25. Étincelles
IT: scintille
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28 maggio 2023
Circuit de Monaco, Principato di Monaco
Mi destreggiai tra la folla che popolava l'ingresso della pit lane, con il pass laminato che penzolava fastidiosamente dal collo. Dannata domenica di gara, pensai compiendo il tentativo di non arrivare in ritardo all'hospitality allestita dall'Automobile Club.
I tacchi che indossavo non facilitavano di certo l'impresa: nuovi di zecca e duri come il marmo, impattavano con l'asfalto e mi rallentavano a ogni passo. Persino la fretta doveva essere affrontata con classe.
Superai i controlli e sfilai a passo lesto dinanzi ai box delle scuderie. Le celebrità si univano ai meccanici dei team in un marasma che mi impediva di camminare liberamente; il chiacchiericcio elevato era snervante, così come lo diventò l'aderente completo di gonna e top a scacchi che non mi faceva passare inosservata, senza lasciare nulla all'immaginazione.
Passai il dorso della mano sulla fronte umida, sbuffando quando rimasi bloccata a causa della folla addossata davanti ai box della Scuderia Ferrari, nonché la favorita di quel weekend. Come se la quantità di tifosi e personalità dello spettacolo non fosse stata abbastanza, il nostro pilota di casa li animava in maniera ossessiva.
Sbuffai e, spazientita, incrociai le braccia al petto in attesa di scovare un varco tra le persone e cavarmela fino all'hospitality. Non mi importava nulla, di quell'evento tanto atteso: lo frequentavo solo perché papà lo finanziava in parte ogni anno, e la Société Aubert era uno sponsor immancabile.
Mi innervosii ancora di più quando sentii due mani grandi e calde cingermi le spalle. Agitata dall'aria irrespirabile dovuta alla pit lane gremita, mi voltai di scatto. Mi sorprese trovare Isaac lì, a pochi centimetri da me, vittima di uno sguardo fulminante che lo incenerì.
E l'ossigeno, all'improvviso, sembrò non bastare per mantenere entrambi in vita.
Il mio cuore aveva smesso di pompare sangue e raziocinio dalla notte trascorsa a Cannes. Nonostante l'ebbrezza, conservavo un vivido ricordo della camicia fradicia di vino che gli aderiva al corpo, del suo petto nudo e dei tatuaggi che gli macchiavano la pelle. Incapace di proferire parola, mi limitai a schiudere le labbra.
Soprattutto dinanzi a un'altra camicia bianca che gli sottolineava i pettorali allenati, abbinati a un pantalone color cachi perfettamente stirato.
«Immagina fermarsi qui per idolatrare un perdente» mi canzonò, accennando il suo solito ghigno. «La maledizione di Monaco sta colpendo anche quest'anno».
«Non sto idolatrando nessuno» ringhiai a denti stretti. «Vorrei solo arrivare all'hospitality prima dell'inno».
Isaac studiò i dintorni con un'occhiata rapida, oltre le teste dei tifosi fossilizzati in quell'area.
«Ho un'idea che ci farà odiare da tutti i presenti» iniziò a spiegare, «ma devi seguirmi senza fiatare».
Che Isaac fosse un concentrato di rischi, ormai, era una certezza ben incisa nella mia mente. Un pensiero che tuttavia non riuscì a piantare le sue radici, sovrastato dalla sua mano che scese dalla spalla. Mi accarezzò l'intero braccio fino a intrecciare le dita con le mie, e in una frazione di secondo mi strattonò via dalla folla.
Senza guardarsi intorno e senza ascoltare le frasi contrariate di chi lottava per una visuale migliore, superò l'intera folla e sfilò, svelto, davanti all'ingresso dei box numero 16 e 55. Tra l'odore nauseante di copertoni consumati e benzina, mi fece accelerare sui tacchi fino quasi a incespicare, finché non rallentò.
«Sai, Daisy» dichiarò dopo l'improvviso silenzio, «dovresti esercitare il tuo dominio anche sulle folle. Oppure, in queste situazioni ti dimentichi di essere la figlia di Jules Aubert?» mi provocò.
Alzai gli occhi al cielo, ma il mio sguardo cadde sulle nostre dita ancora incatenate. Brusca, interruppi quel contatto.
«L'uomo che mi ha insegnato l'educazione, sì» sbottai, distendendo una piega della gonna. «A differenza tua».
Fu un gesto che attirò la sua attenzione, convergendola sul mio completino. Anche se di sfuggita, giurai di averlo colto in flagrante mentre si leccava il labbro inferiore, in una manifestazione di apprezzamento che non si premurò di nascondere.
