28. Nudité

Premessa:
In questo capitolo sarà in parte trattato il delicato argomento dei disturbi alimentari.
Se vi ritenete sensibili a questo argomento, vi invito a non leggere la scena del ristorante e di passare a quella successiva.
Nella nota autrice farò un breve riassunto.
Abbiate sempre cura di voi.
<3

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IT: nudità

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1 giugno 2023
Nizza, Francia

I raggi del sole, che ormai annunciavano l'estate, scaldavano l'asfalto della pista dell'aeroporto di Nizza in modo quasi insopportabile. Protessi gli occhi infastiditi con un paio di occhiali da sole, impegnato a guardarmi intorno.

Un van di servizio della Société Aubert aveva scortato me e Desirée fino al terminal dove il jet privato dei Woodward ci avrebbe atteso. Il velivolo stava scaldando il motore, prossimo al decollo in direzione del Marco Polo di Venezia, e sulla pista, oltre a me e alla monegasca, c'erano anche Kira e mia figlia.

Erin aveva insistito per accompagnarmi fino all'aeroporto, prima della partenza. Non appena aveva saputo della mia assenza di qualche giorno, non aveva accettato obiezioni. Era piccola, ma stava già plasmando un carattere deciso che l'avrebbe difesa dalle avversità.

«Signor Woodward, signorina Aubert, siamo pronti all'imbarco?» ci domandò cortesemente un'hostess, facendo capolino sulla soglia dell'aereo, in cima alla scala. Alzò la voce per sovrastare il frastuono dei motori già in azione.

«Ci conceda un paio di minuti» richiesi, ricambiando la gentilezza. Dopo aver ottenuto la sua approvazione, lasciai che Desirée attendesse alle mie spalle e mi avvicinai a mia figlia, la manina stretta in quella di Kira. La lasciò solo per corrermi incontro e farsi sollevare, per poi essere coinvolta in un tenero abbraccio. «Amore mio» mormorai, prima di stamparle un bacio sulla guancia morbida.

«Torni presto, vero?» indagò con la vocina flebile. Si distanziò con il capo di qualche centimetro, lasciando ciondolare i due codini in cui Kira le aveva acconciato i capelli ramati. «Non mi piace stare da sola», si imbronciò.

«Non sarai sola, ci sarà Kira» la rassicurai. «E sì, torno presto, piccola. Ti chiamerò ogni giorno» giurai. Per dimostrarglielo anche con i gesti, sollevai un mignolino tra noi. «Ti fidi di me?»

Lei mi strinse il dito con il suo, suggellando la promessa. «Sì, papà».

Le lasciai un altro bacio sulla testa, prima di porgerla a Kira. La donna mi sorrise gioviale, mettendo in evidenza le rughe dovute alla stanchezza.

«Se riuscissi a metterla in contatto anche con Giselle, in questi giorni, te ne sarei grato» le comunicai. «So che non è semplice a causa del fuso orario e degli impegni, ma ci tengo che senta anche sua madre» aggiunsi. Odiavo quando trasformavo le conversazioni in una lista di doveri, quindi smorzai l'espressione seria con un sorriso. «Scusa se ti sto ricoprendo di obblighi, prometto che a fine mese riceverai un extra» ridacchiai.

«Isaac» esordì, scuotendo il capo divertita. «Non voglio dei soldi in più. Tua figlia è un angelo, te lo dico sempre. Non mi causerà alcun tipo di problema» dichiarò.

Sollevato dalla sua affermazione, accarezzai la guancia di Erin per l'ultima volta prima della partenza e allargai il sorriso. «Fai la brava, mi raccomando».

Annuì con un verso gutturale e mi salutò con la mano, quando mi separai da lei. Dopo un paio di passi indietro, raggiunsi Desirée intenta ad aspettarmi accanto alle scale d'accesso al jet. Con le labbra che accennarono una curva dolce e un gesto della mano, anche lei dedicò un congedo alla bambina.

Era, tuttavia, più silenziosa del solito. Dopo gli avvenimenti spiacevoli della sera precedente al Jimmy'z, i pensieri sembravano turbarla ed era così assorta da chiudersi in un mutismo protettivo.

«Tratterai bene papà, vero?» chiese Erin all'improvviso, riempiendo il vuoto lasciato dalle nostre chiacchiere terminate.

Desirée, in tutta risposta, si lasciò sfuggire una risatina intenerita dalla richiesta. Mi scoccò anche un'occhiata, portatrice del sarcasmo che esternò poco dopo: «Ci proverò, ma a volte me lo rende difficile».

L'autista del van invitò Kira a raggiungerlo con la bambina, così le due raggiunsero il veicolo dopo l'ultimo saluto. Rimasto solo con Desirée, compii un'ulteriore manciata di passi che mi avvicinò alla scala.

«Dopo di te, Daisy» la invitai a precedermi, accompagnandola con un movimento della mano per indicare l'ingresso dell'aereo. «Fa' come se fossi a casa tua».

Mi ringraziò della cortesia con un sorriso accennato e iniziò a salire i gradini. La seguii finché entrambi non ci ritrovammo nella confortevole fusoliera. Lei si guardò intorno, rapita dall'eleganza delle poltrone in pelle beige e dai colori tenui che la circondavano. Permettendole di curiosare, mi sfilai la giacca e la addossai allo schienale di una delle sedute, mentre l'hostess si premurava di chiudere il portellone.

«È meraviglioso» commentò, voltandosi. Sul suo viso, ora, era comparsa un'espressione più serena, forse rilassata dall'imminente partenza. «Devo ammettere che voi Woodward avete buon gusto» aggiunse.

Si lasciò cadere con disinvoltura su una poltrona, accavallando le gambe e mettendo in mostra le décolleté basse nascoste dai lunghi pantaloni del tailleur color sabbia. Inchiodò un gomito sul tavolino di fronte a sé e gettò un'occhiata alla pista all'esterno.

Per quanto io cercassi di starle lontano per evitare di causarle ulteriori problemi – tra l'opinione di suo padre e la relazione con Valentin –, vederla ogni giorno rendeva l'impresa impossibile. Era una calamita per il mio sguardo: dalle curve che copriva con capi perfetti per valorizzarle alle fattezze del suo viso, non c'era una singola parte di me che non la ritenesse affascinante e pericolosamente sensuale come solo un divieto poteva essere.

Sapevo che i miei istinti mi avrebbero portato a giocarmi la carriera, pur di sfiorarla, bearmi del suo sapore e lasciarmi cullare dai suoi gemiti.

