30. Rouge 🎗️

Premessa:
In questo capitolo verranno trattati gli argomenti delicati quali violenza di genere e femminicidio.
In occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, 25 novembre, diffondere consapevolezza a riguardo è un dovere collettivo, affinché questi eventi non siano più così frequenti.
A tal proposito, oggi ci tengo a ricordarvi il Numero Antiviolenza e Antistalking promosso dal Dipartimento per le Pari Opportunità, gratuito e attivo 24h su 24, ovvero il 1522.
Vi invito, inoltre, a prendervi due minuti per leggere anche la nota informativa alla fine del capitolo.
Vi ringrazio, buona lettura.

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IT: rosso

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2 giugno 2017
Hackney, Londra, Regno Unito

Per quanto monotona, la quotidianità a Hackney non era mai noiosa. Vivevo con mia madre, mio fratello e mia sorella Erin in un piccolo trilocale del quartiere fatiscente e faticavamo ad andare avanti. Aiutavo mia mamma a gestire le spese con un lavoretto in un negozio di alimentari nelle vicinanze, ma la paga era scarsa.

E, come se la situazione non fosse stata già abbastanza precaria, mio padre era concentrato sulla sua azienda e dalle sue tasche non usciva nemmeno un centesimo per il nostro mantenimento.

Eravamo quasi sul lastrico, ma felici. L'affetto che mia madre ci riservava era raro, nella sua forma più pura.

Quella sera, avevo deciso di tenerle compagnia e aiutarla con alcune faccende domestiche. Mio fratello aveva accettato l'invito di mio padre a una delle sue cene lussuose – era sempre stato il figlio prediletto – e mia sorella avrebbe trascorso la serata in un pub poco distante con un gruppo di amici.

Era un momento tranquillo: la televisione creava un piacevole sottofondo e un delizioso profumo di cibo proveniva dalla cucina mentre, nella nostra camera da letto, mi accingevo a piegare alcuni vestiti già stirati. Mi distrassi solo quando mia madre, fasciata nel grembiule fiorato che indossava quando cucinava, comparve sulla soglia della stanza; sorridente, stringeva un cucchiaio di legno tra le dita e lo agitava a mezz'aria.

«Sono offesa dal fatto che tuo fratello abbia preferito Damian a me» dichiarò, scherzosa, senza provare realmente rabbia nel nominare il suo ex marito. «Secondo te, una cena stellata può vincere sulle mie uova alla scozzese?» mi interrogò.

Ridacchiai per il suo sarcasmo onnipresente. Nonostante la situazione instabile, aveva l'incredibile forza di non cedere e mostrarsi sempre gioviale. «Niente supera la tua cucina, mamma» la assicurai, impilando alcuni maglioncini di mia sorella per riporli nel suo cassetto. «Parola di figlio».

L'espressione allegra lasciò il posto a un sorriso mesto, il volto segnato dalle rughe dell'età e della fatica. «Vorrei che ti riposassi, ogni tanto. Posso pensarci io, alla casa. Non sei costretto» dichiarò.

Ricordarmelo ogni giorno era una sua abitudine. Odiava che io tornassi dal lavoro e mi occupassi anche delle faccende domestiche per alleggerirne il carico, ma era il minimo che potevo fare per ripagarla di ogni sforzo.

Chiusi il cassetto e mi voltai verso di lei, quindi compii una manciata di passi per raggiungerla sulla soglia. «Smettila di preoccuparti per me» la invitai. «Non sono stanco né infastidito da questa cosa. Mi piace darti una mano» asserii.

Non rispose, incerta sul ribadire la sua opinione com'era solita fare, e approfittai del silenzio per colmare la distanza che ci separava con un abbraccio. Era molto più bassa di me, che avevo ereditato l'alta statura da mio padre; le piantai il mento sul capo e le accarezzai la schiena per confortarla.

«Meriti di meglio, mamma» le sussurrai. «Spero di riuscire a dartelo» conclusi con un sospiro.

Lei si divincolò dalla stretta per guardarmi negli occhi. «Non mi devi niente, crétin» mi apostrofò nella sua lingua madre prima di voltarsi. Decisa, marciò verso il piccolo angolo cucina del salotto, adibito in parte a sala pranzo. «Vieni a cenare?»

Mi lasciai invitare dal profumo della cena e la raggiunsi, accomodandomi al tavolo apparecchiato per due. La televisione continuava a tenerci compagnia, insieme al rumore del piatto quando mia madre me lo adagiò dinanzi; si servì e, a sua volta, si sedette.

«Con chi è uscita tua sorella?» mi domandò, raccogliendo una parte d'uovo con la forchetta e portandoselo alla bocca. «Me l'aveva accennato, ma dovevo correre al lavoro e mi è sfuggito».

«È andata all'Old Ship con alcuni amici» le rammentai e controllai distrattamente lo schermo del cellulare. «Le avevo chiesto di mandarmi un messaggio, ma si sarà dimenticata» ipotizzai.

«L'importante» cominciò, tra un boccone e l'altro, con l'adorabile accento francese che non aveva perso durante gli anni trascorsi in Inghilterra, «è che non sia con Graham. Non mi fido per niente di quel ragazzo» affermò, lo sguardo puntato alla televisione.

