29. Masque

IT: maschera

✧✧✧

2 giugno 2023
Venezia, Italia

Evitare di pensare a Isaac stava diventando impossibile. La sua immagine, impressa nella mia testa, mi stava portando oltre ogni mio limite e possibilità.

Tutto ciò che facevo era concentrarmi su di lui: ero ancorata alla nostra infinita notte di sfioramenti corpo contro corpo, alla tensione che ci teneva uniti e respingeva al contempo; se ci riflettevo, però, mi accorgevo di una mancanza dilaniante. Le sue labbra, che avevano perlustrato e marchiato ogni centimetro di me, non avevano ancora assaggiato le mie. Si limitava al sapore del corpo e al profumo della pelle, come un souvenir da custodire dopo il nostro viaggio insieme.

Paradossalmente, solo il suo arrivo nella zona notte della stanza riuscì a distrarmi. Mi riempì lo sguardo e moltiplicò i palpiti del cuore, presentandosi nel suo smoking nero che gli fasciava il corpo tonico. Il reticolo di tatuaggi scuri, con cui mi sembrava di essere diventata un tutt'uno nelle ore precedenti, si arrampicava sotto la giacca, rimanendo visibile sui soli dorsi delle mani. Un distacco dalla sua eleganza altrimenti monotona.

Mancava meno di un'ora al ballo in maschera organizzato in occasione di un'asta di beneficenza di cui Isaac non mi aveva riferito i dettagli, e stavamo sfruttando gli ultimi minuti a nostra disposizione per prepararci al meglio.

Persino l'inglese, tuttavia, rimase folgorato quando entrai nel suo campo visivo. Divenni un saldo appiglio per le sue iridi celesti, profonde e pericolose come un abisso inesplorato, e per le pupille che si alternarono tra la pelle ambrata e il fulgido, nonché principesco abito tempestato di cristalli che indossavo.

Amavo attirare la sua attenzione; catturarlo nella mia trappola, farlo smaniare e struggere per me. Era stato il mio obiettivo primario fin da quando l'avevo conosciuto: indebolirlo, giocando con lui per mezzo di corpo e mente.

Stringendo un lembo dell'ampia gonna tra le dita, quindi, girai su me stessa per mettermi in mostra. L'abito scintillò in tutta la sua preziosità, abbellito dai caldi raggi del tramonto che penetravano dalla porta finestra, e mi fermai per lasciarmi ammirare dai suoi occhi languidi.

«Ti piace il mio vestito, Woodward?» ghignai, chinandomi in avanti in una finta riverenza che mettesse in mostra i miei seni, compressi nella scollatura a cuore del corsetto. Nel raddrizzarmi, il sorrisetto non scomparve. «Ormai dovresti sapere che odio passare inosservata».

Con un paio di passi, coprì la distanza rimanente fra noi e si avvicinò. «Oh, Daisy, lo so bene» confermò. Anche le sue labbra si incurvarono. «E sei fortunata, perché qui hai un osservatore molto attento ai dettagli».

Una serie di altri movimenti impercettibili gli concesse di raggiungermi e appostarsi alle mie spalle. Sulla piccola scrivania in mogano di fronte a noi, sottostante all'imponente specchio dorato della stanza, adocchiò il girocollo di diamanti che avevo intenzione di indossare. Non sprecò il fiato per chiedermi il permesso: ormai padrone e artefice dei miei brividi, afferrò la collana e si offrì di allacciarla.

Trattenni un sospiro, quando i suoi polpastrelli caldi sfiorarono la mia pelle. Lenti, tracciarono un solco indelebile che sperai mi rimanesse addosso come uno dei suoi tatuaggi criptici. Assicurò la catenella ma, prima di separarsi da me, si chinò in avanti. Le sue labbra morbide mi lambirono il lobo dell'orecchio – che scoprii essere una delle zone più sensibili – e il fiato caldo mi risvegliò dalla trance.

«Sai, chérie» esordì, spostando la sua carezza sulle mie braccia nude. Riflessi nello specchio, i nostri corpi ancora una volta incapaci di dividersi. «Credo che, sotto il mio tocco, brilleresti anche senza tutti questi cristalli» soffiò sul mio collo, che umettò con un bacio. «E, se fosse per me, questo bel vestito sarebbe già sul pavimento».