Scacciai le riflessioni solo per avvicinarmi a lei. Oltre all'attrazione che ormai non mi premuravo più di nascondere, consapevole che fosse ricambiata, nutrivo anche una sincera preoccupazione per le sue condizioni. Ero troppo sensibile a determinati argomenti per fingermi indifferente, benché lei tentasse in ogni modo di insabbiare l'accaduto e la disfunzionalità della sua relazione.

Spinto da quell'impulso e dai minuti che avevo a disposizione prima del decollo, le ravviai una ciocca di capelli dietro l'orecchio per scoprirle il collo. Era ancora arrossato per via della stretta esercitata da Valentin in discoteca, ma le ferite causate dalle unghie avevano smesso di sanguinare.

«Ti fa ancora male?» sospirai, lambendo la zona interessata con il pollice.

Distolse l'attenzione dal finestrino e la indirizzò a me. Schiuse le labbra carnose, nel concentrarsi sul mio viso, e tra le screziature verdi e marroni delle sue iridi comparve un brillio.

«No» mi assicurò, scuotendo il capo. «No, stai tranquillo».

Iniziando a percepire una vampata di calore nonostante l'aria condizionata, interruppi il nostro contatto per sbottonarmi la camicia. Proprio in quel momento, l'hostess si avvicinò con un sorriso e prese la parola in tono pacato.

«Il comandante ci teneva che vi informassi dell'imminente decollo» ci comunicò. «Vi invito a impostare la modalità aereo sui vostri dispositivi e ad allacciare le cinture di sicurezza».

La ringraziai con un sorriso e occupai la poltrona di fronte a Desirée. Allacciammo le cinture contemporaneamente, quindi impostammo la modalità aereo sui cellulari come richiesto. Rialzando lo sguardo, tuttavia, notai che la serenità era di nuovo sparita dal viso della monegasca. Liberò un sospiro, torturandosi le unghie laccate di bianco.

«Stai bene, Daisy?» le propinai un altro quesito. Era stata irrequieta fin dal nostro incontro, quella mattina, e i cambi d'umore che manifestava erano repentini. D'un tratto, fu evidente che il problema non fosse solo Valentin.

Il silenzio perdurò anche durante le procedure di decollo, mentre il jet si allineava sulla pista e il pilota iniziava ad accelerare per alzarlo in volo. A ogni metro conquistato, prima del distacco dalla terraferma, l'agitazione di Desirée aumentava esponenzialmente.

«Desirée, non dirmi che...» esordii, sorpreso dalla mia stessa ipotesi. «Sei mai salita su un aereo, prima d'ora?» curiosai.

Nervosa e incapace di proferire verbo, scosse il capo. Socchiuse persino le palpebre, rifiutandosi di guardare ciò che accadeva oltre il finestrino.

Era una verità difficile da credere. Pensavo che suo padre l'avesse abituata agli spostamenti fin da piccola, a causa del suo lavoro, ma evidentemente mi sbagliavo. La ragazza aveva superato poche volte i confini del Principato e l'aveva fatto solo per stretta necessità.

«E se... Se perdesse quota? Se precipitasse?» farneticò. «No, no, no... Voglio scendere».

Un impulso di empatia mi indusse ad allungare la mano per sfiorare il suo polso. Così facendo, riuscii ad afferrare la sua per appoggiarla sul tavolino che ci separava. La accarezzai con movimenti dolci e lenti, sperando che il mio calore le infondesse la calma perduta.

«Guardami, Daisy» la esortai. Si sforzò di riaprire gli occhi proprio quando l'aereo spiccò il volo; sussultò, nel percepire l'improvviso vuoto d'aria, ma inchiodò le pupille alle mie. «Va tutto bene. L'aereo non cadrà, credimi» la rassicurai, nascondendo un risolino divertito dalla sua tragica immaginazione. «Tra poco raggiungeremo la quota di crociera e non ci penserai più. Fidati di me, è solo questione di qualche minuto».

Lei, però, continuò a scuotere il capo. «Non voglio morire» si disperò.

«Daisy» ridacchiai, intensificando le carezze sul dorso della sua mano. «Non morirai. Devi visitare la Serenissima e la Ville Lumière con il sottoscritto, prima di farlo» sdrammatizzai per distrarla.

Stando allo scherzo, roteò gli occhi al cielo. «Che onore» ironizzò.

Nonostante fosse ancora scossa da un lieve tremore, l'agitazione parve scemare e, piano piano, sfumò nella tranquillità. Nel frattempo raggiungemmo la quota di crociera, il velivolo si stabilizzò e lo sguardo della ragazza fu rapito dalla volta celeste.

«Visto? È bastato un minimo sforzo, per calmarti» dichiarai.

Eppure, non rispose. Era impegnata a guardare il cielo e le piccole nubi che l'aereo fendeva, chilometro dopo chilometro. «È stupendo...» commentò, sbirciando anche il territorio italiano che si estendeva sotto di noi.

Vederla sorpresa, e non più intrappolata nell'altissima considerazione di se stessa che la presentava come invincibile, mi portò sempre più a fondo nella sua anima di segreti reconditi e verità celate. Teneva per sé una curiosità pressoché bambina, insieme all'innata capacità di rimanere attonita dinanzi a spettacoli mai visti prima.

E, mentre elogiava la vista dall'alto, io non riuscii a notare quest'ultima. Il mio sguardo era incollato a lei, al piccolo sorriso che le spuntò, alle nostre mani che non si separarono per un singolo minuto del volo.

«Già» convenni, ma non fui certo di star riferendomi al paesaggio.

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Dopo l'atterraggio al Marco Polo e le procedure burocratiche, io e Desirée riuscimmo finalmente a respirare l'aria della Serenissima. Sulla città splendeva il sole, che ammantava architettura e monumenti di quel concentrato d'arte.

Era la prima volta in Italia per entrambi, ma non avemmo il tempo di perlustrare i dintorni. Per arrivare al Gritti Palace, sulla sponda di Canal Grande, ci aspettò un tragitto di un'ora – tra un van che ci accompagnò alla zona lagunare e un motoscafo che ci permise di attraversarla. Giunti all'hotel, un facchino si premurò di recapitare i nostri bagagli alla stanza che ci era stata assegnata: la camera Landmark.

Quando vi entrammo, dopo aver salito le rampe di scale dell'edificio storico, entrambi rimanemmo con il fiato mozzato.

«Dio...» sibilò Desirée, alla vista degli arredi raffinati.