Graham era il fidanzato di Erin, ma non era mai stato apprezzato da me e mia madre. Nelle poche occasioni che avevamo avuto di conoscerlo, si era rivelato un arrogante teppista di quartiere e avevo chiesto più volte a mia sorella di stargli alla larga, ma erano stati tentativi vani: lo amava, si sentiva protetta dai nove anni che li separavano e giurava che il suo atteggiamento, con lei, fosse diverso.

Con un gesto rassicurante, accarezzai il dorso della mano di mia madre e attirai la sua attenzione. Mi guardò in attesa di una mia considerazione che non si fece attendere.

«Erin è intelligente, mamma. Sa quello che fa e, se stasera fosse uscita con lui, me l'avrebbe detto. Non mi nasconde mai nulla» affermai con decisione.

«Sarà» fece spallucce. «Vai a prenderla tu, vero?»

Annuii con un cenno del capo. «Non la lascerei tornare da sola a quell'ora».

La cena proseguì tranquilla; oltre le piccole finestre dell'appartamento, il cielo iniziò a scurirsi per accogliere la notte e il silenzio calò sul quartiere. Rimanemmo nella mera compagnia della voce di un giornalista impegnato in un servizio a cui non stavamo prestando attenzione.

Nonostante tutto, la vita a cui mio padre ci aveva abbandonati era un insieme di abitudini piacevoli, benché minata dal pensiero ossessivo delle spese e della gestione del denaro.

Facendo fede a quella riflessione, aiutai mia madre a sparecchiare e a pulire la cucina prima di rilassarci. Dopo aver riaccompagnato Erin a casa, avremmo guardato un film sul logoro divano del salotto e avremmo concluso la giornata insieme, come sempre. Monotono, ma perfetto.

C'era, tuttavia, un aspetto che stava minacciando la mia tranquillità: controllai un'altra volta il cellulare, senza trovare alcun messaggio di mia sorella. Era strano da parte sua, ma non la biasimai per la distrazione in compagnia degli amici. È normale, mi convinsi.

La mia curiosità, d'altro canto, mi indusse a indagare: «Mamma» chiamai, asciugando un piatto per riporlo nella credenza. Lei mi lanciò un'occhiata, invitandomi a proseguire. «Erin ti ha scritto? Le avevo detto di non sparire, ma non ho sue notizie da quando è uscita».

Mia madre si allarmò, ma tentò di non palesarlo e si limitò a sgranare gli occhi per istinto. Comprendevo la sua preoccupazione: Erin era pur sempre un'adolescente e, benché fosse solita a frequentare i compagni di scuola, non dubitavamo sul fatto che questi potessero influenzarla negativamente fino a portarla su strade sbagliate.

«No, nulla» rispose la donna dopo un po', controllando anche il suo cellulare. «Chiedi a Michael, magari si è fatta sentire da lui» suggerì.

Per quanto Michael fosse il più distaccato dalla famiglia, concentrato solo su obiettivi e interessi personali, mia sorella nutriva un grande affetto per lui. Vedeva un esempio nella sua irrefrenabile determinazione e voleva seguire le sue orme. Proprio per il rapporto che avevano, non era impossibile che lei gli avesse scritto.

Così, consapevole di essere in procinto di rovinargli la cena stellata, selezionai il suo contatto e lo chiamai. Gli squilli mi riverberarono nei timpani.

«Buonasera a colui che ha deciso di rompere i coglioni per l'ennesima volta» esordì, sarcastico e pungente. «Cosa vuoi? Papà mi stava parlando di lavoro» si lamentò. «A differenza tua, ci tengo a ritagliarmi uno spazio nell'azienda».

Misi a tacere la sua voce metallica e andai dritto al punto: «Erin ti ha scritto, per caso? Non ha detto nulla né a me, né alla mamma, da quando è uscita».

Lo udii allontanare il telefono dall'orecchio per controllare, quindi lo risollevò. «No, Isaac» replicò, importunato dal mio disturbo. «Prova a chiamarla, no? Mi stai facendo solo perdere tempo con le tue paranoie».

Deglutii per sventare il nervosismo causato dal suo atteggiamento. Da quando era riuscito a infilarsi sotto l'ala protettrice di papà solo per la sua ricchezza, era diventato arrogante e menefreghista.

«Ci provo» replicai, rassegnato. Senza porgergli il minimo saluto, attaccai.

Abbandonata la sua supponenza, scorsi nella rubrica fino a individuare il contatto di mia sorella e feci partire la chiamata. La preoccupazione stava aumentando, lo percepivo dalle palpitazioni insistenti, e il rumore degli squilli era angoscioso e soffocante. I respiri si accorciarono quando, al posto della sua voce, subentrò la segreteria telefonica. Compii un secondo tentativo, invano.

In pochi secondi, raggiunsi l'ingresso dell'appartamento e mi infilai le scarpe.

«Mamma, Erin non risponde» la informai, nel momento in cui mi ricordai della sua presenza. Ero annebbiato da un panico ben giustificato: mia sorella non si comportava mai in quel modo, e a spaventarmi erano le persone che facevano parte della sua vita. «Vado all'Old Ship. Ti tengo aggiornata, va bene?» le assicurai, indossando la prima felpa trovata sull'appendiabiti per coprire le braccia nude.

«Vengo con te» sentenziò, trafelata.

«No, resta qui» mi opposi con durezza, scoccandole un'occhiata fulminante. «Sono sicuro che va tutto bene. Forse ha il telefono scarico o... si sta solo divertendo» ipotizzai, addolcendo il tono per non far accrescere la sua preoccupazione.

«Isaac, per favore» insistette.