Un sorrisetto compiaciuto apparve sul mio viso. Era rasserenante trovarsi a chilometri e chilometri dai problemi, nella sola presenza di una soluzione che non avrebbe dovuto esserlo.

Riusciva a comandarmi, i miei movimenti come automatismi per un corpo che, ormai, sottostava alle sue tacite leggi. Pertanto la mia mano salì e le dita si avventurarono tra i suoi capelli morbidi.

«Smettila...» lo invitai, scossa da un risolino con le palpebre ancora serrate per il piacere. «Non potresti starmi così vicino...»

«Il problema è proprio questo, Daisy» dichiarò, accarezzandomi i fianchi all'altezza dell'attaccatura della gonna. «Non riesco più a stare lontano da te».

Il ghigno non perì, quando compii una breve piroetta sui tacchi per girarmi verso di lui. Nonostante le décolleté che indossavo, torreggiava su di me nella sua imponenza e lo guardai dal basso, i miei palmi ora sul suo petto. «Resisti finché non arriveremo al ballo, Woodward» gli consigliai. «E goditelo finché potrai».

Mi doleva il cuore al solo pensiero di dover allentare la tensione che univa, di nascondere il legame dei nostri corpi agli occhi di tutti solo per l'apparenza. Nonostante la manipolazione che esercitavo per indebolirlo, ogni centimetro della mia pelle chiamava a gran voce il suo tocco.

Spezzai, tuttavia, il contatto fisico e mi avvicinai a uno dei comodini della stanza. Vi avevo adagiato la maschera veneziana che avrei indossato per il ballo, tempestata di piccoli diamanti che riprendevano la preziosità dell'abito principesco. Accanto giaceva quella nera di Isaac, che afferrai insieme alla mia per poi porgergliela.

«Mi hai coinvolto in questo viaggio senza nemmeno dirmi dove si terranno il ballo e l'asta» ridacchiai, allacciando la maschera dietro alla testa. Con un movimento rapido, feci ricadere i capelli sciolti per coprire il nastrino di seta che la assicurava.

Isaac replicò i miei movimenti, coprendosi il viso. Circondate da quel colore scuro, le sue algide iridi sembravano ancora più taglienti e impenetrabili. «A Ca' Rezzonico» mi informò in risposta. «Si trova qui, su Canal Grande. Giusto qualche metro di gondola» proseguì, accennando un sorriso mentre curava il suo aspetto riflesso nello specchio. Dopo aver inumidito il collo con alcuni spruzzi di una fragranza balsamica, si voltò verso di me e mi raggiunse in un paio di passi. «E direi che è l'ora di andare. Il sole sta calando e il ballo ci aspetta, mia Daisy» concluse, offrendomi il sostegno del suo braccio, che accettai senza ripensamenti.

Quel "mia", però, fu in grado di rivestirmi di brividi. In parte, racchiudeva una solida verità con cui avrei dovuto convivere: se io l'avevo catturato nella mia trappola di lussuria, lui mi aveva reso prigioniero della sua. Ogni gemito, ogni lembo di pelle, ogni dimostrazione di piacere gli apparteneva.

Insieme, quindi, uscimmo dalla camera da letto e varcammo la soglia del Gritti Palace dopo aver sceso le scale. Un tramonto più cupo ammantava ora la Serenissima, in cui regnava il gioviale sottofondo delle barcarole. Passo dopo passo, raggiungemmo il molo in cui un gondoliere stava attendendo il nostro arrivo. Tutto, di lui, riprendeva la tradizione veneziana: il cappello in vimini, la riconoscibile maglietta a righe bianche e blu.

Isaac fu il primo a salire sull'imbarcazione, che ciondolava al dolce ritmo dell'acqua. Raggiunto l'equilibrio, l'inglese mi porse la mano in un gesto galante enfatizzato dalla sua eleganza; la afferrai con un sorriso grato.

«Prego, chérie» mi invitò, e io mi lasciai accompagnare a bordo della gondola.

Mi accomodai, l'ampio vestito che riempì quasi la totalità dello spazio, e Isaac occupò il posto dinanzi a me. Eravamo solo in grado di scambiarci sguardi eloquenti, in cui era protagonista la tensione e la brama di viverci come avevamo fatto la notte precedente. Senza problemi, senza limiti. Un desiderio che continuava ad ardere mentre il gondoliere, assicurandosi che fossimo pronti, iniziò a remare; si allontanò dalla banchina e ci regalò una nuova prospettiva su Canal Grande. Il cielo aveva cominciato a incupirsi, le stelle a brillare sulla Serenissima che pullulava di bandierine tricolore e soavi canzoni tradizionali.