Tra le pareti azzurre dal motivo damascato, il blu reale del letto e dei divani e gli specchi dalla cornice dorata che conferivano ampiezza e luminosità alla stanza, concordai con la sua esclamazione di sorpresa. Il mobilio era antico seppur restaurato alla perfezione, e attorniava una portafinestra che affacciava su Canal Grande e sulla suggestiva basilica di Santa Maria della Salute. Era un capolavoro incastonato in un tesoro dall'inestimabile valore storico, esattamente come l'intera città.

La ragazza, con lo sguardo intento a catturare ogni dettaglio, si voltò verso di me e sfoggiò un sorriso tra il contento e il soddisfatto. Era circondata dal lusso che la appagava e a cui era stata abituata fin da piccola: ritrovarsi nel suo habitat, benché lontana da casa, fu per lei una consolazione.

«Chiunque abbia prenotato per noi» premise, «ha un ottimo gusto». Dopo la constatazione, compì una breve piroetta sui tacchi e additò la vasca da bagno posta in un angolo della camera, dinanzi a un separé a specchio che rifletteva l'intero ambiente. «Soprattutto per quella» constatò.

Sul mio viso si formò un ghigno, frutto dell'inevitabile pensiero del suo corpo in bella vista davanti a me, proprio in quella vasca. Tuttavia, lo soppressi per riacquisire un'espressione seria e mi sfilai la giacca, abbandonandola sul letto.

«È stupenda, non ho nulla da aggiungere» commentai. Per rilassarmi in seguito al viaggio, mi lasciai cadere sulla poltrona in pelle blu dinanzi alla finestra. Il paesaggio che si estendeva all'esterno era senza pari; il dolce dondolio delle gondole sull'acqua rilassava solo a guardarlo. «Non mi sembra vero di essere in una città come Venezia» aggiunsi, sfilando il cellulare dalla tasca del pantalone. «A proposito: cos'hai detto alla tua dolce metà per evitare che distruggesse il Principato, quando ha saputo che saresti partita?»

Fece spallucce, fingendosi indifferente per glissare sulla questione. «Mi sono inventata che fosse per conto dell'azienda» spiegò. «E non gli ho detto che ci saresti stato anche tu, ovviamente» aggiunse, nonostante fosse prevedibile.

Il suo sguardo si smarrì oltre la finestra, catturato dalla quiete veneziana. Non lo indirizzò mai a me, benché sedessi a meno di un metro da lei. Così, per non farla sentire sotto pressione, scrollai alcune pagine social sul display del cellulare.

Recedendo di un passo, si abbandonò sul materasso e adagiò le mani sulle cosce. «Possiamo evitare di parlare di lui, finché non faremo ritorno a Monaco?» domandò, attirando la mia attenzione. «Per favore» mi implorò.

Al contrario delle prime settimane trascorse in sua compagnia, non si preoccupò di fingere di stare bene. Il tono con cui parlava era fiacco; per quanto il suo atteggiamento fosse strano, le mancava persino la spocchia.

Addolcii i lineamenti e la voce, prima di riprendere la parola. Se non voleva discutere dei problemi della sua relazione, non mi sarei intromesso nemmeno se costretto. «Sta' tranquilla, Daisy» la rassicurai. «Abbiamo altro a cui pensare e lui non è nella lista».

Non commentò, ma liberò un sospiro di sollievo e rilassò i muscoli tesi. Vederla irrigidita nonostante si trovasse lontana da casa mi dispiaceva, quindi decisi di tergiversare.

«Pensando a cose più piacevoli, dovremmo decidere dove cenare stasera» le comunicai. «Preferisci uscire o ti accontenti di restare in hotel?»

In risposta, si lasciò cadere all'indietro sul letto, lo sguardo rivolto al soffitto ligneo e un accenno di sorriso sincero, cullata dalla comodità del materasso. «Restare qui non mi dispiacerebbe...»

«L'hotel propone il Club del Doge» replicai di conseguenza, consultando il sito della struttura sul cellulare. «È proprio nelle tue corde: dress code formale, oro in ogni angolo...»

Mi lanciò un'occhiata curiosa e si alzò appena, sorreggendo il peso del capo sul braccio inchiodato al letto. «Voglio vederlo» dichiarò, e io voltai lo schermo nella sua direzione per accontentarla. Sul suo viso comparve un sorriso compiaciuto. «Approvo, Woodward».

«Affare fatto. Prenoterò un tavolo con vista su Canal Grande» asserii, selezionando il contatto telefonico del ristorante.

Prima di avviare la telefonata, mi alzai dalla poltrona e prelevai il pacchetto di sigarette dal taschino della giacca abbandonata sul letto. Dopo averne sfilato una, spalancai la portafinestra per godermi il paesaggio dal piccolo balcone della stanza e rilassarmi dopo il viaggio.

Desirée ne approfittò per fare altrettanto, cullata dal silenzio mentre io mi accingevo a contattare il ristorante per prenotare il nostro tavolo.

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Il sole aveva concesso alle sfumature del tramonto di rivestire la Serenissima, regalandole uno sfondo ineguagliabile tra l'aranciato e il rosato interrotto solo dagli edifici antichi e la basilica già illuminata per la serata.

Mi godei quella vista riflessa nello specchio mentre, concentrato, mi sistemavo il nodo della cravatta. Avevo optato per un semplice completo nero e, per completare il look, mi inumidii il collo con un paio di spruzzi del profumo che prediligevo per la sera.

Si prospettava una cena quieta e raffinata, un'occasione per trascorrere del tempo con la mia rivale in affari fuori dal campo di battaglia. Ci saremmo goduti un pasto pregiato dinanzi a un tipico paesaggio veneziano, con i crucci abbandonati tra i confini del Principato.

Una tranquillità che, però, si interruppe nel momento in cui Desirée uscì dal bagno per varcare la soglia della zona letto. Il mio sguardo non poté che atterrare su di lei e godersi tutti i particolari della sua perfezione innata. Era così impeccabile, così attraente che avrei cancellato ogni impegno per restare in camera con lei e venerare le sue forme.

Con le dolci curve fasciate in un elegante abito drappeggiato color crema, le spalline abbellite da un dettaglio dorato e la schiena in parte scoperta, sembrava scesa dall'Olimpo greco per donarmi quella vista. I gioielli che indossava creavano una preziosa cascata d'oro sulla carnagione olivastra, la stessa accarezzata dai capelli ondulati.