«Torno presto» continuai a rassicurarla.

Senza attendere una sua risposta, afferrai il pomello della porta e la superai in fretta. Uscii dal palazzo in pochi secondi e ad ampie falcate mi diressi verso l'Old Ship, che distava meno di un miglio da casa nostra.

Hackney non era il quartiere migliore di Londra, segnato da reati di varia natura, ragione per cui percorsi la strada in fretta. I miei passi erano animati dall'ansia. Nonostante si trattasse della capitale, le strade erano deserte e in lontananza si sentiva solo l'eco di alcune volanti della polizia impegnate nella zona.

Quando svoltai nel vicolo in cui aveva sede il pub, tuttavia, quel suono fu rimpiazzato da una sensazione di stranezza. L'Old Ship, il pub in cui avrebbe dovuto essere Erin, era chiuso. Al posto del chiacchiericcio dei clienti, un connubio di urla e lamenti strazianti.

«Perché eri con i tuoi amici?» latrò una voce maschile. «Hai detto che non saresti potuta uscire, stasera, invece eri qui con loro».

Rallentai, concentrandomi sugli sprazzi di conversazione che riuscivo a udire.

«Ne abbiamo già parlato» ribatté una ragazza in un mormorio, sulla difensiva. «Voglio una pausa, Graham. È meglio se non ci vediamo per un po'» sentenziò, poi.

Quel nome famigliare mi indusse ad avvicinarmi di un'altra manciata di passi, esimendomi però dall'intervenire.

Uno schiocco echeggiò nel silenzio, a cui seguì un lamento. «Decido io con chi devi vederti e quando, sono stato chiaro?» ringhiò il ragazzo. «Se voglio che tu esca con me, devi farlo, hai capito?»

«Ma sono stata con i miei compagni di scuola!» si inalberò lei. «Non ho fatto niente di male, te lo giuro» lo pregò. «Per favore, credimi».

Quell'atteggiamento supplichevole scatenò definitivamente l'ira di Graham. «Tu devi stare alle mie regole» dichiarò, autoritario. «E se dico che devi uscire solo con me e che nessun altro ha il diritto di vederti, non puoi contraddirmi!» sbraitò. Un altro lamento femminile, che si propagò come uno strillo, fu la ragione per cui accantonai la calma e mi avvicinai.

Nella penombra della stradina, nel cortile aperto di una piccola casa abbandonata, distinsi solo un ragazzo alto e muscoloso che stava usando la sua forza per sottomettere una ragazzina indifesa ora stesa a terra. Avrei distinto quei capelli neri e quella corporatura minuta anche tra mille persone.

Il fidanzato zittì i gemiti di dolore serrandole le dita intorno al collo, gesto che le fece sgranare gli occhi per la paura. Speranzosa di trovare salvezza o aiuto, riuscì a voltare appena il capo e a incrociare il mio sguardo.

Ansimai quando realizzai che era davvero lei. Era mia sorella e quel Graham era il suo fidanzato, il medesimo che non era mai piaciuto a nessuno di noi e che le stava mozzando il respiro in un vicolo deserto. Una fitta di dolore acuto mi squarciò il petto e i battiti del cuore accelerarono, in un connubio corrosivo di terrore e furia.

«Isaac» soffiò con il poco fiato rimastole. Graham fu sorpreso da quel richiamo a tal punto da girarsi verso di me, la dimensione delle sclere raddoppiate quando mi vide. «Isaac, ti prego».

I suoi lamenti si fecero sempre più flebili e mi mandarono fuori di testa, uccidendo il senno. Soddisfando un istinto animalesco, mi avventai sul ragazzo e cercai di separarlo da mia sorella, che riprese lentamente fiato.

«Che cazzo fai, figlio di puttana?!» sbraitai. Seguendo un altro impulso, gli sferrai un pugno all'altezza dello zigomo che si arrossò all'istante. «Che cazzo stavi facendo?!» insistetti, assestandogli un secondo colpo sul labbro, seguito da un terzo sull'occhio.

«Togliti» farfugliò e riuscì ad allontanarmi, spingendomi dal lato opposto, ma non ebbi abbastanza tempo di reagire perché tornò a sfogarsi sul corpo di Erin. Mi atterrì quando saldò le dita attorno ai suoi capelli e scaraventò il suo capo al suolo con violenza. «Questo è per tutte le volte che ti sei divertita a fare la puttana in mia assenza!» urlò. «Mi fai schifo, Erin, non sei degna di vivere. Ti meriti solo di morire per avermi mancato di rispetto».

Mi rialzai e feci appello a tutte le mie forze per scagliarmi contro di lui, ma la sua possente robustezza me lo impedì. Mi tenne distante da mia sorella e la sovrastò con il suo corpo. La parte sinistra del viso della ragazza era ora sfregiata da graffi e ferite sanguinanti, il liquido cremisi che colava fino alla pelle diafana del collo.

«Graham, basta» lo implorò con un filo di voce. Una frase che le uscì spezzata mentre, debole, provava a difendersi; gli piantava i palmi sul petto per allontanarlo, ma il divario tra le energie dei due era troppo ampio. «Non davanti a mio fratello, ti prego, smettila» continuò, i gemiti intervallati dai singhiozzi e dalle lacrime. «T-Ti prego» ripeté.

Gli stava chiedendo di interrompere il gesto crudo solo perché mi aveva visto. Aveva realizzato ciò che stava accadendo fino al punto di accettarne la sofferenza, a patto che non fossi io a farmene carico.