Quello che mi si presentava davanti agli occhi era uno spettacolo mozzafiato. Venezia aveva il sapore di libertà e spensieratezza, di splendore e arte, tinte di una velata trasgressione. Era facile perdersi nella sua architettura inimitabile e il contrasto della fredda coltre notturna e delle luci calde dei locali.

«Vorrei poterti disegnare di nuovo» dichiarò Isaac all'improvviso, attirando la mia attenzione mentre riponeva il cellulare allora sollevato. Lo guardai interrogativa.

«Mi hai fatto una foto?» gli chiesi, senza nascondere un sorriso lusingato.

Ripose l'apparecchio nella tasca interna della giacca e scosse le spalle. «Lasciami dire che Venezia non è l'unica opera d'arte, qui» affermò.

Negli ultimi giorni trascorsi insieme, era stato stregato dalla mia presenza. Era finalmente sotto l'incantesimo della mia maliziosa lascivia, incapace di starmi lontano e non lodarmi.

Stava andando tutto secondo i piani: il desiderio era l'oppio dei deboli. Nonostante l'attrazione fosse reale e innegabile, tangibile persino da terzi, quella era la strada da percorrere per dissuaderlo dal lavoro e dalle mie proprietà.

Mi accarezzai il corpo con una mano per proseguire con il mio gioco crudele, lasciandolo annegare in una libido che non poteva soddisfare in quel momento. Arrivai a profilare il seno davanti ai suoi occhi attenti, ammaliata dal modo in cui si inumidì le labbra con la lingua. «Allora trattami come tale, Woodward. Descrivimi, senza avvicinarti né toccarmi. Fingi che io sia il tuo museo a cielo aperto».

Per ingannare il tempo, accettò la sfida: «Ogni tua forma sembra scolpita per suscitare quello che gli artisti chiamano "sublime": la manifestazione della bellezza nel suo livello più elevato, in grado di scatenare sensazioni indescrivibili» mormorò, roco, beandomi della ricchezza del suo lessico. Mi perforava con le pupille e mi cullava con le parole. «E lo stesso Fidia impallidirebbe alla perfezione di ogni singolo dettaglio del tuo corpo. Non riuscirebbe a replicare un tal valore».

«Mh...?» Con quel verso gutturale, cercai una conferma alle sue parole e lo invitai a proseguire. «C'è altro?» indagai.

«C'è un altro concetto che ti si addice, ed è quello di "euritmia", che si ottiene quando tutte le parti di un'opera d'arte sono in armonia fra loro» spiegò, alzandosi dalla seduta lignea della gondola per sporgersi in avanti. Inchiodò i palmi ai miei lati, schiacciando la gonna vaporosa, e si chinò verso il mio viso. Le punte dei nasi si sfioravano, e bruciava la voglia di unire le nostre labbra. «Non ho mai visto niente di più sublime e armonico di te, Daisy» soffiò a un millimetro dal mio viso, mentre mi perdevo nei ricami sulla sua maschera nera.

«Siamo arrivati, signori» ci informò all'improvviso il gondoliere, con un inglese dal forte accento italiano, una volta attraccato dinanzi l'imponente edificio di Ca' Rezzonico, nonché l'ennesimo capolavoro di quella città. «Vi auguro una buona serata».

Isaac scese per primo e replicò gli stessi movimenti della partenza: mi porse la mano e, con delicatezza, mi aiutò a scendere dell'imbarcazione.

Ca' Rezzonico dominava su di noi, tra l'ingresso popolato dagli invitati all'asta di beneficenza e i suoi fregi importanti. Si innalzava su Canal Grande con i suoi tre piani di balconi e finestre sormontate da decori in rilievo; tra esse, spiccavano delle massicce colonne che si fondevano perfettamente con la totalità dell'architettura. Il bianco conferiva eleganza e magnificenza a quest'ultima, che era come una pietra preziosa incastonata nel gioiello della Serenissima.

Eccola, l'euritmia. Isaac non aveva mentito: mozzava il fiato e non aveva bisogno di commenti.