Se pensava di essere l'unico in grado di farmi perdere l'autocontrollo, ignorava che, in quella battaglia, vantassimo entrambi di armi potenti e distruttive.
«Andiamo» lo invitai, senza perdere la mia autorevolezza.
Ripresi a camminare lungo la pit lane a testa alta, determinata a non lasciarmi ammaliare dalle sue attenzioni insistenti. Si stava avvicinando il minuto preciso in cui sarebbe scattato il giro di formazione.
Proprio per quella ragione, quella lingua d'asfalto affollata all'eccesso iniziò a popolarsi dei piloti che, piano piano, uscirono dai box per gli ultimi accorgimenti.
Tra loro, il mio sguardo ne incrociò uno famigliare, per una persona cresciuta nell'élite monegasca. Il pilota favorito e più tifato del weekend, pregato di rendere fiera la sua terra.
«Ciao, Charles» lo salutai accennando un sorriso, scaturito dai ricordi del passato.
Lui ricambiò smagliante. «Ciao, Desi» mi restituì il saluto in maniera frettolosa, prima di dirigersi dalla sua monoposto rossa.
Isaac, dietro di me, accelerò il passo per adeguarsi al mio e tornò ad affiancarmi. Sul suo viso, ora, l'espressione era attonita e gli occhi sgranati.
«Conosci Charles Leclerc?» boccheggiò. «Cioè, voglio dire, Charles Leclerc conosce te?» farfugliò ancora.
Spostai i capelli su una spalla in un gesto pregno di vanità. Il ghigno sul mio volto non perì, alimentato dalla sorpresa del britannico.
Feci spallucce, riducendo la nostra conoscenza a una frivolezza. «Tresca adolescenziale» divagai. «Abbiamo frequentato lo stesso liceo» spiegai, poi. «Il Principato è piccolo, Isaac. Sarebbe strano se non ci conoscessimo».
Non replicò, perché arrivammo finalmente all'edificio e salimmo i gradini che ci portarono all'interno dell'hospitality. Ogni anno, quello si rivelava il punto migliore per assistere alla corsa: affacciava sulla griglia di partenza e sul rettilineo opposto, lungo Rue de la Piscine.
Fummo accolti dal chiacchiericcio contenuto che animava la grande sala, gremita grazie all'open bar. In tutti gli angoli si respirava il profumo dell'esclusività, di un evento sportivo che faceva circolare milioni di euro nel nostro territorio. Fu proprio tra l'orda di celebrità e tifosi che, appartati accanto alla ringhiera che dava su Boulevard Albert I, scorsi Valentin ed Erika intenti a scambiarsi chiacchiere e calici di champagne.
Continua la recita, Desirée.
Accelerai il passo per separarmi da Isaac e correre dal mio fidanzato. Gli gettai le braccia al collo con impeto, sorridendo per fingere di essere felice di rivederlo dopo giorni, e lo catturai subito in un bacio davanti allo sguardo attento di Erika.
Valentin mi cinse i fianchi, ma la freddezza del suo tocco mi gelò le ossa e il sangue. Ancora più glaciale fu il suo braccio attorno alle mie spalle, quando l'effusione terminò e lui mi strinse a sé. Al bacio che mi scoccò sulla tempia, un peso irremovibile si adagiò sul mio stomaco, che aumentò non appena il biondo proferì parola.
«Sei in ritardo, amore» mi ammonì con finta dolcezza. «Va tutto bene?»
Annuii con un cenno del capo e, con la coda dell'occhio, mi concentrai su Isaac che ci raggiunse. Al suo fianco si era aggiunto anche suo fratello, che smorzava l'eleganza collettiva indossando una t-shirt grigia del team Mercedes, in perfetto abbinamento con il berretto acquamarina che gli spettinava i capelli e riportava il logo della scuderia.
Si unì al gruppo intonando un motivetto natalizio, nel pieno del mese di maggio, accompagnato da un ghigno pregno di derisione e sarcasmo. Capii di esserne la destinataria quando mi guardò, incapace di trattenere un risolino.
«La renna ha perso la slitta?» ironizzò. Distolse l'attenzione solo per estrarre una sigaretta dal pacchetto, ma riprese a canzonarmi dopo averla infilata tra le labbra. «Non pensavo che–»
Si beccò una doppia occhiata fulminante, da parte mia e di Isaac. «Smettila» lo intimò lui.
