e un luccichio gli velò le sclere cristalline. «Mia madre ci ha vissuto e me l'ha raccontato. Non oso immaginare» aggiunse. Sbatté le palpebre per arginare l'eccesso di vulnerabilità, quindi mi portò la ciocca di capelli dietro l'orecchio per guardarmi in viso. «Poi, se vorrai, potremmo–»
La proposta che stava avanzando fu interrotta dalla vibrazione di un cellulare e io lanciai uno sguardo al comodino accanto al letto. Il mio telefono stava squillando e mi sporsi per rispondere; sullo schermo, lampeggiava il contatto di mio padre.
«È mio padre» avvisai Isaac, abbandonando il letto sfatto. Lui annuì in silenzio e io mi alzai in piedi, iniziando a passeggiare sulla stanza e portandomi il dispositivo all'orecchio dopo aver accettato la telefonata. «Papà» esordii.
«Sono io» rispose perentorio Valentin, al posto di mio padre. Il mio corpo si raggelò sul posto e cercai una distrazione puntando lo sguardo oltre la finestra, sulle acque calme di Canal Grande.
«Amore» lo salutai, ostentando un finto tono gioviale nonostante la voce tremula. Percepivo lo sguardo insistente di Isaac che mi perforava la schiena, ma non mi voltai per intercettarlo. «Come stai?» gli domandai, proferendo il primo convenevole che mi venne in mente.
«Come sto?!» mi fece il verso, iracondo. «Ti avrò chiamato almeno dieci volte, ieri sera, e mi chiedi come sto? Voglio sapere dove cazzo eri e cosa stavi facendo, Desirée» ordinò.
La sua furia generò un conato di vomito che repressi, la bile che inacidì l'esofago. Non posso averne paura se non è qui, mi ripetei. Armata di quella convinzione, deglutii e risposi con serenità per non allarmare Isaac.
«Ero a una conferenza sul marketing per grandi aziende, Val» lo rassicurai, pur mentendo. «Sto facendo del mio meglio per rappresentare la Société Aubert e sono stata impegnata fino a tarda sera».
Adottai le bugie come meccanismo di difesa. Valentin era certo che fossi partita per conto dell'azienda e non avrebbe dovuto scoprire della presenza di Isaac, o sarebbero nati altri problemi che non avrei avuto la forza di risolvere.
Dall'altro lato della cornetta, il mio fidanzato tentò di calmare i respiri e moderare i toni. Riprese la parola dopo alcuni minuti di silenzio riflessivo.
«Va bene» convenne, benché tentennante. «Quando torni?» domandò, poi.
Non si interessò delle mie attività fittizie, né del futuro dell'azienda che lui avrebbe dovuto gestire con me. Al contrario, si premurò solo di sapere quando sarei tornata nel nostro territorio e sotto il suo controllo soffocante.
«Mercoledì» lo informai. Un giorno che, speravo, sarebbe arrivato il più tardi possibile.
«Bene» asserì soltanto. Prima di proseguire, si schiarì la voce. «Dovremmo organizzare qualcosa per annunciare la data del matrimonio, ne stavo parlando con tuo padre fino a poco fa. Non appena sarai qui, ne discuteremo insieme».
La sua affermazione mi congelò sul posto una seconda volta, ma il freddo siderale di quella ventata serpeggiò in tutte le ossa fino a paralizzarmi. Se non avessi stretto il cellulare tra le dita, probabilmente, sarebbe caduto a terra.
La data del matrimonio. Dopo la proposta che papà aveva forzato solo per la smania di vederci insieme, non mi aspettavo il supplizio di dover scegliere e annunciare la data delle nozze. Un impeto di rabbia mi investì, ma strinsi un pugno lungo il fianco e non lo palesai.
«Okay» risposi, il tono monocorde. Mi ricordai, poi, che la chiamata era arrivata dal contatto di mio padre. Nonostante la sua freddezza e le sue alte aspettative, sentivo la sua mancanza e decisi di approfittarne: «Papà è con te?»
«L'ho accompagnato in ospedale» rispose con naturalezza.
Io, però, mi paralizzai per l'ennesima volta a quella dichiarazione. Non trovavo una spiegazione plausibile a quanto detto e, spaventata, non indugiai.
«In ospedale? Perché?» indagai, nervosa.
Valentin tentennò, nonostante il vano tentativo di non dimostrarlo. Nell'incertezza, si affrettò a replicare: «Aveva una visita di controllo, niente di importante» glissò.
Assottigliai le labbra, poco convinta. Mio padre era solito ricevere le visite mediche di routine direttamente a casa dal nostro medico; da quando io avevo memoria, di rado lui aveva avuto la necessità di recarsi in ospedale.