Graham mi terrorizzò del tutto quando ghermì un coltello che aveva abbandonato lì accanto, la lama immacolata che brillò alla luce dei pochi lampioni del veicolo. Ancora una volta provai ad alzarmi e a liberare mia sorella dalle sue intenzioni brutali, cercando di agire con la poca lucidità che mi rimaneva, ma lui mi fermò.

«Allontanati, Isaac!» sbraitò, ancora, in un ringhio iroso. «Fatti i cazzi tuoi!»

Un'improvvisa scarica di dolore acuto seguì il suo urlo e si propagò nella zona del fianco. Boccheggiai e indietreggiai sofferente, e solo abbassando lo sguardo notai la ferita causata dalla sua lama.

Feci appello persino alla più scarsa delle mie forze per rialzarmi sulle ginocchia e intervenire, ma il mio corpo non me lo concesse. Avevo la mano serrata attorno al fianco per fermare il flusso e i respiri erano corti, la vista offuscata; il liquido cremisi sgorgava copioso e mi macchiava le dita, infilandosi tra esse e rivolando sulla pelle, bollente.

L'unica cosa che vidi fu Graham che, con ferocia e senza ritegno, sferrò una serie di coltellate al petto di mia sorella. L'odore metallico si diffuse nell'aria umida. La lama entrava e usciva, impietosa, da quel corpo quasi inerme e i fiotti di sangue imbrattavano il suolo, riflettendo la luce fioca dei lampioni.

Le aveva appena squarciato il petto con veemenza solo perché lei aveva rivendicato la sua indipendenza e la sua libertà di scegliere come agire. Lei, che aveva tutto il diritto di allontanarsi da lui, aveva pagato il prezzo della vita; lei, che agli occhi di un maniaco era diventata un oggetto da possedere e da punire se non avesse seguito i suoi piani.

E io, ansante e impotente, stavo assistendo alla morte di mia sorella senza poter fare nulla. Ero diventato un inutile spettatore della crudeltà con cui lui si avventava su di lei, del cospicuo numero di colpi che le sferrò per gelosia e fame di dominio assoluto.

Nel bel mezzo di urla trasformate in gemiti di dolore e respiri brevi, l'unica benedizione furono le sirene della polizia sempre più vicine. Non sapevo chi tra gli abitanti, forse smosso dal trambusto, avesse avvertito le autorità, ma lo ringraziai tacitamente quando vidi Graham in preda al panico.

«Porca puttana» imprecò a denti stretti.

Si guardò intorno con gli occhi sgranati e la paura gli fece scivolare via il coltello dalle dita, che si schiantò al suolo. In un istante di lucidità repentina, sembrò realizzare il madornale errore che aveva commesso e si alzò senza proferire parola alcuna. Scappò via, lesto, i suoi passi scemarono nel silenzio notturno.

«E-Erin» ansimai e, traballante per il dolore, mi avvicinai al suo corpo. Il torace ferito e sanguinante era ancora scosso da alcuni respiri che non mi fecero perdere la speranza di salvarla. «Stanno arrivando... Stanno arrivando i soccorsi» mormorai tra i singhiozzi. Solo allora mi accorsi che, ad annebbiarmi la vista, era uno strato di lacrime. «Resisti».

Tastai la tasca posteriore per afferrare il cellulare e chiamare un'ambulanza, per accantonare l'eventualità che stesse arrivando solo la polizia, ma il tentativo di accenderlo fu vano. L'icona della batteria scarica lampeggiò sullo schermo, facendomi sprofondare sotto un'altra – nonché l'ennesima – ondata di disperazione.

Di conseguenza, mi adoperai per non perdere altro tempo. Mi feci carico del peso di mia sorella, con una mano nella piega delle ginocchia e una che la sorreggeva in vita, e mi alzai nonostante la mia ferita stesse continuando a sanguinare. Non avrei dovuto compiere uno sforzo tale, ma avrei dato la mia vita pur di salvare la sua.

La strinsi saldamente al petto per evitare di farla cadere e, uscendo dal cortile dell'abitazione abbandonata, mossi dei passi celeri per uscire dal vicolo. Ognuno di essi equivaleva a un sospiro per il taglio, che bruciava e mi impediva di correre come avrei voluto, ma non mi rassegnai. Le luci blu della polizia illuminavano il buio a qualche metro di distanza.

Erin è ancora viva, pensai. Posso fare qualcosa.

Fu lei stessa a confermarmelo quando, con le poche forze di cui poteva avvalersi, mi strinse l'avambraccio tra le dita. Lo fece come se stesse cercando un appiglio in me, un sostegno per resistere mentre le palpebre minacciavano di chiudersi.

«Isaac» soffiò, la voce flebile e spezzata. Era evidente che prendere fiato le provocasse un dolore lancinante, ma tentò di parlarmi e io le dedicai tutta la mia attenzione. «A-Avrei dovuto ascoltarti» si rammaricò. Una lacrima le scorse sulla guancia, solitaria, e riflesse la luce dei lampioni; il suo viso era sempre più pallido e le labbra tremavano, d'un colorito livido. «Scusami».

Saldai la presa per assicurarla a me e farle percepire la mia vicinanza. Desideravo che capisse che non era colpa sua, che non poteva colpevolizzarsi dell'amore che l'aveva legata a quel ragazzo. Avrei voluto dirle che i suoi sentimenti non erano stati la ragione di un gesto tanto efferato.