Mi mancò l'ossigeno per l'umiliazione, ma tirai un sospiro di sollievo quando mio padre, immancabilmente strategico, si intromise. Si sfilò gli occhiali da sole per guardarci negli occhi e li appese alla camicia.
«Isaac, Michael, benvenuti al Gran Premio di Monaco» proclamò con un sorriso, nella sua consueta teatralità. «La gara inizierà tra pochi minuti» spiegò, «e quest'anno ci sarà una piccola novità: sarà Desirée a sventolare la bandiera a scacchi, al taglio del traguardo» annunciò con fierezza.
Sul mio corpo atterrarono gli sguardi di entrambi i gemelli. Tra la profondità di quello di Isaac e il diletto in quello di Michael, mi sentii incenerire. Persino il mio eterno egocentrismo era sfinito dalle loro attenzioni.
«Potrebbe sventolare se stessa e non noterei alcuna differenza» commentò il più sarcastico dei due, riferendosi al mio abbigliamento.
Isaac lo colpì con una gomitata che gli urtò le costole e gli provocò un gemito di dolore.
Mio padre rise bonario, senza alcuna intenzione di prendermi in giro, e Valentin mi strinse ulteriormente a sé. La sua mano, in un tocco viscido e malizioso, scivolò poco sotto il mio fianco per marcare il territorio.
Mancava solo l'intervento di Erika alla conversazione. Silenziosa, la mia amica stava contemplando distrattamente i dintorni, sfogando il nervosismo su una ciocca di capelli rosa che attorcigliò intorno al dito.
Era evidente che sapesse della mia consapevolezza circa le sue azioni. L'infamia non mi sfuggiva con facilità.
«Rika, va tutto bene?» finsi di preoccuparmi. «È successo qualcosa?»
Scosse il capo in segno di diniego. «Stavo pensando alla gara» ridacchiò.
Detto da una studentessa di Sports Management, avrebbe potuto sembrare una scusa credibile. Sapevo, tuttavia, che si trattava di un tentativo di evitarmi.
«Sei distratta come una ragazzina innamorata» la presi in giro con falsa bonarietà e abbozzai il più amichevole dei sorrisi. «Chi è il fortunato?»
Sull'intero gruppo calò la tensione. Erano ovvie le crepe che si stavano formando nei singoli rapporti, rattoppate con la freddezza del ghiaccio e nascoste a occhi indiscreti. La curva sul viso di Erika scomparve e lei non mi diede una risposta. Si limitò a voltarsi verso il rettilineo su cui le monoposto si stavano posizionando prima dell'inno nazionale.
Pronta a godermi quel momento al massimo, mi separai da Valentin e mi avvicinai alla ringhiera. Finii accanto alla ragazza e, in un sussurro, sfondai la barriera che aveva eretto tra noi. Ebbi cura di non essere sentita né da mio padre, né dagli sconosciuti che ci circondavano.
«Credo che entrambi vi stiate dimenticando della persona contro cui state giocando» dichiarai senza instaurare un contatto visivo. «Potete sottrarmi ciò che volete: io ho già un futuro e un patrimonio invidiabile tra le mani, e nulla di tutto questo dipende da voi».
«A quanto ne so, dipende dalla presenza di Valentin al tuo fianco» ribatté. «Jules la pretende».
Faceva male ammettere che avesse ragione, quindi non lo feci. Al contrario, mi preparai a rilanciare.
«La presenza fisica basterà. Valentin mi ha perso ancora prima di avermi» dichiarai. Tra noi intercorse il silenzio, ma lo riempii pochi istanti dopo. «E tu, Erika, non giocare con il fuoco. Non vorrai bruciarti e rovinare il tuo bel viso innocente, vero?» le domandai retoricamente, il sorriso che si allargò sul mio volto.
Lei, però, non fece in tempo a replicare. Nell'aria risuonò l'allegra fanfara della Compagnia dei carabinieri del principe impegnata, tra trombe squillanti e percussioni, nella riproduzione dell'inno monegasco.
Il silenzio che calò fu solenne. Quell'inno, nella Formula 1, aveva un valore storico non trascurabile, e ogni nota veniva assorbita dai presenti come un ricordo prezioso del Gran Premio più iconico del calendario automobilistico. Fin da quando ero solo una bambina e il rumore dei motori mi assordava a bordo pista, intonarlo con il labiale e la mano sul cuore era un obbligo.