«Va bene» mormorai soltanto, per non ancorarmi a quel pensiero. La mia testa era già stata devastata da un vortice, quella mattina, e non avevo bisogno di altre notizie spiacevoli. «Digli di chiamarmi, quando esce» mi premurai.
Il mio fidanzato rispose con un mero verso gutturale, quindi iniziò a liquidare la conversazione. «Ci sentiamo dopo, allora» proferì.
«A dopo» ribattei.
Ero pronta ad attaccare, quando lui interruppe la mia intenzione. «Desi» mi richiamò. In attesa che proseguisse, trascorsero alcuni secondi di silenzio. «Ti amo» aggiunse, poi.
In quel momento, se i brividi avessero potuto rivestire persino le ossa, ero sicura che l'avrebbero fatto. Erano settimane che non me lo diceva e, nel mezzo tra il suo atteggiamento arrogante e la luce che Isaac aveva gettato sulla mia relazione, non ero più sicura di credergli.
Deglutii un nodo di incertezza e mi sforzai di ricambiare: «Anch'io» farfugliai, la voce spezzata. «A dopo». Riattaccai, dopo averlo congedato in fretta, con un gesto istintivo della mano tremante.
Quando finalmente abbassai il cellulare e distesi il braccio lungo il fianco, mi voltai verso Isaac. Si era messo a sedere, il petto ancora nudo e i capelli spettinati, e mi guardava in attesa di una spiegazione che ero incapace di dargli. Sentivo la bocca cucita, le parole impossibili da pronunciare.
«Ti stancherai mai di mentire così spudoratamente?» mi domandò. La sua serietà ebbe il potere di inchiodarmi al pavimento, impedendomi di compiere un solo passo.
Ero sicura che si stesse riferendo alla verità di cui Valentin era a conoscenza, e non di quella effettiva. Se solo quest'ultimo avesse saputo che ero con Isaac, avrebbe rivoltato l'intero Paese pur di riportarmi a casa e allontanarmi da lui, e non l'avrebbe fatto con fini benevoli.
Rassegnata, sospirai. «Non può farmi nulla, se è convinto che io sia da sola» replicai con freddezza. Per distrarmi dal suo sguardo penetrante, finsi di sistemare alcuni dei miei vestiti per riporli in una delle valigie, in vista della partenza per Parigi. «Lui pensa che il problema sia tu».
Con la coda dell'occhio, lo vidi mentre si passava le dita tra i capelli scuri per sistemarli. «Ti stai chiudendo in un ciclo senza fine, Daisy» dichiarò, l'autorevolezza smorzata da una punta di premura. «Cerca di ragionare: come posso essere io, il problema, quando sto solo cercando di aiutarti? E come può non esserlo lui, se ti manipola a tal punto?» insistette.
Era un quesito troppo difficile a cui rispondere, e forse lo era perché aveva ragione. Il vero ostacolo era Valentin, non Isaac. Eppure, non ero ancora pronta a superarlo.
Vedendomi in difficoltà, i lineamenti dell'inglese si distesero e, per mia fortuna, si dimostrò abbastanza comprensivo da troncare la conversazione. «Iniziamo a prepararci» sentenziò, alzandosi dal letto. «Il treno per Parigi parte alle undici».
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Il binario a cui sostava l'Orient Express, in attesa dei passeggeri, si discostava completamente dagli altri della stazione di Venezia Santa Lucia. Lo staff elegante ci accolse con cordialità dopo il check-in e l'aperitivo di benvenuto e, una volta presi i nostri bagagli per depositarli nella Paris Grand Suite che ci era stata riservata – un'informazione che venni a sapere da Isaac –, salimmo sul convoglio per esplorarlo.
L'Orient Express era tutto, fuorché un comune treno. Non solo si distingueva per la sua lunga percorrenza, ma la bellezza esclusiva di cui era portatore era l'assoluta protagonista. Le carrozze brillavano, tinte d'un intenso blu reale, e gli interni preservavano la ruggente raffinatezza degli anni Venti, nonché il periodo in cui quella tratta ferroviaria era stara concepita. Dal contrasto dei particolari in mogano ai motivi damascati blu e oro degli interni, tutto si abbinava agli abiti formali che eravamo stati costretti a indossare per uniformarci al dress code.
Io, nel mio tailleur verde smeraldo in perfetta armonia con la carnagione olivastra, ero avvinghiata al braccio di Isaac fasciato dal completo nero gessato. Il perfetto ritratto di due futuri imprenditori di successo, impegnati in una guerra per guadagnarci i rispettivi beni.
«E tu hai osato lamentarti di un viaggio in treno» si beffeggiò di me l'uomo, procedendo con andatura lenta attraverso un vagone arredato con eleganti divani in velluto. La moquette dal motivo floreale rendeva felpati i nostri passi.