Volevo che i battiti del mio cuore versassero una sola stilla di vita nel suo corpo quasi esanime, ma non ebbi il tempo di farlo.

Ogni speranza si dissolse nel nulla perché quelle ultime parole, esalate per assumersi la responsabilità di quanto accaduto, equivalsero al suo ultimo respiro.

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3 giugno 2023
Venezia, Italia

Seduto accanto a Desirée sul letto della stanza d'hotel, le avevo appena raccontato del giorno peggiore della mia vita come se la nostra confidenza avesse raggiunto un nuovo livello. Stavamo ancora indossando i vestiti con cui avevamo partecipato al ballo prima che esso terminasse a causa della telefonata da cui la ragazza dedusse i primi dettagli della vicenda, ma sviscerarne i particolari l'aveva lasciata attonita.

Non si aspettava un aneddoto di tale portata e aveva prestato attenzione a ogni singola parola. Nonostante le divergenze che intercorrevano tra noi, causate dalle nostre posizioni conflittuali, quella sera l'empatia ebbe la meglio e portò qualche lacrima a solcarle il viso. La compassione, però, non si limitò a quel gesto: superò ogni strato di astio che ancora aleggiava tra noi, trasceso solo dall'attrazione fisica, e lei mi afferrò la mano stringendola nella sua. Si dimostrò ancora più vicina appoggiando la testa sulla mia spalla e rimase in silenzio per qualche minuto.

Circondati dallo sfarzo della stanza e segnati dal lusso presente nelle nostre vite in modi diversi, in quel momento eravamo due semplici persone in vena di ammissioni spontanee, che riportavano alla luce ricordi strazianti e avevano bisogno di comprensione.

La medesima che arrivò da Desirée, pochi istanti dopo.

«Anche se ne era convinta, tua sorella non ha colpe» affermò, la voce tremula. «Non può essere colpevole della cattiveria di un ragazzo che l'ha sminuita fino ad annullarla» commentò. Ancora scossa da un pianto cheto e silenzioso, tirò su con il naso e si asciugò la guancia con un movimento celere delle dita; deglutì, come se un nodo le stesse occludendo la gola. «E non è nemmeno colpa tua, Isaac» abbassò il tono e mi rassicurò, riportando la mano sul mio braccio. Accarezzò il tessuto della giacca con intento confortante. «Hai fatto più del possibile per lei».

Le sue parole mi aiutarono, in parte, a lenire la ferita che avevo riaperto dopo anni. Non ero mai riuscito a ricucirla del tutto, ma riesumare il ricordo aveva fatto saltare ogni punto di sutura immaginario. I battiti del cuore rallentarono e i respiri cominciarono a regolarizzarsi, nonostante la fitta al petto dolesse ancora. Anche a distanza di anni, quella vicenda non avrebbe mai smesso di avere l'amaro gusto della sofferenza e dell'impotenza e io non avrei mai trovato il coraggio di non colpevolizzarmi.

Mi interrogavo spesso su come sarebbero andate le cose se fossi arrivato un paio di minuti prima. Se solo fossi intervenuto in maniera più efficace e non mi fossi lasciato travolgere da un'ondata di panico, mia sorella sarebbe stata ancora viva.

Nella mia testa era tanto colpa di Graham, quanto mia.

Sentivo, però, che esisteva un modo di assaggiare la redenzione. Fu la ragazza che sedeva al mio fianco a rammentarmelo, nella sua fragilità vestita di maschere e diamanti.

Ogni pregio che Desirée ostentava per sottolineare la sua perfezione era uno scudo. L'immensa bellezza la schermava dai pregiudizi e l'autostima nascondeva le sue debolezze, ma dietro quelle qualità risiedevano un dolore e una lotta che io avevo notato fin dal primo giorno.

La possessività e l'arroganza di Valentin non mi erano mai passate inosservate. Tutti i passi che muovevo in direzione della sua fidanzata, che all'inizio erano indirizzati a meri scopi lavorativi, equivalevano a un pretesto per discutere. Un'indole violenta che fu presto confermata dai lividi che la ragazza spacciava per proprie distrazioni, omettendo la verità che venne a galla qualche sera prima, alla festa tenuta al Jimmy'z.

Forse non era ancora un libro aperto ai miei occhi, ma ero riuscito a leggere le prime pagine intrise dell'inchiostro della sofferenza. Nonostante lei insistesse per apparire grazie alla sua copertina priva di difetti, era ormai costretta a capire che qualcuno si sarebbe avventurato nella sua storia.

E quel qualcuno sarei stato io, riflettei prima di interrompere il silenzio.

«Adesso capisci, Desirée?» le chiesi, confidando nella sua immediata comprensione.

Lenta, si scostò dalla mia spalla e si raddrizzò per guardarmi. Le screziature verdi delle sue iridi erano scaldate dalla luce della stanza, che ci abbracciava durante la nostra conversazione.

«Cosa?» mormorò, confusa. Non alzò il tono per non rovinare il momento di quieta mestizia, limitandosi a un sussurro tremulo.

Fermai la carezza che esercitava sul dorso della mia mano e feci intrecciare le nostre dita per saldare l'intimo legame che, quella sera, ci aveva uniti grazie alla confidenza. Se smisi di guardarla negli occhi e mi concentrai su un punto fisso, fu solo per selezionare le parole giuste da dirle.