Senza lasciarmi la mano, di cui accarezzava lievemente le nocche, mi condusse verso l'interno dell'edificio. Superammo gli addetti ai controlli degli inviti, anch'essi fasciati in livree eleganti, e mi accompagnò lungo il corridoio della struttura, che fiancheggiava diverse sale.

Sentivo il suo sguardo su di me, ma ero troppo impegnata a guardarmi intorno per intercettarlo. Mi stavo nutrendo di qualcosa di diverso, qualcosa che valeva la pena di essere visto e vissuto.

«Sai, è merito della fortuna e della bravura di ben due architetti, se questo posto è perfetto» dichiarò l'uomo mentre, a passo lento, seguivamo le indicazioni apposte per raggiungere il salone da ballo. Sapeva che pendevo dalle sue labbra, quando esordiva con una spiegazione, e in quell'occasione non fu diverso. «La famiglia veneziana Bon affidò la costruzione a Baldassarre Longhena, lo stesso che progettò la basilica di Santa Maria della Salute, ma che purtroppo morì prima di terminarla. Fu completata solo dopo che Giambattista Rezzonico, un nobile che acquistò l'edificio e da cui ne proviene il nome, assegnò i lavori a Giorgio Massari. Persino il salone in cui balleremo stasera è opera sua, ed è...» Il suo racconto sfociò nel silenzio e venne rimpiazzato dalla sorpresa di entrambi, quando varcammo la soglia della sala menzionata. «È senza precedenti».

Davanti a noi, la luce dei due immensi lampadari a candelabro si rifletteva sul pavimento lucido e riscaldava l'ambiente. Tre grandi finestre si affacciavano su Canal Grande, coperte tuttavia da pesanti drappi semitrasparenti che ne accentuavano la regalità. Tutt'intorno, un tripudio di bianco intervallato da grigio e ocra, a formare un intreccio che generava affreschi minuziosi e dettagliati. Figure mitologiche, angeli e finte colonne adornavano le pareti, sormontate da un prezioso fregio dorato.

Nell'angolo del salone, un'orchestra era già impegnata a suonare le sinfonie che avrebbero dettato, di lì a poco, il ritmo del ballo. La folla iniziava a gremirsi, ma il silenzio parve calare quando feci il mio ingresso e il vestito scintillò sotto la luce calda.

Isaac, in reazione, rinsaldò la presa attorno alla mia mano come se avesse voluto marcare il territorio e, al contempo, rendermi conscia della realtà. Tra abiti a tinta unita e di semplice fattura, era il mio a spiccare, e io con esso.

«Hai tutti gli occhi addosso» asserì, con un sussurro proferito al mio orecchio. «E te lo meriti, chérie. Non solo meriti di essere guardata, ma vista in tutta la bellezza che mostri e, soprattutto, in quella che nascondi».

Erano tante le verità che provavo a celare dal primo giorno, ma il suo carisma stava riuscendo a liberarle dalla cassaforte. Ogni volta che menzionava i miei segreti, non potevo evitare di rabbrividire.

Si divincolò dalla mia presa, stretta nella piega del gomito, e la sua mano scivolò fino ad afferrare la mia. Ne sfiorava le nocche con cortesia, esortandomi a seguirlo al centro della sala. La luce dei lampadari era una cascata dorata sul mio vestito, che attirò l'attenzione delle coppie danzanti e di quelle che si godevano lo spettacolo sul perimetro.

«Segui me» mi invitò, aprendo il palmo per attendere il mio. Lambire la sua pelle calda era ancora una sensazione onirica, oltre i confini della realtà tangibile. «A piccoli passi» mi ripeté come la sera precedente, abbassando la voce e lasciando che fosse lo sguardo, a parlare.

Le iridi azzurre perforavano la cupezza della maschera nera come pugnali incapaci, tuttavia, di fare del male. Mi accarezzavano con dolcezza e mi facevano sentire venerata.

Mi istruì, insegnandomi ogni movimento pacato del ballo. Con un passo si allontanava da me e con il successivo si riavvicinava; mi beava della sua presenza e lasciava un vuoto da colmare, una coreografia che riassumeva perfettamente le dinamiche del nostro rapporto.

Ci prendiamo e ci lasciamo andare, ma la tensione è così elastica e resistente da tenerci insieme. Nonostante l'odio, nonostante i pericoli.