«Questo treno è più che esclusivo, Isaac. Prima che tu ne specificassi il nome, ammetto di essermi spaventata» confessai. «Una donna del mio calibro non si sarebbe adattata a un viaggio di seconda classe».
Ricambiammo il saluto cortese di un cameriere che sostava in concomitanza del passaggio tra una carrozza e l'altra. Nella sua uniforme azzurra con ricami dorati, sembrava uscito da un'altra epoca per prelevarci dal presente e accoglierci in un ricco passato.
Mentre approcciavamo la carrozza ristorante, il cui colore dominante divenne il verde delle poltrone accostato al bianco delle tovaglie linde, l'inglese si sporse in avanti per ridurre il tono della voce a un sussurro. Non appena proferì parola, il fiato caldo mi accarezzò la pelle.
«Sembrerà poco modesto da parte mia» premise, «ma non ti darei mai meno di quello che meriti».
Dalla sua affermazione nacque un brivido che serpeggiò lungo tutto il mio corpo. Gli risposi limitandomi a un sorriso compiaciuto, che lui notò non appena si distaccò per riassumere una postura eretta.
«Mi lusinghi, Woodward» aggiunsi alla mia tacita replica. «Odierai sentirtelo dire, ma il Principato ti ha reso un uomo di classe più di quanto tu lo fossi già» mi complimentai.
Dopo quella decina di minuti passata a perlustrare il convoglio su cui avremmo trascorso poco più di ventiquattro ore, raggiungemmo finalmente la zona notte. Ogni carrozza che seguì era adibita a camera da letto, dalla suite più prestigiosa a quella più umile, e con lo sguardo cercammo la nostra.
La trovammo grazie al suo nome inciso su una targhetta dorata. Isaac ne aprì la porta con la chiave che gli era stata data dallo staff, rivelando subito gli interni della stanza.
L'elegante cupezza del mogano era, ancora una volta, il protagonista: tra intarsi eleganti e decorazioni tirate a lucido, rivestiva tutte le pareti e circondava le grandi finestre da cui penetravano i caldi raggi del sole. Il treno era ormai in partenza e il paesaggio aveva iniziato a scorrere oltre le vetrate.
Il velluto continuava a impreziosire l'ambiente, affiancato dalla nota color crema del divano, delle poltrone e del letto matrimoniale che si stagliava contro la parete di fondo. Sul tavolino in legno, faceva capolino una glacette con una bottiglia di champagne immersa nei cubetti di ghiaccio.
Ero abituata agli ambienti di classe, in cui ogni superficie era più riflettente di uno specchio e gli angoli urlavano la parola "lusso", ma l'Orient Express mi lasciò esterrefatta. Sembrava cristallizzato nel tempo, a sottolineare il fascino intramontabile dell'élite di cui facevo parte.
«Questo viaggio si sta trasformando in una gara a trovare la stanza migliore» dichiarai, lasciandomi cadere sui cuscini morbidi del divano. Gettando un'occhiata alla mia sinistra, notai i bagagli sistemati accanto alla porta d'accesso al bagno della suite. «Questa camera è incredibile» aggiunsi.
Isaac, ora impegnato ad analizzare l'etichetta della bottiglia di champagne, la rimise nella glacette e mi rivolse uno sguardo.
«Ho buon gusto. Sei stata tu ad ammetterlo» mi ricordò.
Arricciai le labbra in una finta espressione contrariata. Mi divertivo a canzonarlo con sarcasmo, nonostante i miei pensieri eccessivamente sinceri. «A volte», feci spallucce.
Dipinse un ghigno arguto sul viso e mi guardò, senza avvicinarsi di un millimetro.
Era difficile smarrirsi nelle sue iridi celesti senza perdere il controllo. Era un colore che si alternava tra la freddezza del ghiaccio e la profondità degli abissi e, quando ci nuotavo dentro, del mio raziocinio non avanzavano nemmeno le briciole.
«Sono sicuro di averlo. Perlomeno, ne sono certo quando qualcosa mi causa abbastanza piacere visivo da farmi dimenticare di tutto il resto» ammiccò.
Mi aveva appena lanciato una sfida, con quella dichiarazione, e io la accettai. Amavo giocare e rischiare di perdere la testa per lui, per poi compiere l'arduo tentativo di mantenere un contegno. Proprio con quell'intento, incrociai le braccia sotto i seni per metterli in evidenza.
Il mio corpo era il suo punto debole, ma era il legame che provava con il mio carattere a metterlo al tappeto.
«Gradirei che tu mi facessi un esempio» lo esortai.