I miei occhi, però, non captarono solo l'impeccabilità di cui era solita abbigliarsi. Per quanto affascinante, la repulsione nei confronti del cibo che avevo notato in più occasioni cominciava a manifestarsi sul suo corpo. Non potei non accorgermi delle ossa sporgenti, quando si voltò per recuperare una pochette, e del modo in cui la spina dorsale era evidenziata dalla magrezza. Più delle altre volte, quella sera mi sarei accertato che mangiasse e non saltasse il pasto.

Afferrata la borsetta, si girò per dedicarmi la sua attenzione. Si accinse a schiudere la bocca per prendere la parola, ma, rendendosi conto di essere il bersaglio del mio sguardo, glissò e arcuò le labbra lucide in un ghigno.

«Mi consumerai, se continui a guardarmi così» mi avvertì, divertita e visibilmente lusingata. Compì una manciata di passi sulle décolleté verniciate in tinta con il vestito, sostituendo il silenzio con il suo ticchettio. Le pupille, prima incollate al mio viso, scesero sul nodo della cravatta, su cui presto piombarono anche le sue mani. «E faresti meglio a non distrarti, sai? Il dress code non sarebbe d'accordo con questo nodo penoso» dichiarò, sistemandolo.

Anche sul mio viso si dipinse un sorriso dilettato dalla sua affermazione. Ancora rapito dalla sua bellezza, mi schiarii la voce. «L'avrei rifatto da solo» ammisi, prima di lambirle i capelli con un dito e portarglieli dietro alla spalla seminuda, «se tu non fossi comparsa in questo modo all'improvviso».

Fui schietto, incurante di nascondere l'attrazione che mi legava a lei. Non si trattava più di una mera relazione professionale: la tensione ci aveva resi inseparabili, due entità che si bramavano come magneti e che si sforzavano di mantenere le distanze.

Eppure, pensai, non sarebbe sorto alcun problema, lontano dai riflettori.

La curva delle sue labbra si ampliò, lasciva. «Come, Woodward...?» sibilò, e un passo le concesse di azzerare i centimetri che ci dividevano. Il suo seno mi sfiorò il petto. Dannati strati di stoffa che ci separavano, imprecai, vittima di un'erezione. «Sono curiosa».

«Come se mi stessi chiedendo di sfiorare ogni millimetro di te...» sussurrai, roco, portando la mano sul suo fianco. Sporgendomi in avanti, le solleticai il lobo dell'orecchio con il labbro e inspirai il suo profumo sensuale. «Di esplorarti, di conoscerti oltre ciò che già so...»

Mi inchiodò i palmi sul petto ed esercitò una leggera spinta per farmi arretrare. Non voleva rifiutarmi, come mi comunicarono i suoi occhi abbelliti da un luccichio, bensì voleva prendere il controllo sulla situazione.

«Non sarò io a impedirtelo» convenne, prima di obiettare. «Non ti vieterò di farmi sentire come quel giorno, ma tutto questo deve finire quando torneremo a Monaco» sentenziò prima di far scivolare via le mani.

Solo cinque giorni per approfondire il legame intimo e voluttuoso che ci univa.

Fu ciò che mi concesse, lasciandomi attonito. Tuttavia, non manifestai la sorpresa e mi dimostrai d'accordo con la sua volontà. «Il tempo sarà più che sufficiente» asserii, lasciando il suo fianco. Gettando un'ultima occhiata allo specchio, sistemai il bavero della giacca dello smoking, per poi tornare a guardarla. «Sei pronta? Possiamo andare?» le domandai.

La ragazza annuì con un cenno del capo e ravviò i capelli con le dita. Insieme, quindi, varcammo la soglia della stanza dinanzi a cui mi fermai.

Piegando il gomito, le offrii un appoggio. Un'ottima scusa per lasciar trapelare quanto fossi dipendente dal suo tocco, ormai. «Mi concedi questa cortesia, Daisy?» le chiesi, scoccandole un'occhiata eloquente che lei ricambiò.

«Ti concedo questo e un'altra tregua temporanea» accettò, sfiorandomi il braccio con la mano. «Ma non ho ancora dimenticato il motivo per cui siamo insieme. Non basterà una manciata di carinerie per farmi desistere» precisò.

«Tranquilla, chérie» replicai, la lingua schioccò sul palato. «È proprio questo che mi piace di te».

Ammaliata dalla mia affermazione, liquidò la conversazione con un ghigno e ci recammo finalmente al piano terra dell'hotel per raggiungere il ristorante.

Il Club del Doge, come anticipato dalle fotografie viste durante la giornata, era un tripudio d'oro e stoffe raffinate, dalle tende spesse che abbellivano le finestre alle tovaglie stese sui tavoli. Le luci calde e soffuse illuminavano l'ambiente lussuoso e una melodia rilassante suonava in sottofondo, ammaliando i clienti che si godevano le pietanze tipiche veneziane circondati da un arredamento che richiamava il Barocco.

«Buonasera» ci accolse, cordiale, lo steward di sala in livrea elegante, profondendosi in una leggera riverenza di benvenuto. «Avevate riservato un tavolo?» ci domandò.

«A nome Woodward» risposi nell'immediato.

Diede una rapida occhiata alla lista delle prenotazioni e, trovando la nostra, riprese la parola: «Prego» ci invitò a seguirlo, dunque iniziò ad avventurarsi nella sala del ristorante. Nelle mani, ora, stringeva due menù rilegati.

Io e Desirée ci accodammo a lui, fin quando non si fermò per indicarci un tavolo per due dinanzi a una finestra. La vista era incredibile: gettava su Canal Grande, quasi a filo della superficie dell'acqua, e la basilica ne era la protagonista assoluta. Stagliata sul blu notturno, era illuminata da una luce calda e suggestiva che ne evidenziava i dettagli architettonici.

«Ecco a voi» declamò, adagiando i menù sulla superficie del tavolo. Ci congedò, quindi, prima di tornare alla sua postazione.

In un gesto spontaneo, spostai all'indietro la sedia di Desirée per permetterle di accomodarsi. Mi ringraziò con l'accenno di un sorriso e, mentre iniziò a leggere la lista delle portate, io occupai il mio posto.

Desirée, poi, si distrasse dalla consultazione del menù; inchiodò un gomito sul tavolo e sorresse il capo sul pugno chiuso, godendosi la vista dalla finestra.

«Sembrerei troppo viziata e presuntuosa, se ti dicessi che non mi ispira nulla?» domandò, il quesito seguito da un sorrisetto di circostanza.

Preoccupato dalla sua affermazione, le lanciai subito un'occhiata. Nonostante ritenessi che il suo corpo fosse mozzafiato, non potevo negare che la magrezza iniziasse a manifestarsi. Nelle ultime settimane, durante i pasti che avevamo condiviso, avevo persino notato la sua propensione al digiuno e la debolezza.