Un filo che lui teneva stretto e con cui legava i nostri sguardi, ora inseparabili. Mentre volteggiavamo al centro del salone da ballo, senza toccare parti del corpo che non fossero le mani, seguivo le sue movenze sapienti e mi lasciavo ammaliare dalla delicatezza con cui mi accompagnava.

Quasi come se fossi stata un cristallo prezioso e fragile al contempo.

Persino la musica portava, con sé, una coltre onerosa, che aleggiava nell'aria e premeva sulle spalle dei presenti. Le note gravi e durature del violoncello erano in perfetta armonia con il pianoforte, e si sposavano in maniera incredibile con il lieve sottofondo degli altri strumenti ad arco. Un'orchestra di melodie che animava la sala e guidava le coppie in una danza intima e discreta.

Isaac, ormai al centro della mia attenzione, sembrava radicato in quell'atmosfera. La incarnava come nessun altro, nella stanza: portava con sé il grigiore del Regno Unito e la sua raffinatezza, graffiata dalla sregolatezza della periferia. Era cupo ma impeccabile, una nube nera interrotta da striature dorate.

La luce, glaciale e insistente, proveniva solo dalle sue algide iridi.

Un fascino incantatore che mi rubò un altro respiro nel momento in cui lui, coinvolto nel ritmo della musica classica, mi avvolse la vita con un braccio. Serrò la mano attorno al mio fianco, mentre il palmo libero restò a contatto con il mio.

Ci dividevano solo dei meri respiri in cui aleggiavano tutte le parole che eravamo incapaci di dirci. Lemmi che si spingevano ai limiti della moralità e della correttezza, in grado di infrangere ogni regola stabilita.

«Probabilmente riceverò le maledizioni peggiori» esordì, dedicandomi l'esclusiva di un sussurro roco, «ma sei bellissima stasera. E non sono i diamanti del tuo vestito, perché quelli non fanno altro che riflettere la tua luce» proseguì. Con flemma, le sue dita scivolarono tra le mie e formarono un'unione inscindibile. Legati da tocchi e sguardi. «Sei tu, Daisy. Tu e tutta la perfezione che non vedi».

Vacillai per il suo complimento e chinai appena il capo, ma la sua presenza era così magnetica da rapire di nuovo la mia attenzione. Fortuna volle che ci fosse la maschera, a celare la mia espressione incerta.

«Vorrei riuscire a rendermene conto» esalai in una confessione repentina.

«E io cercherò di mostrartela fin quando ne avrò la possibilità». Abbassò ancora di più il tono, avanzò di qualche centimetro e le nostre fronti collisero.

Le coppie impegnate a danzare erano aumentate e, nonostante le considerevoli dimensioni del salone, la situazione iniziava a essere stretta. Negli occhi di Isaac brillò un baluginio da cui trapelava il medesimo pensiero.

«Vuoi andare a prendere un po' d'aria?» propose con un sorrisetto complice.

Annuii con un cenno del capo e Isaac iniziò a destreggiarsi tra gli invitati al ballo, dirigendosi verso l'uscita della sala. Varcò la soglia sul retro senza lasciarmi la mano, voltandosi solo per concedermi un altro sorriso che mi mandò in tilt.

Fummo investiti da una fresca brezza marina e, abbracciata dal buio della notte, realizzai di trovarmi nei giardini di Ca' Rezzonico. La luna illuminava le siepi curate che delimitavano i viottoli ciottolati. Erano le cicale, ora, a cantare il tipico sottofondo estivo e un brivido di spensieratezza mi raddrizzò la spina dorsale.

Ero libera, con lui. Priva di obblighi e regole.

I miei passi furono automatici. Inizialmente lenti, si addentrarono nel parco poco illuminato e il mio sguardo vagò in ogni angolo. Gli alberi sul perimetro erano rigogliosi, e circondavano il giardino come delle mura protettive.

Un altro paio di suole impattò sui sassolini all'improvviso, così mi voltai per comprendere le intenzioni di Isaac. Era sempre più vicino a me, come se non fosse più in grado di mantenere le dovute distanze.

«Siamo soli, chérie» sussurrò senza nascondere la contentezza. «E sono stanco di dover ostentare una pacatezza che non mi appartiene» asserì. Nella notte, la maschera nera si fondeva con l'oscurità e le sue iridi brillavano al chiaro di luna, portatrici di un brillio famelico.