«Il motivo per cui insisto così tanto sulla relazione tra te e Valentin» replicai. Prima di proseguire, mi incoraggiai con un respiro profondo. «Non lo faccio per immischiarmi nelle tue questioni private o per uno stupido gioco di potere per indebolirti e portare a termine il mio compito» proseguii, «ma perché, dopo quella vicenda, so riconoscere determinati comportamenti» spiegai. Solo allora ebbi la forza di riportare lo sguardo sul suo viso, la cui attenzione era catturata da me. Concatenando le nostre pupille, rafforzai i miei lemmi. «Vedo campanelli d'allarme in Valentin fin dal primo giorno, Daisy» addolcii il tono per non farla sentire a disagio. «La sua gelosia estrema, il modo in cui vuole tenerti sotto controllo... Non sono comportamenti normali, e non ho dubbi sul fatto che tu lo sappia».

La sua unica reazione fu un sospiro sommesso e, ancora una volta, interruppe il contatto visivo. Chinò il capo, gli occhi ora fissi sui diamanti dell'abito che brillavano a ogni minimo movimento, e si lasciò coinvolgere in un altro carico di riflessioni destate dal mio discorso.

Desirée non era stupida, né tantomeno ingenua: era consapevole di tutti gli atteggiamenti sbagliati del suo fidanzato, ma al contempo era prigioniera di quella relazione. Agli occhi di chi la circondava nel suo futuro impero lavorativo, compreso suo padre, Valentin era l'aggancio perfetto per gestire l'azienda nel migliore dei modi. Sembrava che nessuno credesse nella sua spiccata intelligenza imprenditoriale tanto da costringerla a una gabbia di dolore che, però, risiedeva dietro mura di menzognero benessere.

Bloccata dal flusso di pensieri, la sua risposta tardò ad arrivare e io ripresi la parola: «Tu puoi liberarti, lo sai? Hai la possibilità di mettere un punto a questa situazione e ricominciare a vivere» le rammentai. Covavo il desiderio di motivarla a ribellarsi e riscattarsi, che tentai di esprimere in ogni mia frase. «Hai la forza e il coraggio necessari per farlo e, se ti servisse un aiuto, puoi contare su di me» le promisi, rafforzando l'intreccio delle nostre dita. Era difficile capire da dove provenisse quell'improvvisa e intima intesa, ma era vera e spontanea come poche sensazioni provate in vita mia. Prima di concludere, poi, mi schiarii la voce roca. «Ma devi farlo prima che sia troppo tardi» aggiunsi.

Riuscii a smuovere qualcosa in lei, perché la reazione arrivò subito: scosse il capo, in un gesto da cui trasparve una vena di rassegnazione, e lasciò sfuggire una lacrima al suo autocontrollo. Per contrastare il pianto, fece sfarfallare le ciglia e, prima che la gocciolina salata raggiungesse il collo ambrato, la asciugai con il dito della mano libera.

«Non penso di averne davvero la forza» rivelò con un filo di voce. «Sono sicura che, se lo lasciassi, non lo accetterebbe e...» tentennò. «Non finirebbe bene, credo» ammise. Tirò su con il naso e, senza lasciarmi il tempo di replicare, si accinse a continuare. I nostri occhi tornarono a incontrarsi, il mio cuore regalò un battito al suo. «Ho paura di lui e delle sue intenzioni, Isaac».

La gelida inquietudine che trapelò dalla sua affermazione mi rivestì di brividi. Dopo settimane di conoscenza aveva dato voce al terrore che più la atterriva, quello segreto e meglio celato, e l'aveva fatto con me. Il suo rivale, colui che avrebbe dovuto soffiarle le proprietà per un tornaconto economico, e non aiutarla a superare le sue battaglie.

Ma come potevo essere algido e indifferente, davanti a qualcuno che mi era così famigliare?

Lasciai la sua mano per circondarle le spalle con un braccio e attirarla a me. Si mostrò titubante, ma si ancorò a me come se fossi stato il suo unico appiglio. L'unico che la capiva, in un mare di menefreghismo e apparenza.

«So che sei spaventata, è logico e inevitabile» le sussurrai, nel silenzio colmato solo dal lieve fruscio delle acque di Canal Grande, udibile grazie alla finestra aperta. «Ma io non ignorerò il problema, Daisy. Sono qui per aiutarti» le assicurai. Aumentando la forza della stretta, provai in ogni modo possibile di infonderle forza d'animo, tra gesti e parole. «È proprio nella paura, che voglio essere il tuo coraggio».

Ottenni solo un altro lungo sospiro come risposta, ma non pretendevo di ricevere un riscontro. Anche i nostri silenzi sapevano essere eloquenti, e bastavano per una comprensione reciproca. Mancava solo un quesito fondamentale, una certezza che sentivo il bisogno di cercare.

«Mi prometti che proverai a uscire da tutto questo?» le domandai, di conseguenza.

Si limitò ad assentire in silenzio, spazzando via un'altra lacrima che le rivolò sul viso stanco. La serata l'aveva stremata e, immobile e impegnata a contemplare il vuoto, non accennò a voler cambiare posizione. Apprezzava la nostra tregua pacifica, in cui i ricordi del passato avevano abbracciato le situazioni del presente nel tentativo di trovare una soluzione attuabile.

Ne approfittò, poco dopo, per muovere ulteriori passi nella mia vita. Voleva conoscermi nello stesso modo in cui io l'avevo fatto con lei, tra domande e risposte.