Che fosse il frutto delle infinite pressioni a cui era sottoposta?

«Sei sicura?» le chiesi, afferrando l'altro menù. Lo aprii e, per non metterla in soggezione, distolsi l'attenzione dalla sua figura per leggere le descrizioni delle pietanze. «Non sembra così male» commentai nel tentativo di convincerla. «Vuoi che scelga io? Ti fideresti?» la sfidai scherzosamente, al fine di sdrammatizzare.

Il suo sorriso scomparve, sfociando in un'espressione corrucciata. «Isaac, non...»

«Sei vegetariana, giusto?» la interruppi, gli occhi che continuavano a scorrere sul foglio. Lei annuì senza ribattere e, una volta scelto anche il mio piatto, chiusi il menù. «Lascia che ti sorprenda» aggiunsi.

La leggerezza aveva lasciato spazio a un'aria grave e la ragazza, pensierosa, si torturò i palmi delle mani. Il suo sguardo, perso sul canale e sulle gondole che vi transitavano, non incrociò mai il mio.

Non riuscii, però, a intavolare una conversazione per alleggerire l'atmosfera, perché un cameriere si avvicinò al tavolo per prendere le ordinazioni. Prendendo l'iniziativa, gli comunicai le portate scelte e lui si dileguò.

Tra me e Desirée si era creata una tensione spiacevole, che ci allontanava e annullava tutti i progressi fatti. Eravamo tornati, in quell'arco di tempo, alla fredda relazione professionale che ci univa prima di cedere all'attrazione.

«Daisy» la richiamai, addolcendo il tono. Si ridestò e mi scoccò un'occhiata vacua. «C'è qualcosa che non va?» curiosai con sincero interesse.

Scosse il capo in un cenno di diniego, tornando ad analizzare il panorama. «Stavo solo pensando a quanto sia bella questa città» confessò. «Non abbiamo visto quasi nulla, ma guarda...» mormorò, indicando la basilica illuminata. «Non credi che sia un capolavoro?»

Il suo repentino cambio di argomento mi spiazzò, ma al contempo risvegliò uno dei miei interessi più remoti: insieme al disegno, l'arte in ogni sua forma. Accennai un sorriso lieto e presi la parola.

«Basilica di Santa Maria della Salute» esordii, attirando la sua attenzione. All'improvviso, pendette dalle mie labbra e attese che la spiegazione continuasse. «È stata realizzata a partire dal 1631 da Baldassarre Longhena che, da bravo veneziano, si è attenuto ai modelli di Andrea Palladio» spiegai, gesticolando con concitazione. Desirée, tuttavia, mi lanciò uno sguardo confuso. «È uno dei più importanti architetti italiani del Barocco, un po' come Garnier in Francia».

Animata dall'interesse, era ancora più affascinante. Negli occhi era tornato un brillio sincero, che le abbelliva le iridi e donava al suo viso il colorito perduto. Le guance si tinsero di una lieve sfumatura rosea.

«Inizio a pensare che il Barocco sia lo stile che mi si addice di più» commentò con una risatina.

«Quanto a esagerazione ed esibizionismo, direi di sì» convenni.

La conversazione si interruppe quando il cameriere tornò, servendoci i rispettivi ordini: davanti a Desirée, il piatto di ravioli vegetariani per cui avevo optato. Il ragazzo, poi, riempì i nostri due calici con del vino rosso pregiato, prima di lasciarci con l'augurio di una buona cena.

«Posso sapere cos'hai scelto a mia insaputa?» indagò Desirée. Invece di gustarsi il primo boccone, piluccò nel piatto con la forchetta, in attesa di una risposta. «Non ho molta fame» ammise, quindi, arricciando le labbra.

Evitò di instaurare un contatto visivo con me, benché fossi il suo interlocutore, per non rischiare di cedere alla vulnerabilità. Sapevo che nascondeva quest'ultima, conservandola sotto la sua armatura oltre cui, ormai, riuscivo a vederla.

«Provali, dai» la incalzai. «Sono buoni, posso assicurartelo».

Eppure, non ci fu modo di convincerla. Scosse il capo e lasciò cadere la forchetta contro la ceramica del piatto, in un sonoro tintinnio soffocato solo dalla musica strumentale in sottofondo. «Non credo nemmeno che mi piacciano» sentenziò.

Stava occultando una sofferenza dietro delle scuse insulse e l'empatia, sfuggendo al mio controllo, si fece viva. Lasciai la mia forchetta e afferrai la sua, dividendo un raviolo a metà e avvicinandomelo alle labbra.

«Lo provo prima io, va bene?» proposi. Dall'espressione sembrava tutto fuorché d'accordo, ma non obiettò. Così, mi portai il boccone alle labbra e lo assaggiai. «È delizioso» commentai piacevolmente sorpreso, una volta ingerito.

Pareva che avesse davvero paura di addentare una mera briciola della pietanza. Non si espresse nemmeno circa il mio gesto e io, arreso, le restituii la forchetta.

C'era solo un'ultima carta che potevo giocarmi, ed era quella della compassione. Accorgendomi della sua mano abbandonata distrattamente sul tavolo, allungai la mia per afferrarla e carezzarne il dorso, nella speranza che i miei sfioramenti potessero acquietare i suoi timori.

Per la prima volta durante la cena, chinò il capo e sospirò. Un barlume di cedimento la scosse e le impedì di proferire parola, quindi ne approfittai.

«Qual è il problema, Daisy?» la interrogai, il tono comprensivo. I miei occhi erano ormai incollati al suo viso, incapaci di separarsene e bramosi di informazioni.

Dopo un secondo sospirò, la ragazza risollevò il capo e ricambiò le mie attenzioni. Nelle sclere, un luccichio che non passò inosservato e mi allarmò.

«Céline vuole che il mio corpo sia perfetto, ne abbiamo già parlato» mi ricordò. «Non posso deluderla, Isaac. Lo sta facendo per l'immagine dell'azienda». Con un gesto brusco, si ritrasse alla mia carezza.

Portava, sul volto, le ferite che quella paranoia le stava causando. Piccoli tagli dolorosi che mascherava con invisibili cerotti di perfezione, la sofferenza che veniva incamerata nello sguardo e nel velo di lacrime che le affogava le iridi.