La mia voglia di giocare con i suoi impulsi cresceva di minuto in minuto. Gli scoccai un ghigno divertito, insieme a un'espressione arguta.

«Prima devi prendermi, Woodward» ridacchiai e, stringendo la gonna tra le dita per sollevarla, accelerai il passo per scappare scherzosamente da lui. I tacchi sprofondavano tra i ciottoli, ma l'abitudine a indossarli mi aiutò a non cadere.

Con la brezza tra i capelli e che disseminava pelle d'oca sulle braccia, mi chiesi dove fosse finito tutto il mio contegno. Non mi ero mai lasciata andare alla spensieratezza, a un istinto più trasgressivo o che richiamasse la libertà. Con Isaac, però, divenne un automatismo.

Quest'ultimo accettò la mia sfida senza farsi pregare e mi seguì. Ogni volta che le sue ampie falcate lo avvicinavano a me, mi scappava un risolino nervoso. Mi gettavo occhiate alle spalle per controllare dove si trovasse, ma ben presto il nostro gioco infantile fu interrotto: fui ostacolata da una panchina posta dinanzi a una siepe, quindi mi fermai con il fiatone.

«Presa» dichiarò Isaac vittorioso, cingendomi i fianchi con le mani.

Il suo petto collise con la mia schiena e lui mi fece voltare verso di sé; la distanza fu azzerata, e ci perdemmo nei giochi di luci e ombre dei nostri volti dovuti al chiaro di luna. Ci accarezzavamo il viso a vicenda con i respiri caldi e affannati, le pupille concatenate in un frangente irripetibile. Da ogni nostra azione trapelava brama e passione, desiderio e istinti animaleschi.

E l'inglese, senza consultare il raziocinio, soddisfò tutte quelle sensazioni.

Affondò il capo nell'incavo del mio collo nudo e iniziò a marchiarlo con una scia di baci umidi, spingendomi verso la panchina su cui mi invitò a sdraiarmi. La gonna ampia non fu d'aiuto, ma Isaac trovò il modo di sollevarla e sorreggersi con un ginocchio piegato tra le mie gambe.

Nel silenzio del giardino riecheggiarono solo i miei gemiti di piacere, fin quando lui non sollevò una mano per sciogliere il fiocco che teneva salda la mia maschera. Lasciò che mi scivolasse via dal viso, spogliando ogni mio lineamento.

«Sei più bella senza maschere, Daisy» dichiarò. Anch'io avrei voluto godermi il suo fascino, ma mi bloccò il polso nell'istante in cui provai a privarlo della sua. «Lascia che sia io a guardarti, per una volta» soffiò a un millimetro dalle mie labbra.

Fammi sentire il tuo sapore, lo pregò il mio cervello. Concedimi tutto di te, perché sai di qualcosa che non ho mai avuto.

Distesi le labbra in un sorriso e socchiusi le palpebre, godendomi il suo tocco mentre abbassava una spallina del vestito. «Non che mi dispiaccia...» mugolai.

Ottenuta la mia conferma, si rifiondò sul mio petto e seminò le sue tracce fino ai seni in parte scoperti. Ne baciò ogni centimetro, portandomi a provare un principio di estasi che formicolava all'altezza dell'inguine. I gemiti, tuttavia, sfociarono in un ringhio infastidito quando fummo interrotti dallo squillo del suo cellulare. All'inizio sembrò ignorarlo e continuò a dedicarsi a me, ma gli piantai i palmi sul petto per allontanarlo.

«Isaac...» ansimai, trafelata. «Rispondi, dai» lo esortai.

A malincuore e con un'espressione contrariata, si discostò da me e aprì la giacca dello smoking per estrarre il cellulare dal taschino interno. La seccatura si trasformò in un misto di preoccupazione e dubbio quando lesse il nome sullo schermo, e si affrettò a rispondere.

«Mamma» esordì in inglese, alzandosi definitivamente in piedi e lasciando la panchina. Senza allontanarsi troppo, passeggiò nel viottolo.

La donna rispose dall'altro capo della cornetta, ma nel silenzio udii dei meri riverberi metallici e non decifrai le parole. Per distrarmi, sistemai la gonna del vestito e mi alzai a sedere, lasciando la spallina cadente.