«Tua sorella si chiamava Erin, giusto?» chiese e io annuii. «Quindi è per questo che tua figlia...» iniziò a dedurre.

«L'ha scelto Giselle per me» rimembrai accennando un sorriso, nonostante il ricordo portasse con sé una cospicua dose di amarezza.

La curiosità di Desirée incrementò. Avvinghiata a me, rammentava i pochi dettagli che le avevo rivelato della mia relazione passata e volle ottenere più informazioni. Era un sincero interesse privo di secondi fini, a cui diede voce con un semplice: «Come vi siete conosciuti?»

Dovetti riordinare i pensieri, prima di riassumerli e raccontarle del periodo turbolento che avevo trascorso e condiviso con Ellie. Erano stati mesi in cui avevo riversato la maggior parte della mia sofferenza su di lei, che non lo meritava, e in cui ero diventato la versione peggiore di me stesso. Migliorare era stato un percorso tortuoso e non ancora concluso, ma ci stavo provando con ogni mia forza.

L'ennesimo sospiro di incoraggiamento mi aiutò a rispondere: «Giselle è australiana e si trovava a Londra per studiare architettura a Oxford» esordii, senza perdere l'accenno di sorriso che aveva riportato un po' di vitalità al mio volto. «Ci siamo conosciuti durante un evento organizzato in memoria di Erin da una piccola associazione femminista della città. La notizia l'aveva toccata particolarmente, essendo stata una delle prime che aveva sentito da quando era arrivata in Inghilterra, e aveva deciso di partecipare per dare sostegno» spiegai. «Quel giorno, io avevo tenuto un discorso e lei si era fermata a congratularsi con me per la mia forza» rammentai, lasciandomi sfuggire una risata fredda. «Non ho mai capito come avesse fatto a notarla, perché io mi sentivo una nullità. Non riuscivo a portare nulla a termine e, un po' per cercare una distrazione e un po' per rendere fieri entrambi i miei genitori, mi ero appena iscritto alla facoltà di economia. Inutile dire che persino gli studi si sono rivelati un fallimento, ma perlomeno sono riuscito a concluderli».

Feci una pausa per riprendere fiato e ricollegarmi al fulcro del discorso. Desirée mi ascoltava in religioso silenzio, cullata dalla mia voce, e provai un bizzarro piacere nell'estrapolare ogni dettaglio per donarlo a lei.

«Approfondire il mio rapporto con Giselle, in quel periodo, fu un regalo del cielo» ripresi a raccontare. «O meglio, lo fu durante i primi mesi» rettificai, pronto ad addentrarmi nella parte più ardua della storia. «All'inizio, lei era il mio appiglio e l'unica persona in grado di tranquillizzarmi, nei limiti del possibile. Con il passare delle settimane, però...» tentennai, e deglutii un altro nodo alla gola per continuare. Mi vergognavo ad ammettere il modo in cui mi ero comportato, gli sbagli che avevo commesso e la persona in cui gli eventi mi avevano trasformato. Se ne avessi avuto la possibilità, avrei cancellato quel periodo dalla memoria senza pentirmene. «Con il passare delle settimane è diventata uno sfogo, per me. La vedevo come un sostegno di cui non potevo fare a meno, ma non era lei a essere la mia salvezza. Lo erano il sesso e l'appagamento fisico che mi faceva provare, ma l'amore era durato poco ed era chiaro a entrambi». La voce si fece più tremula e, incerto, mi mordicchiai il labbro inferiore. «Ed è stato così che... che lei è rimasta incinta nel pieno dei suoi studi».

«E tu?» Desirée mi invogliò a proseguire, ormai affamata di aneddoti.

Erano rare le occasioni in cui raccontavo la storia per intero. Da una parte sapevo che era inutile rivangare un passato impossibile da modificare e forse perdonato; dall'altra, ero ancora spaventato dal confessare il tipo di persona che ero stato. Quel racconto, però, non poteva essere rimandato, pertanto lo portai avanti.

«Devi sapere che Giselle ha una forza incredibile. Ha continuato a frequentare le lezioni senza tirarsi indietro fino alle ultime settimane di gravidanza. L'università era il motivo per cui si trovava a Londra e non avrebbe permesso a nessuno di ostacolarla» la lodai con un sorriso. «E, inoltre, non le era mai passato per la mente di abortire. Voleva avere quella bambina a tutti i costi, anche se io non ero molto collaborativo, anzi. Il mio rimpianto più grande è quello di averla trascurata in quel periodo» confessai. Il dolore delle mie scelte passate mi esplose nel petto con una fitta pungente, una fedele compagna per tutta la durata del discorso. «Non mi importava a tal punto da lasciarla partorire in solitudine. E, nonostante il mio menefreghismo, lei ha chiamato nostra figlia Erin per me».

Pronunciai un insieme di parole tremule a causa dello strato di lacrime che mi offuscò la vista.

Non mi sarei mai perdonato l'inferno che avevo fatto subire a Giselle. L'avevo usata per colmare dei vuoti di cui lei non aveva colpe, solo perché era stata l'unica persona a farsi carico della mia sofferenza. Aveva sempre e solo voluto donarmi qualche sprazzo della sua luce, ma io ero stato così egoista da spegnere persino la sua. Non c'era stato niente di giusto in quel rapporto, ma non mi ero arreso alla versione di me più meschina. Al contrario, stavo tentando di migliorarmi ogni giorno come padre e, ormai, amico della donna che avevo amato in modo errato.