Al contrario, lui tacque. Si umettò le labbra con la lingua, le pupille incollate alle mie curve, e rialzò lo sguardo solo con il pretesto di distrarsi. Si lasciò cadere contro il tavolino, dritto dinanzi a me.
Il sorrisetto che ostentava, però, non lasciava trapelare l'intenzione di replicare. Continuò a perforarmi con lo sguardo fino a prosciugare la mia ragione e, quando riprese la parola, lo fece in un mormorio roco.
«La giornata è ancora lunga, Daisy» dichiarò. «Ne riparleremo. Ora preparati per la serata» mi esortò, in seguito. «Questo viaggio non ha ancora finito di sorprenderti».
Il suo invito, tuttavia, non fu abbastanza intenso da celare l'impeto famelico che gli campeggiava sul volto.
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Mi bastò un solo passo per uscire dal piccolo bagno della cabina, una volta pronta per la cena. I tacchi neri affondarono nella moquette senza produrre alcun rumore, e il mio arrivo silenzioso sorprese Isaac, intento a sistemarsi la cravatta davanti allo specchio della zona letto.
Diventai subito l'unica attrazione su cui si concentrò la sua attenzione. Calamitato dalla mia presenza, nonostante l'abito e il trucco semplici, sembrò dimenticarsi dell'esclusività del convoglio di cui eravamo passeggeri. Tutto, di lui, emanava l'attrazione che provava per me: dalle labbra che si schiusero, emettendo un flebile schiocco, alle mani che scesero lente, distendendosi lungo i fianchi.
Il sorriso che gli dedicai non fu un ghigno soddisfatto, né un modo di ammiccare. Era, piuttosto, un'unione dell'ardente desiderio di essere prigioniera del suo sguardo e di sparire da quello altrui.
Solo tu ti stai rivelando degno di nutrirti di un tal piacere. Ti bastano i tuoi occhi freddi come il ghiaccio per spogliarmi di ogni arcano, che trasformi da paura in coraggio con le carezze e le parole.
Per diminuire la distanza che ci separava, compì un passo in avanti e dimezzò quei centimetri di vuoto. Si focalizzò prima sul mio viso e sull'espressione lusingata dai suoi taciti complimenti, poi sulle curve evidenziate dall'abito drappeggiato di seta nera.
«Daisy» mormorò, roco, afferrandomi una mano. Il solo sfioramento dei suoi polpastrelli fu la causa di un brivido. Mi fece compiere una mezza giravolta per ammirarmi, quindi riabbassò il braccio per cingermi la vita. Le nostre dita rimasero intrecciate, la mia schiena contro il suo petto e il fiato caldo come una coccola sul collo; le nostre immagini ora riflesse in un altro specchio della suite. «Indossi la semplicità meglio di qualsiasi capo appariscente. Sembri uscita da un sogno» soffiò sulla mia pelle. Inclinai leggermente il capo per esporre la mia spalla scoperta, in attesa di un bacio lascivo che lui mi concesse. «E incarni ogni mio inconfessabile desiderio...» aggiunse, in un sussurro all'orecchio.
Non c'era particolare di quella situazione che non mi facesse capire che, ormai, avevamo superato la linea di confine che divideva la sfida dalla reale attrazione. Il gioco era terminato, e con esso ogni mia capacità di ragionare. Eravamo sempre più pericolosamente vicini, sempre più ineluttabilmente legati dalla necessità carnale e pulsante di viverci, possederci e unirci.
Una battaglia che non mi pentivo di stare perdendo, perché la sconfitta avrebbe avuto un sapore più buono della vittoria. Avrei scaturito rabbia e delusione, ma sarebbero state soffocate dalla consapevolezza di aver agito in nome di un fascino sincero che non mi teneva in gabbia. Una soddisfazione completa, ma effimera.
Mi concederei a te, Isaac, perché sapresti possedermi pur concedendomi tutta la libertà che non ho mai avuto.
A malincuore, mi separai da lui e mi voltai affinché i nostri sguardi si incrociassero. Sarebbe stato arduo essere al centro della sua attenzione durante l'intera serata senza cedere, ma dovevo farlo. Eravamo già andati troppo oltre, troppo per ogni limite e obbligo morale.
Con un gesto flemmatico, mi divincolai persino dal suo contatto, che tornai a instaurare per sistemargli il nodo leggermente allentato della cravatta. Un sorriso divertito si allargò sul mio volto: non era la prima volta che sbagliava ad allacciarla.
«Un po' di contegno, Woodward» lo redarguii. «Stiamo per cenare in un luogo pubblico, tieni a bada gli impulsi».
Si inumidì il labbro inferiore con la lingua, le pupille fisse sulle mie azioni. «Non è tanto una sfida mantenerlo in pubblico, quanto nei momenti in cui siamo soli, chérie» continuò ad apostrofarmi.