Era tutto perfetto, ma il momento idilliaco fu interrotto dalle mani tatuate che entrarono nel mio campo visivo. Occupando lo spazio vuoto al mio fianco, Isaac serrò le dita attorno alla ringhiera e contemplò i dintorni, curioso. Non poté evitare di far nascere l'ennesimo ghigno sul suo viso così affascinante da essere diventato insopportabile.
«E così, questa sarebbe la colonna sonora del vostro impero di plastica?» mi canzonò. «Piena di artifici, proprio come ciò che vi circonda».
Gli scoccai un'occhiata ardente, nella speranza di metterlo a tacere. Esattamente come Erika, anche lui si sarebbe bruciato se avesse continuato a giocare con il fuoco, benché dimostrasse di non averne paura. Al contrario, ne era attratto.
L'inno scemò in applausi scroscianti che riempirono la pista, e i piloti tornarono a prepararsi con il team per il giro di formazione imminente. Tra battiti di mani e chiacchiericci, mi voltai verso Isaac e incrociai le braccia al petto. Nonostante il forte magnetismo che ci attraeva, non avrei abbattuto le mie barriere e non gli avrei permesso di giudicare un territorio che, presto, sarebbe stato mio.
Non suo, né della sua famiglia.
«Se fossi in te, eviterei di giudicare così tanto» lo sfidai. Le mie pupille cercarono le sue, vi si ancorarono, e per le sue iridi celesti non rimase alcuno scampo. «Ho il futuro di questo Paese in mano, nonostante ogni tua critica. Gestirò una delle aziende più ricche e importanti al mondo, in cui ogni anno si muovono centinaia di migliaia di euro, e tu potrai solo provare invidia» gli ricordai. «Non mi interessa dei tuoi tentativi di indebolirmi. Tornerai in Inghilterra mangiando la polvere del tuo fallimento, Woodward».
Fece schioccare la lingua contro il palato e scosse il capo incredulo. Vinceva in statura e i suoi occhi erano impegnati in un viaggio dalle mie labbra al mio seno, incapace di sostenere il mio sguardo e attratto dalle curve evidenziate dal completo.
«Le trattative non si concluderanno finché non me ne andrò e, stando agli ultimi giorni, mi sembra di averti già resa vulnerabile» ribatté con fastidiosa saccenza. «Anche se indossi la falsità davanti a tutti, quel vestito non esiste, per me».
Mi accigliai alla sua dichiarazione, ma non lo diedi a vedere. Era il suo vero pensiero, o un'allusione ai suoi desideri proibiti? Qualunque cosa fosse stata, neanche le sue provocazioni mi avrebbero distratta dall'obiettivo. Se credeva di ammaliarmi con giochi di parole maliziosi, aveva torto.
«Bene, perché non esiste e basta» sentenziai. «La mia vita è quella che vedi e nessuna conversazione avuta con te può cambiarla. Se pensi di abbindolarmi comportandoti da finto crocerossino, questa è una gara che hai perso in partenza».
La mia affermazione fu seguita dal rombo assordante dei motori. I venti piloti scaldarono le vetture e, allo scoccare delle lancette, intrapresero il giro di formazione, scomparendo oltre la Sainte Devote per salire al casinò.
Accanirmi contro l'improvvisa arroganza dell'inglese era l'unico modo per negare l'effetto del paio di giorni trascorso insieme a Cannes. Non potevo dimostrare la nostra vicinanza giustificata solo dal vino o il modo in cui le mie dita avevano esplorato il suo corpo senza ritegno, o gli avrei regalato la soddisfazione di gettare il mio mondo all'aria.
Ancora una volta, sembrò avere la risposta pronta. Nel momento in cui schiuse le labbra, però, fu interrotto da una terza presenza che tornò a unirsi a noi. La mano di Valentin scivolò sul mio fianco, disseminando un campo di brividi poco piacevoli, e lui mi attirò a sé stampandomi un bacio sulla tempia.
«Amore, ti va di bere qualcosa, prima dell'inizio del Gran Premio?» propose, il tono pacato. «Potremmo approfittare dell'open bar, finché non è affollato».
Annuii con un semplice cenno del capo, incapace di proferire parola. Tra quei due fuochi così influenti sulla mia vita, mi sentivo un granello di cenere in balia della tempesta.
«Sì» aggiunsi, farfugliando. «Sì, va bene».
Valentin, di conseguenza alla mia risposta, cominciò a comandare i miei movimenti. Ciò non mi allontanò dallo sguardo insistente di Isaac che, nonostante la presenza del mio fidanzato, non accennò a separarsi da me.