Una lacrima si ribellò alla mia volontà, unendosi a quelle versate da Desirée fino a qualche minuto prima. Quella volta, in una dimostrazione di ausilio reciproco, fu lei a discostarsi da me per raddrizzarsi e asciugarla.

«Ho sbagliato tutto con lei, ma so che adesso è felice e mi basta per essere sereno» conclusi, arcuando le labbra per tranquillizzare l'espressione preoccupata di Desirée. «Alla fine, abbiamo mantenuto dei buoni rapporti per il bene della bambina e lei è rimasta con me perché, dopo la laurea, ho iniziato a lavorare con mio padre e la mia situazione economica era migliore di quella di Ellie, che nel frattempo è tornata in Australia».

«E tu hai riconosciuto i tuoi errori e hai rimediato, Isaac» aggiunse lei, rassicurante. «Riassume perfettamente il tipo di persona che sei e devi andare fiero. Ne sei uscito, questo è l'importante» dichiarò.

Trovare la forza di uscire da un limbo soffocante. Era ironico come noi, due persone all'apparenza diverse ma dalle radici simili, condividessimo lo stesso tacito obiettivo. Volevamo entrambi liberarci delle patine cupe che rivestivano le nostre vite, un obiettivo che poteva essere raggiunto solo con i nostri stessi sforzi e per cui il denaro era inutile.

Alla fine di quella serata, era assurdo pensare che io e Desirée fossimo riusciti a superare le nostre barriere e conoscerci davvero. Oltre le armature che ci proteggevano e oltre le maschere. Ci eravamo spogliati a vicenda e, per una volta, non si trattava dei vestiti.

«Non credo di esserne uscito del tutto, ma ti ringrazio» mormorai in risposta. «Sai, a questo punto penso che ci sia un solo affare da proporti» le comunicai, poi, il tono che assunse una connotazione pressoché scherzosa. Per sottolineare l'intento, allungai una mano nella sua direzione. «Proveremo entrambi a liberarci da ciò che ci soffoca».

Lei stette al gioco e accettò la stretta, suggellando un finto accordo lavorativo che avrebbe giovato a entrambi, se rispettato.

«Affare fatto, Woodward» convenne, con un sorriso dolce e gli occhi ancora lucidi.

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Nota dell'autrice
Ciao a tutti amici, come state? <3
Eccoci qui con un nuovo aggiornamento di AD. Oggi non voglio perdermi nel consueto riassunto di fine capitolo, nonostante fosse presente una ricca premessa. Spero che voi ne abbiate letto ogni singola parola, così da interiorizzarne il messaggio.
Se mi conoscete anche solo un minimo, sapete bene che, quando si tratta di scene fondamentali e talvolta crude, non risparmio i dettagli. Voglio che i lettori le assorbano nella loro totalità, come in questo caso.

Ho deciso di aspettare qualche giorno per revisionare il capitolo e pubblicarlo, proprio per farlo uscire oggi in occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne (25 novembre).
A tal proposito, come nella premessa, ci tengo a ricordarvi il Numero Antiviolenza e Antistalking, il 1522, le cui operatrici sono a disposizione 24h su 24 per qualsiasi tipo di emergenza. Oggi più che mai, è importante ricordarvi di prestare attenzione alle vostre vite e a quelle altrui per evitare di incappare in situazioni irreversibili.
Oltre a una scena di fondamentale importanza per la narrazione, questo capitolo vuole anche gettare luce su una problematica sempre più diffusa: la violenza di genere e il femminicidio, dietro cui spesso si nascondono campanelli d'allarme quali eccessiva gelosia, manie controllanti, comportamenti abusivi/manipolativi/violenti.
Secondo l'osservatorio nazionale del movimento femminista e transfemminista Non Una Di Meno, i femminicidi in Italia solo nel 2024, ad oggi, ammontano a 106. Un numero troppo alto, perché persino una donna uccisa è un quantitativo immenso.

Pertanto, lascio qui alcuni nomi di associazioni che offrono supporto, aiuto e luoghi sicuri per le donne prigioniere di tali situazioni:
- Associazione D.i.Re – Donne in Rete Contro la Violenza: i loro centri antiviolenza hanno una copertura molto estesa sul territorio nazionale, per cui rappresenta ormai un caposaldo nella lotta contro la violenza di genere;
- Telefono Rosa: prima associazione italiana contro la violenza di genere, attiva dal 1988, ha anch'essa una vasta rete di case rifugio per le donne in difficoltà.
Oltre a queste possibilità, ogni regione presenta le sue associazioni locali che potete contattare e consultare su Internet. Inoltre, se volete offrire il vostro aiuto tramite gesti concreti, ciascuna di queste organizzazioni promuove attività di volontariato aperte a tutti.

Al termine di questa nota, più lunga del solito ma mai abbastanza esaustiva, vorrei spendere ancora due parole di fondamentale importanza.
Se vi trovate in difficoltà e/o pericolo, se conoscete un'amica, una sorella o una famigliare coinvolta in queste situazioni, o se assistete a una scena di violenza, non siate indifferenti. Intervenite e chiamate le autorità, che senza dubbio forniranno il giusto supporto e garantiranno la sicurezza necessaria. E, soprattutto, non abbiate paura di raccontare la verità ad alta voce: cercate aiuto, denunciate e non nascondetevi.

Nella speranza che, un giorno, potremo essere di nuovo libere.

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