Dovetti reclinare il capo per guardarlo, vista la differenza delle nostre stature, e nel farlo abbozzai un ghigno. «Devi riuscirci. Sei determinato, non ho dubbi sul fatto che ce la farai».
Senza attendere una sua replica, gli piantai un palmo sul petto e lo spinsi indietro per allontanarmi da lui. La mancanza della sua presenza imponente si fece sentire, ma la colmai con il pensiero che quel contegno non sarebbe stato mantenuto da nessuno dei due. Avevamo già ceduto nei giorni precedenti e sarebbe riaccaduto.
Cercando una distrazione, lui si spruzzò una copiosa dose di una fragranza forte e pungente che inebriò l'intera stanza. Controllò un'ultima volta il suo riflesso nello specchio, quindi si voltò per assicurarsi che anch'io fossi pronta.
«Andiamo?» domandò, avvicinandosi con finti passi disinvolti.
Annuii con un cenno e afferrai la mia pochette abbinata all'abito. Afferrando la risposta, Isaac mi affiancò e piegò il gomito per offrirmi un sostegno, oltre ad avanzare la silenziosa proposta di stargli accanto. Accettai con un sorriso, e ben presto ci avviammo verso la carrozza ristorante.
Quando vi arrivammo, una squadra di commis eleganti ci accolse nell'ambiente suggestivo illuminato da abat-jour dalla luce soffusa che fungevano da centrotavola. Il loro aspetto retrò si abbinava agli arredi datati e raffinati, oltre a sposarsi in maniera perfetta con il lussuoso velluto verde delle poltrone. In sottofondo, il piacevole chiacchiericcio degli altri passeggeri.
Un cameriere ci invitò a prendere posto a un tavolo per due. Ci accomodammo; sulla candida tovaglia bianca, si riflettevano i colori caldi del tramonto estivo, su cui si stagliava una serie di montagne. Dedussi che avevamo già varcato il confine con l'Austria, dopo ore di viaggio.
La cena venne servita con professionalità e cortesia pochi minuti dopo. L'Orient Express prevedeva un menù fisso con diverse alternative e, per la prima volta dopo mesi, non mi sentii giudicata dalla voce onnipresente di Céline, né soffocata dalle aspettative altrui. Forse era la compagnia confortante di Isaac, forse un vero aumento di sicurezza in me stessa... Qualsiasi cosa fosse, mi spinse a godermi un pasto completo nell'ora che seguì, tra piatti deliziosi di carne e pesce, ribellandomi alla dieta vegetariana che mi era stata imposta dalla mia agente.
Lontana dai confini del Principato, che ne rappresentavano i rigidi limiti, ero libera. Stavo riprendendo in mano la mia vita, consapevole che lei medesima mi avrebbe terrorizzato quando sarei tornata a casa, ma non mi lasciai sopraffarre da quel pensiero. I problemi non potevano raggiungermi, se io ero distante da loro.
Arrivò presto il momento del dessert, che io e Isaac condividemmo. Il menù del convoglio prestigioso proponeva la brioche perdue, un tipico dolce francese, e una selezione di pasticcini serviti su un elegante vassoio dorato.
L'inglese, di fronte a me, afferrò un tortino alle fragole e se lo portò alle labbra, gustandone la dolcezza. Tra le sue dita ne rimane metà, che appoggiò su un piattino.
«Sono contento, sai?» dichiarò all'improvviso. Il suo sguardo era perso all'esterno, nonostante il paesaggio non fosse più visibile a causa del buio della notte ormai calata. Sfregò i palmi delle mani l'uno contro l'altro, poi riprese la parola, riflessivo: «È la prima volta da quando ci siamo conosciuti che ti vedo consumare un pasto completo. Inizio a pensare di essere stato utile, in qualche modo».
La mia smania di indipendenza non gli avrebbe mai concesso un "sì" come risposta, ma aveva ragione. Erano stati i suoi lemmi ad aiutarmi quando io non potevo essere un saldo appiglio per me stessa, ma rimaneva comunque il mio rivale principale. Ammetterlo sarebbe equivalso all'ennesima sconfitta.
Di conseguenza, per celare i miei veri pensieri, mi affrettai a inventarmi una replica: «Sembrava tutto buonissimo, non potevo perdermelo» asserii.
Lui, d'altro canto, si servì di uno sguardo per ribattere. Un brillio nelle iridi, un ghigno che allargava le labbra. Sapeva di non essere in torto, ma non insistette per dimostrarlo. Al contrario, indicò il vassoio di pasticcini. «Prendine uno» mi invogliò.