Conoscevo bene la pressione della nostra posizione. Stretti tra le barriere di realtà rigide, nonché di indistruttibili colossi imprenditoriali, non potevamo ribellarci. La catena si sarebbe rotta solo con un atto di vera trasgressione che nessuno dei due avrebbe compiuto. Le aspettative altrui erano troppo importanti, per non soddisfarle.

E a lei, sotto la sua patina di autostima, importava più di qualsiasi altra cosa.

«Premettendo che hai un fisico invidiabile» cominciai a risponderle, «devi capire che non ti serve questo per il bene dell'azienda» asserii. Come due calamite, i miei occhi attirarono i suoi. «Per quanto tu sia bella, Desirée, nel mondo imprenditoriale ci vuole ben altro. Hai bisogno di una spiccata intelligenza e sono certo che tu ce l'abbia. Lo vedo giorno dopo giorno» le assicurai. La mia si trasformò in una serie di lodi nei suoi confronti, che lei ascoltò in religioso silenzio. «Sei astuta, strategica e competente. Persino tuo padre, che è il capo di tutto il vostro impero, parla così di te». Nel dirlo, la vulnerabilità mi investì. Avrei tanto voluto che il mio avesse pensato lo stesso di me. Mi obbligai a scacciare il groppo alla gola e conclusi. «E Céline ti sta riempiendo la testa di cazzate».

Si ritrovò spiazzata dalle mie parole e non replicò. La verità l'aveva paralizzata, congelandola in un mutismo strano, per lei che aveva sempre la risposta pronta. Si limitò a distogliere lo sguardo e a puntarlo sulla mia mano che, inerme, attendeva di riprendere la sua. Una stretta che non arrivò, così ripresi a parlare.

«Non puoi rischiare di stare male perché loro vogliono giocare con la tua immagine» sentenziai, abbassando la voce per non attirare l'attenzione degli altri clienti. «Se si fidano solo di questo, significa che non credono in te, ma sono sicuro che tu abbia tutte le carte in tavola per dimostrare quanto sei portata per ciò che ti aspetta». Stanco di aspettare la sua iniziativa, tornai a far intrecciare le nostre dita. Un gesto privo di connotazioni romantiche, una mera dimostrazione di comprensione. «Ora fai uno sforzo e mangia un pochino, Daisy. A piccoli passi» la invogliai.

Mi lasciò attonito quando, senza spezzare il nostro contatto fisico, afferrò la forchetta con la mano libera e assaggiò il primo boccone della serata. I piatti erano ormai tiepidi, ma se lo gustò come se fosse stato il primo pasto completo dopo giorni. Lenta, quasi ne fosse stata ancora terrorizzata, e mi guardò dopo averlo ingerito.

«Avevi ragione» mi concesse, «è buono».

Accennando un sorriso fiero, non le staccai gli occhi di dosso. «A piccoli passi» ribadii.

La cena proseguì per una buona mezz'ora. Con calma, consumammo entrambi i piatti senza intavolare grandi conversazioni. Desirée si sforzò di mangiarne il più possibile, e lo fece senza lasciare la mia mano. Non voleva superare quell'ostacolo in solitudine: mi stringeva come se, quella sera, io fossi l'unico modo di affrontare un timore che covava dentro da tempo.

A malincuore, ci separammo solo quando il cameriere ci portò il conto, a fine pasto. Dopo aver pagato, tornai ad attenzionare la monegasca.

«Torniamo in camera?» le domandai, ricevendo il suo assenso.

Uscimmo dal ristorante proprio come vi eravamo entrati all'inizio della cena: la sua mano che mi stringeva il braccio, io che mi godevo il suo tocco. Un contatto che sperai fosse eterno mentre risalivamo le scale dell'antico edificio, ma che si spezzò non appena entrammo nella stanza. Desirée, cauta, si separò da me per avvicinarsi ai suoi bagagli sistemati in un angolo della stanza, privandomi del pensiero dello scambio di carezze e sfioramenti che il mio inconscio bramava per la notte imminente.

Rispettai la sua volontà di quiete dopo la serata turbolenta ed estrassi il pacchetto di sigarette dalla tasca interna della giacca. Presi un filtro tra le labbra, pronto a concedermi qualche minuto di tranquillità tra la vista di Canal Grande e il tabacco.

«Vado a fumare una sigaretta» annunciai, rendendomi conto della mia disperata ricerca di attenzione da parte sua.

Annuì con un verso gutturale, intenta a tirare fuori la sua mise da notte dalla valigia. Le dedicai un ultimo sguardo, prima di aprire e superare la portafinestra e godermi la brezza serale sul balcone. Con l'accendino, bruciai l'estremità della sigaretta e mi concentrai sul paesaggio. Tra le gondole che danzavano sull'acqua e i gondolieri che intonavano le tipiche barcarole veneziane, mi rilassai a ogni tiro e mi concentrai sui miei pensieri.

Stavo trascorrendo troppo tempo in compagnia di Desirée, per non desiderarla ogni volta che i miei occhi realizzavano la sua presenza. Tutto ciò che riuscivo a immaginare erano le mie mani impegnate nell'esplorazione della sua pelle olivastra, le dita che si perdevano nella morbidezza delle sue curve, profilandole in un atto di estrema perdizione. Mi aveva catturato, tra determinazione e sensualità, in un uragano che portava il suo nome.

La sigaretta, tuttavia, non durò abbastanza per portare a termine le riflessioni. Abbandonai il mozzicone nel posacenere e, sfilando alcuni bottoni della giacca dalle asole per un'improvvisa vampata di calore, rientrai nella stanza.

Nemmeno la visuale che mi si parò davanti riuscì a distrarmi.

Colsi Desirée in flagrante mentre lasciava che il vestito le scivolasse lungo il corpo, accartocciandosi sul pavimento; era in piedi, il corpo snello ora nudo, davanti alla vasca da cui traboccava la schiuma.

Mi irrigidii, nel vederla, e lei se ne accorse lanciandomi un'occhiata lasciva. Accompagnata da un ghigno eloquente, si immerse nell'acqua con movimenti flemmatici che spensero del tutto la mia razionalità. In me, prese a rimontare solo un istinto famelico che avevo l'urgenza di soddisfare.

Non smise di guardarmi neanche una volta stesa nella vasca. Anch'io ero una calamita per lei, ma, invece di palesarlo, si divertì a giocare con le mie sensazioni incontenibili.

«Non vuoi riposarti?» ammiccò, indicando il letto. Il suo era stato un repentino cambio d'umore, probabilmente frutto del magnetismo che ci univa, ma anche della necessità di distrarsi dopo la cena. «È stata una lunga giornata».