Isaac, dopo qualche secondo di silenzio, alzò lo sguardo per focalizzarsi su un punto del giardino. Nelle sue iridi, il luccichio era cambiato e tremolava.

«Sei andata al cimitero?» domandò, tentennante. La madre gli diede un'altra breve risposta e lui continuò: «Rose blu, sì» annuì con il capo. «Avrei voluto esserci» dichiarò, ma la voce si spezzò definitivamente e lui non si premurò di nascondersi. Sembrava che si fosse dimenticato della mia presenza. «Ti avrei chiamata prima, oggi, ma... Tutti questi impegni mi stanno sfiancando, e affrontarli con questo pensiero ossessivo è ancora peggio» ammise. Il mio sguardo era ora incollato alla sua figura, curioso di sapere di cosa stesse parlando e, al contempo, volenteroso di tenersene alla larga. Non erano affari miei, ma mi sentivo come se i suoi segreti fossero una calamita. «Mamma, non... non piangere, ti prego» la implorò, ormai sul ciglio di una crisi. Provò a mostrarsi forte, ma aveva voglia di sfogarsi e lo notai dalla lacrima che, ribelle, gli solcò la guancia. «Manca a tutti, lo sai, ma non vorrebbe che stessimo in questo modo» affermò a denti stretti, asciugandosi la gocciolina salata con il dorso della mano.

Dal cellulare provenirono alcuni singhiozzi metallici inframezzati da vocaboli incomprensibili, a cui Isaac non fece mancare una replica.

«Stai tranquilla, mamma» la rassicurò. «Riposati, ne hai bisogno. E se ti serve qualcosa, chiamami, va bene?» Trascorse un altro silente paio di secondi, poi Isaac riprese la parola. La sua voce era graffiata e spezzata, ma cercò di recuperare l'autocontrollo facendo sfarfallare le ciglia e concentrandosi sul cielo scuro. «Ti voglio bene anch'io» ricambiò una probabile dimostrazione d'affetto. «Buonanotte».

Le sue frasi furono rimpiazzate dal suono della telefonata riattaccata e dal silenzio che calò sul giardino. Lo guardai, con le mani abbandonate in grembo e lo sguardo preoccupato. Era la prima volta che lo vedevo così scosso e, quando si rivolse a me, sembrava remoto ed estraneo.

«Vuoi tornare in hotel?» domandò, freddo.

Io, però, non riuscii a rispondergli. La versione mesta e inquieta di lui mi aveva incuriosita a tal punto da necessitare delle spiegazioni.

«È tutto okay?» indagai, di conseguenza. «Chi... Di chi stavate parlando?»

Maledissi la mia lingua per non avere un freno.

«Non è niente, Desirée. Solo una questione di famiglia» ribatté, insistente. Si calmò però con un sospiro sommesso, che gli addolcì i lineamenti. «È una storia lunga» confessò in parte. Mi guardò negli occhi per qualche secondo senza distogliere l'attenzione, come se avessi smosso qualcosa in lui, ma le sue labbra si schiusero solo per mormorare: «Ne parliamo in camera, va bene?»

E io non potei che accettare.

✧✧✧

✧✧✧

Nota dell'autrice
Buongiorno amici e buon lunedì! <3
Oggi ho finalmente modo di inaugurare la settimana con un aggiornamento di AD. Sapere che siamo oltre la metà della storia è assurdo, com'è successo?
Sorpresa a parte, anche oggi abbiamo un capitolo interessante che, come avrete potuto notare dal finale, ci aprirà a un segreto fondamentale della vita di Isaac (e, a tal proposito, preparatevi a un flashback piuttosto crudo che sarà ambientato a Londra).
Ma concentriamoci sul capitolo di oggi: Desirée e Isaac approdano a Ca' Rezzonico per il ballo in maschera, ma ben presto attuano una fuga per rimanere da soli. La passione che intercorre tra i due è innegabile, ma non lasciatevi abbindolare: presto tutto questo idillio finirà e verrà sostituito da una parte molto buia della storia. Tempo al tempo.
Detto ciò, non mi resta che chiedervi la vostra opinione sul capitolo. Cosa ne pensate della nostra coppia? Come immaginate il loro futuro?
Ci vediamo nel prossimo capitolo! <3

IG & TikTok: zaystories_

✧✧✧

Note informative

Ca' Rezzonico, il salone da ballo e i giardini

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top