Colsi l'occasione per additare la metà del tortino che campeggiava nel suo piatto, alla base di una strategia per instaurare il contatto fisico che mi era mancato per tutta la durata della cena. «Voglio quello» affermai.
«Ce ne saranno almeno altri quattro uguali a questo, Daisy...»
«No» lo interruppi, tentandolo con un ghigno malizioso. «Voglio quello» ribadii.
Lui si arrese e lo afferrò tra le dita, ma non prima di essere scoppiato in una lieve risata. Scosse il capo, rassegnato e consapevole dei miei desideri. «Sei incredibile» sussurrò.
I nostri sguardi non si distolsero l'uno dall'altro quando avvicinò alle mie labbra la metà rimanente del pasticcino; l'unico viaggio che compivano le sue pupille era quello dai miei occhi alla mia bocca, che poco dopo addentò il tortino. Continuai a guardarlo, mentre la dolcezza si scioglieva sulla mia lingua. Un contatto visivo profondo, come quello instaurato qualche sera prima nella stanza d'hotel a Venezia.
Allontanò la mano dal mio viso solo quando finii di gustare il pasticcino, ma non scisse l'incrocio di sguardi. Lo fece dopo qualche secondo di silenzio e tensione, distraendosi con la scusa di pulirsi il dito dalla crema pasticcera con il fazzoletto di stoffa.
Avevo obliato il contegno di cui gli avevo parlato qualche ora prima. Io stessa ero incapace di mantenerlo, stanca di imporre una distanza tra noi. Lo volevo e, dalla sua espressione di incontenibile brama, sapevo che lui coltivava il medesimo desiderio.
Lui fu il primo a rispondere a quella conversazione tacita, alzandosi dalla poltrona. Un gesto che io imitai, seguendolo oltre la soglia del ristorante dopo aver ricambiato i saluti elargiti dai camerieri.
Era un silenzio permeato di cupidigia, il nostro. Ero conscia del fatto che gli stesse costando uno sforzo immenso per non prendermi e consumarmi lì, nel corridoio che ci conduceva alla suite, perché era lo stesso che stavo compiendo io. La battaglia si era trasformata in una gara a chi avrebbe resistito più a lungo, nonostante la consapevolezza di perdere non appena avremmo superato l'ingresso della stanza.
E fu esattamente ciò che accadde. Non feci in tempo a chiudere la porta alle mie spalle, che mi ritrovai con la schiena contro di essa. Erano state le mani di Isaac a esercitare una lieve spinta su di me, le stesse che ora erano inchiodate ai lati della mia testa mentre lui mi perforava con lo sguardo, il capo chino in avanti.
«Che Dio mi maledica» si vittimizzò con un ringhio sussurrato, che soffiò sulla mia pelle. Il suo fiato fu come un vento bollente che distrusse tutto il mio autocontrollo. Socchiusi le palpebre, le labbra si schiusero mentre lui si sfilò la giacca, in preda a un calore repentino. «Accetterei di finire all'inferno, se la punizione fosse questa».
Affondò il capo nell'incavo del mio collo dopo quella dichiarazione, ricoprendolo con una scia di baci umidi che mi mandò in visibilio. Le mie mani si serrarono attorno alle sue spalle, le strinsero per un rantolo di piacere che mi risalì la gola e si tramutò in un gemito, quindi lo avvicinarono a me; le sue, invece, si inerpicarono lungo il tessuto del vestito fino a privarmene. Come uno straccio, lo abbandonò sulla moquette della stanza.
Persino i suoi palmi bruciavano di desiderio e, ardenti, finirono sulla mia schiena. Interruppe, tuttavia, i baci che seminò fino ai miei seni, perché si accorse della lingerie nera che indossavo. La sua attenzione fu catturata dai piccoli diamanti sparsi tra i ricami del pizzo, che brillavano al manto di luce calda della suite.
«Mi stai ufficialmente rovinando, Daisy» confessò, il tono flebile e inframezzato dai lunghi respiri che gli gonfiavano il petto. «E non ho intenzione di tornare indietro».
Le mie mani scesero e, in preda all'irrefrenabile voglia di esplorarlo e sentirlo, finirono sul suo petto. Armeggiai con la sua cravatta, che avvolsi tra le dita. Un lieve strattone fu sufficiente per avvicinarlo a me, la vicinanza resa estrema dalle punte dei nasi che si sfioravano. Era alla mia mercé, ragione per cui, quando mi discostai dalla porta per indietreggiare verso il divano, lui mi seguì senza obiettare.
«Ci rimangono pochi giorni, Woodward» bisbigliai sulle sue labbra, gonfie per i baci con cui mi aveva marchiato.
Con la mano ancora a contatto con la mia schiena, mi accompagnò finché non mi distesi sui cuscini morbidi del divano e mi sovrastò, pur non ponendo alcuna distanza tra noi.