«E ancora non è finita» riflettei, compiendo passi lenti senza distogliere l'attenzione dalla sua figura. Invaghito, mi lasciai cadere sul materasso di fronte a lei.

Con i capelli raccolti in una crocchia improvvisata e la schiuma bianca in contrasto con la pelle ambrata, incarnava tutta la mia cupidigia. Le bastarono pochi minuti per farmi dimenticare di ogni cruccio e per spingermi, ancora una volta, sul ciglio del baratro che divideva moralità e impulsività. Con le dita, poi, si sfiorò la guancia per ravviare una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

«Tu disegni, giusto?» mi chiese, accarezzandosi la cute fino alle spalle per distribuire il sapone. Con quella domanda, riesumò il ricordo dell'estrema vicinanza che ci aveva uniti, per inganno, durante la conferenza al One Monte-Carlo. Annuii, ignaro delle sue intenzioni. «Stavo pensando... Ti andrebbe di farmi un ritratto?»

Quel quesito mi spiazzò. Notando il mio silenzio e le labbra schiuse per la sorpresa, quindi, lei si affrettò a fornirmi una spiegazione esaustiva.

«Non mi capiterà mai più di essere a Venezia, nella vasca di una stanza che affaccia su Canal Grande...» rifletté. «È un momento che merita di essere impresso nel tempo, no?»

Mi dimostrai d'accordo con lei tramite un cenno del capo. «Ogni tuo desiderio è un ordine, mia Daisy» la lusingai, incapace di negarle un sì.

Succube del suo potere da sirena incantatrice, mi sporsi verso l'antico scrittoio posto di fronte al letto, dove i dipendenti avevano messo a disposizione degli ospiti dei fogli e delle matite. Approfittai anche di un bloc-notes che riportava la filigrana dell'hotel per avere una superficie rigida su cui appoggiarmi.

Tornando a sedermi davanti a lei, in una posizione comoda, iniziai a studiare i particolari del suo corpo. Era magro ma sinuoso, i seni pieni che sbucavano a metà dalla superficie dell'acqua, per poi lasciare la nudità nascosta dalla schiuma densa. Ogni suo lineamento era sinonimo di perfezione, come se fosse stata scolpita ad arte prima di diventare la musa ispiratrice del mio nuovo disegno.

Anche lei, dal canto suo, stava analizzando le mie azioni. Era ancorata ai miei movimenti, in attesa di istruzioni per migliorare la resa del ritratto.

«Mettiti di profilo...» le consigliai, cosicché lei ruotasse il capo.

I lineamenti femminei del viso si fecero dunque più evidenti, accentuati anche dal riflesso del separé specchiato che si ergeva dietro alla vasca. Mi stava concedendo una doppia vista sul suo corpo, che la mia indole di artista cominciò a ritrarre in ogni fattezza.

Tratto dopo tratto, replicai ogni dettaglio della sua figura mozzafiato. Ogni curva, ogni gioco di luci e ombre generato dalla calda illuminazione della stanza in piena notte. Le ciglia lunghe che accarezzavano gli zigomi, le ciocche di capelli che si ribellavano alla crocchia, le labbra carnose e rilassate. Sfumai, infine, la grafite con il dito per mettere in evidenza l'angolazione, e in una ventina di minuti conclusi il disegno grigio su bianco.

Privai il ritratto solo di un particolare: sul collo scoperto di Desirée non avevo riprodotto il livido lasciatole da Valentin; al suo posto, la pelle candida e immacolata.

Guardarla, ma anche toccarla, aveva lo stesso effetto di una rosa: era affascinante, elegante e pungente, pericolosa in una bellezza che non sarebbe mai appassita. Si vestiva di petali rigogliosi per ingannare e attirare gli ingenui verso le sue spine aguzze. Il medesimo risultato che aveva ottenuto nel suo gioco con me, che quel fiore avrei voluto coglierlo e curarlo affinché non perisse.

Una riflessione profonda che generò l'ennesima idea per quel disegno. Girando il foglio per sfruttare la facciata vuota, iniziai a scrivere alcuni versi impressi nella mia memoria per non sprecare l'ispirazione.

«Cosa scrivi?» curiosò Desirée, attenzionando i miei movimenti celeri. Capì che avevo finito il ritratto e rimase voltata nella mia direzione.

«Una poesia di Rilke che, nonostante fosse austriaco, si sbizzarrì con il francese» mi limitai a spiegare per non rovinarle la sorpresa.

Incidendo sulla carta una lettera dopo l'altra, in un corsivo elegante, il paio di strofe prese finalmente forma:

"Si tra fraîcheur parfois nous étonne tant,
heureuse rose,
c'est qu'en toi-même, en dedans,
pétale contre pétale, tu te reposes.

Ensemble tout éveillé, dont le milieu
dort, pendant qu'innombrables, se touchent
les tendresses de ce cœur silencieux
qui aboutissent à l'extrême bouche."

Conclusi l'opera con la data in cui avevo realizzato il ritratto e una piccola firma nell'angolo del foglio. Non volevo che lei lo vedesse subito, però, quindi lo adagiai sul letto senza consegnarglielo per aumentare la sorpresa.

«Posso avere l'onore di vederlo?» mi interrogò, disegnando un altro ghigno sul volto. Mi guardava, la linea di eyeliner ancora presente che le affilava lo sguardo.

«Calma, Daisy» la invitai ricambiando il sorrisetto. «Porta pazienza. Lo vedrai a tempo debito».

«La pazienza non è la mia virtù migliore, Woodward» dichiarò.

Alzandosi in piedi, lasciò che l'acqua le rivolasse lungo il corpo lucido. La luce calda la rivestiva come un'aura dorata, ma era di una bellezza tale da brillare senza ulteriori ausili. Con pochi ma sapienti movimenti, uscì dalla vasca e le gocce piombarono sul pavimento, fin quando lei non coprì l'intimità con un asciugamano. Un paio di passi la portò dinanzi a me; da seduto ero più basso di lei, che torreggiava in una posizione di dominio. Potere che esercitò sporgendosi verso il disegno adagiato alle mie spalle, ma la fermai prima che ci riuscisse, le mie dita serrate attorno ai suoi polsi.

«Smettila di fare la ribelle, chérie» la provocai. Le nostre pupille si concatenarono in uno sguardo che parlò più di mille parole; nelle iridi nocciola brillò la bramosia. Cauto, la divincolai dalla mia presa e le mie mani, impudiche, scesero sui suoi fianchi. La guardai dal basso, succube del controllo a cui mi sottomise. «Deciderò io quando mostrartelo. Per ora, voglio essere l'unico a godermi quest'opera d'arte» dichiarai deciso e, con uno strattone, la feci aderire al mio corpo; il membro turgido protestò nei pantaloni, quando il mio viso finì all'altezza del torace.