«Me li farò bastare per una vita intera» asserì.
Un'affermazione che fu l'inizio di una condanna, per me. I suoi polpastrelli tracciarono solchi indelebili sulla mia pelle fino a raggiungere i fianchi; rapido, mi liberò degli slip e li lasciò cadere sul pavimento. Lui, al contrario, era ancora troppo vestito, e lo spogliai dei pantaloni e dei boxer con la medesima frenesia. Mi struggevo all'idea di vederlo, toccarlo e trasformare la bramosia in qualcosa di tangibile.
Sussultai e inarcai la schiena, nel momento in cui la sua mano si avventò sul mio clitoride. Lo stuzzicò fino a farmi impazzire, il senno era ormai un ricordo lontano. Non lasciai che fosse l'unico a divertirsi, però: serrai le dita attorno al membro turgido, iniziando a ricambiare le sue attenzioni con un'intensità tale da causargli un lamento che gli scappò dalle labbra.
Bastarono pochi minuti, e la stanza del convoglio si trasformò in un insieme di gemiti di vicendevole piacere, con cui colmavo gli attimi di silenzio ogni volta che lui affondava tra le pieghe della mia intimità. Una sensazione di benessere che mi fece sciogliere sulle sue dita; anche lui, per il mio tocco, non riuscì a contenersi.
Nemmeno i nostri nomi sussurrati misero un punto alla tortura che stavo amando con ogni cellula del mio corpo. Isaac, prontamente, ancorò le mie gambe al suo bacino e mi sollevò, le mie braccia strette attorno al suo collo. Con pochi movimenti, si spostò dal divano al piccolo tavolo quadrato posto sotto la finestra. Mi adagiò sulla sua superficie, il cui traballio fece cadere a terra i due calici offerti dallo staff, che si disintegrarono con uno schianto attutito dalla moquette.
«Pardon» si scusò l'inglese, mentre sul viso ostentava un ghigno dilettato e una scintilla maliziosa gli impreziosiva le iridi.
Quel sorrisetto mi uccise in via definitiva, a tal punto che le mie mani, dal suo collo, passarono sul suo volto per tenerlo vicino al mio, mentre lui era impegnato a privarmi del reggiseno che ancora indossavo.
Benché lui non avesse ancora compiuto quel passo, io ne sentivo la necessità. Volevo baciarlo, sentire il sapore delle sue labbra morbide e carnose, raggiungere l'apice dell'estasi e del contatto che potevo instaurare con lui. Una mera relazione fisica che si sarebbe totalizzata, se solo lui non mi avesse fermato quando avvicinai la mia bocca alla sua.
«Ho in mente un altro gioco» dichiarò, slacciandosi la cravatta. Avvicinandosi ulteriormente a me, mi portò i polsi dietro alla schiena e li unì con un saldo nodo, impedendomi di continuare a toccarlo. «Posso prendermi il permesso di farti sentire come se fossi l'unica donna al mondo...?»
L'idea di essere comandata da lui e sottomessa alla sua imponenza non mi dispiaceva, nonostante io amassi avere il controllo su ogni situazione. Eppure, gli concessi di agire secondo ogni suo impulso e, in mancanza delle parole che mi aveva sottratto con il suo gesto, annuii con un cenno del capo.
Si tolse finalmente anche la camicia, dopo la mia tacita risposta, rivelando il petto tatuato e scolpito. Quindi si sporse verso il tavolino, poco oltre il mio corpo, e afferrò la bottiglia di champagne che sbucava dalla glacette.
«E allora brindo te, mia Daisy» proferì, senza schiodare le sue iridi glaciali dalle mie. «L'apoteosi del proibito e l'apice della mia cupidigia».
Fece saltare il tappo, che ignorammo quando cadde a terra. Con classe, quindi, sorresse la bottiglia dal fondo e decise di sorprendermi, perché iniziò a versare il liquido giallognolo sul mio corpo nudo. Sussultai per il freddo dovuto al ghiaccio in cui era stato immerso per ore, ma quel gelo fu presto rimpiazzato dal calore bollente dei baci con cui assaporò l'alcolico, dal mio collo ai miei seni, dallo stomaco all'inguine.
«Isaac, ti prego...» lo implorai, impaziente che compisse il passo successivo. Lo sognavo sopra di me e dentro di me, e non era solo per l'attrazione fisica. Tra noi bruciava una connessione che andava oltre ogni chimica concepibile.
«Mi stai persino supplicando» mi canzonò con lascivia, quando risalì per avvicinarmi al suo bacino.
La punta della sua intimità sfiorò la mia, e immediatamente mi sembrò di sfiorare i cancelli del Paradiso. Socchiusi le palpebre, lasciandomi avvolgere dall'eccitazione pulsante.
«Quanto mi vuoi, chérie?» continuò e mi spinse ulteriormente contro di lui, in attesa di una risposta per procedere. Il bisogno di lui era ormai incontenibile, e solo un lemma mi divideva dall'appagamento.
«Troppo» sussurrai. «Troppo, Isaac. Qui e ora».
Furono quelle le parole che, finalmente, lo indussero a compiere il primo affondo in me. Colmò ogni vuoto con una sola spinta, a cui seguì un gemito che non repressi, nonostante il rischio di essere uditi dagli altri passeggeri del convoglio.
Ogni sensazione di piacere e godimento provata in vita mia era imparagonabile e inarrivabile. Isaac era capace di andare oltre le aspettative e soddisfare tutti i miei desideri a ogni movimento compiuto. Incarnava il proibito e il pericolo di perdere tutto, ma rappresentava la prima partita giocata in cui sarei stata fiera di andare all-in.
Scommetterei ogni cosa pur di mandarla in fumo, se questa fosse l'alternativa.
Aumentò l'intensità spinta dopo spinta, dettando i ritmi di un amplesso sfrenato, frutto di settimane di fiamme indomabili e scintille onnipresenti. L'impossibilità di sfiorarlo era il modo perfetto per concentrarmi solo sulla nostra unione, per non sentire altre sensazioni che non fossero quella.
Le sue dita affondavano nella carne dei miei fianchi, la stretta dovuta alla fame che provava per me, e il mio bacino si scontrava con il suo con rapidità. Era duro, rozzo, ma al contempo attento alla ragione di ogni mio gemito e alle mie sensazioni.
Il mio corpo stava raggiungendo la massima sopportazione. Era la più piacevole delle torture, che si palesò nei muscoli irrigiditi delle cosce e nei tremori delle gambe, nella schiena che inarcai e nel sussurro roco che pronunciammo all'unisono, quando sfiorammo l'apice del godimento.
Isaac diminuì quindi la forza delle spinte, ma il suo membro continuò a pulsare in me mentre lui, abbandonato al piacere, mi coccolò con altri baci caldi che salirono dallo stomaco alle clavicole. Un gesto carezzevole che mi rivestì di pelle d'oca, lasciandomi incerta sulla vera ragione di quei brividi.
Era stato il rapporto, o una sensazione ignota che lo trascendeva?
Ma non ebbi il tempo di interrogarmi su quella questione, perché Isaac la sovrastò con la sua voce roca, intervallata dai profondi respiri.
«Sei assurda» bisbigliò, tra un bacio e l'altro. Le sue labbra lasciarono invisibili marchi su di me, che avrei ricordato per un tempo infinito. Si avvalse delle ultime forze rimaste per slegarmi i polsi, così che io potessi avvolgerlo con le braccia e tenerlo con me. «E mi fa male il cuore, per questo» aggiunse, con una nota malinconica.
«Perché...?» domandai, ancora annebbiata dall'accaduto.
«Perché passerei giorni a venerarti e manderei tutto all'aria, per te» confessò. «Ma so che non potrò mai farlo».
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Nota dell'autrice
Buongiorno a tutti amici, come state? <3
Eccoci qui nel trentunesimo capitolo di AD! Come sempre, grazie per essere passati.
Ebbene sì, oggi ci ritroviamo a bordo di uno dei treni più esclusivi – se non il più esclusivo – al mondo, l'Orient Express. È da quando ho scoperto dell'esistenza di questa meraviglia che volevo includerla in una storia, e quale occasione migliore di farlo con Isaac e Desirée per trasportarli da Venezia a Parigi? Preparatevi, ci sarà del romanticismo ;)
Nel frattempo, in questo capitolo ne abbiamo viste di ogni: dal "litigio" tra Valentin e Desirée al piccolo dettaglio sulla salute di suo padre (approfondiremo in seguito, non appena si farà ritorno a Monaco), fino alla cena dei nostri piccioncini. E sì... abbiamo la prima, vera scena 🌶 di questa storia. Ho sempre degli enormi dubbi quando scrivo di scene del genere, quindi vi invito a dirmi cosa ne pensate. E vi anticipo che questo non è nulla in confronto alla prossima storia...
Detto ciò, non mi resta che chiedervi il vostro parere sull'intero capitolo. Secondo voi, come si evolveranno le dinamiche tra Desirée e Isaac? Ricordatevi che ora è tutto troppo rose e fiori, e a me non piace mai... ;)
Ci vediamo al prossimo aggiornamento!
IG & TikTok: zaystories_
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Note informative
Venice Simplon Orient Express, il treno che opera la tratta Venezia-Parigi
Paris Grand Suite
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