Un gemito le scappò dalle labbra quando le mie, prontamente, iniziarono a marchiare i seni prosperosi con una serie di baci umidi. Le punte dei capelli bagnati mi solleticarono il viso, una freschezza piacevole che si sommò alla soddisfazione di spogliarla. Allentando l'asciugamano, lo feci cadere a terra e liberai le sue forme.

Continuai a stuzzicarla, spostando la mia bocca sul capezzolo irrigidito che stimolai tra i denti. Lei si lasciò sfuggire un altro lamento che siglò la mia condanna.

«Se decidessi di posare per me altre mille volte, non otterresti mai un no come risposta» soffiai in un mormorio roco. «Sei sensuale, un concentrato di voluttà che mi fa perdere la testa. Semplicemente mozzafiato...» sussurrai, il fiato caldo che si imbatté sul capezzolo umettato. Lasciai il suo fianco e percorsi il suo corpo fino all'inguine con il dito. Lento, presi a stuzzicarle il clitoride con il pollice, strappandole un'altra manifestazione di incontenibile piacere. «E vorrei ricordarmi ogni dettaglio di te, quando non potrò più vederlo con i miei occhi».

«Fermati, Isaac» ansimò, allontanando la mia mano dalla sua intimità. Dominò, con i palmi ora sul mio petto, e si chinò in avanti con un ghigno provocatorio, abbassandosi fino a inginocchiarsi. Nemmeno dal basso, però, spezzò il contatto visivo che instaurò con me. «Sai, credo che...» iniziò, le mani scivolarono dal mio petto al mio stomaco, fino a strisciare con malizia sulle mie cosce. Agguantò il bottone del pantalone e lo sfilò dalla sua asola, rubandomi un respiro. «Questo viaggio non sia l'unico favore in sospeso tra me e te».

Mi costrinse, ansante, al suo comando. Dopo aver abbassato anche la zip, si concentrò sui boxer che sfilò in parte per stuzzicare il mio membro; lo prese sapientemente tra le dita e, con movimenti intensi e cadenzati, iniziò a soddisfare il mio bisogno di sentirla. Mi mise alla sua mercé, consapevole di potermi manipolare a suo piacimento.

«Non ti permetterò di essere l'unico a farmi impazzire» sentenziò. Gli occhi grandi continuarono a puntarmi dal basso, aspettando che lei compiesse passo successivo verso la mia distruzione definitiva. «Voglio avere l'onore di ricambiare e di farti capire che posso essere la tua rovina, come ti dico fin dal primo giorno...» Si leccò le labbra e continuò a giocare con la mia intimità, incurante della mia impazienza. Lo faceva di proposito, per farmi crogiolare nel mio infinito godimento.

Ormai vittima del suo potere da incantatrice maledetta, le strinsi i capelli umidi tra le dita per allontanarli dal suo viso. Un tacito invito a proseguire, perché incapace di trattenermi a lungo.

Seppur si stesse divertendo mentre mi struggevo per lei, non prolungò l'attesa. Accolse il mio membro nella sua bocca calda e quest'ultimo iniziò a pulsare. La lingua lo accarezzava con lussuria dall'alto al basso, e io accompagnai i movimenti sempre più rapidi della sua testa.

La desideravo di più a ogni affondo tra le sue labbra morbide, le stesse che ancora non avevo sfiorato con le mie. Tutti i miei gemiti erano una supplica affinché continuasse nonostante, in pochi minuti, io stessi già raggiungendo il culmine.

Non resistetti a lungo. Una manciata di istanti dopo, dilaniato dalla vista di lei che mi torturava con la bocca e con la mano senza distogliere lo sguardo profondo e costante, esplosi, inondandola di un calore che lei ingerì.

«Daisy...» gemetti, un ringhio di cedimento che mi lasciò le labbra. Strinsi i suoi capelli in un pugno e glieli tirai appena, incapace di contenere l'impulso animalesco.

Separandosi da me, si pulì la bocca e si rialzò. Non le servì pronunciare un singolo lemma: dallo sguardo, si evinceva la soddisfazione di essere stata la causa della mia perdita di senno. Mi aveva distrutto come avevo previsto, ma era solo l'inizio di una battaglia in cui entrambi ardevamo come le fiamme del desiderio reciproco.

E allora combattiamo, mia Daisy. Spogliamoci dei vestiti e dei segreti, tra erotismo e confessioni.

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Nota dell'autrice
Buongiorno amici e buon sabato, come state? <3
In tempi (sorprendentemente) record, ecco qui il ventottesimo capitolo di AD. Vi ho concesso un capitolo succoso sotto ogni punto di vista, ma andiamo per gradi.
Siamo ufficialmente in Italia! Sì, non vedevo l'ora di questo viaggio che cambierà completamente il rapporto dei nostri protagonisti (e le vicende future). Nel prossimo capitolo assisteremo al ballo in maschera, ma concentriamoci sul presente: Desirée e Isaac, in solitudine, iniziano a conoscersi meglio. La ragazza non riesce più a trattenersi e confessa parte del suo dolore a causa dell'importanza della sua immagine e il nostro gentleman britannico non può sottrarsi dall'aiutarla. Isaac è una green flag, ormai l'avrete capito ;)
Tralasciando i dolori, vi ho regalato anche uno scambio focoso tra i protagonisti. Lo ammetto: venire da BTME e Semicolon non mi facilita la scrittura delle scene spicy, ma ci stiamo lavorando. Tempo al tempo. Nel frattempo, se volete farmi sapere che ne pensate, sono tutta orecchi!
Qui sotto vi lascio alcune immagini per farvi immaginare al meglio l'ambientazione del capitolo.
Detto ciò, grazie per essere passati anche oggi. Ci vediamo al prossimo aggiornamento! <3

IG & TikTok: zaystories_

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Note informative

Gritti Palace e la stanza d'hotel


Basilica di Santa Maria della Salute


Traduzione delle strofe della poesia "Le rose" di Rainer Maria Rilke

"Se la tua freschezza a volte ci stupisce tanto,
felice rosa,
è che tristezza, nell'interno
petalo contro petalo ti riposi.

L'insieme tutto sveglio, di cui il centro
dorme, mentre ch'innumerevoli, si toccano
le tenerezze di questo cuore silenzioso
che sboccano all'estrema bocca
".

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