«A dopo, Woodward» lo congedò il biondo, fingendosi cordiale. Era un maestro nel vestirsi da bravo ragazzo in pubblico.
«Godetevi la gara» ci augurò, in un mormorio roco seguito da un occhiolino che mi dedicò. «E che vinca il migliore».
Era chiaro che la sua fosse un riferimento alla nostra battaglia, finanziaria e fisica, e non alla vera competizione sportiva di cui presto si sarebbero spenti i semafori. Neanche marciando verso il bancone dell'open bar, però, mi lasciai intimorire.
Voleva che vincesse il migliore, senza sapere che io ero stata educata per esserlo sempre.
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L'incessante rombo dei motori potenti stava diventando insopportabile persino per me, che trascorrevo le mie giornate sul sedile di una Lamborghini da settecento cavalli. Il Gran Premio di Monaco vantava di iconicità ed esclusività, era innegabile, ma lo era altrettanto il fatto che fosse la gara più monotona di tutto il calendario: le strade strette della città non consentivano i sorpassi che avrebbero esaltato piloti e tifosi, così come le curve.
Per rilassarmi, mi rifugiai al piano superiore dell'hospitality dopo aver congedato Valentin, Erika e mio padre. Li avevo liquidati con la scusa di dover sistemare il trucco, ma la verità era che bramavo il silenzio, nonostante il perenne sottofondo delle monoposto e della pioggia che aveva iniziato a scrosciare.
Mi accomodai su una delle poltrone che riempivano la sala e mi godetti la quiete, iniziando a scorrere sullo schermo del cellulare con noncuranza. I social erano noiosi, tempestati di contenuti sul Gran Premio in corso, tanto che li chiusi con uno sbuffo per dedicarmi ad alcuni messaggi a cui non rispondevo da giorni.
Le unghie che urtavano contro il display, però, non furono l'unico rumore a colmare il vuoto della stanza. Si aggiunse il ritmo di alcuni passi cadenzati, di suole dure che impattarono sul pavimento, sempre più vicine.
Dovetti voltarmi per scontrarmi, un'altra volta, con la presenza imponente di Isaac. Reagii con uno sbuffo.
Camminava con indifferenza, come se non avesse saputo che io mi trovassi lì, e studiava i dintorni disinteressato. La mano insaccata nella tasca del pantalone e la camicia era sbottonata, lasciando intravedere i tatuaggi che gli macchiavano il petto.
Consapevole di averlo guardato troppo a lungo, riportai l'attenzione sul cellulare.
«Cercavo proprio l'occasione di dirtelo faccia a faccia» esordì.
Con la coda dell'occhio, lo vidi intento a guardare oltre le finestre, quando gettò uno sguardo rapido al rettilineo sottostante. Si ridestò pochi istanti dopo, continuando a compiere passi verso di me finché non mi raggiunse.
Mi guardò dall'alto e accavallai le gambe per innalzare una barriera tra noi. Uno scudo che lui distrusse, chinandosi in avanti e stringendo tra le dita i braccioli della poltroncina. Sul dorso delle mani spiccavano le vene che sparivano sotto la camicia, ma non mi tolsero il fiato quanto la sua improvvisa vicinanza. Solo un respiro ci divideva, e lui lo stava esalando, bollente, sul mio viso.
Come una carezza proibita.
«Le tue parole, prima, mi hanno innervosito e non poco» spiegò. Mi costrinse a guardarlo negli occhi senza l'uso delle parole, seppur il mio sguardo vagasse dalle iridi celesti alle labbra senza trovare un appiglio. «Ogni passo avanti corrisponde a tre indietro. Anche se con me lasci trapelare parte della tua verità, quando c'è tuo padre nei paraggi ritorni fredda. Hai un'armatura di ghiaccio, Daisy» esalò. Sussurrava come se qualcuno potesse sentirci, in quella stanza deserta. «Ma stai giocando con il fuoco, e prima o poi la scioglierà».
Abbandonando il telefono al mio fianco, sul cuscino morbido, lo sfidai. Incrociai le braccia al petto, congiunsi i seni per distrarlo e schiusi le labbra davanti al suo volto.
«E chi sarebbe, questo fuoco?» lo interrogai.
«Ce l'hai davanti», fu la sua risposta pronta. «Sto imparando a leggerti dentro e nemmeno te ne rendi conto. Sono bastate due notti, a Cap-d'Ail e Cannes, per conoscere le tue debolezze» puntualizzò. «E, nonostante ciò, continui a dimostrarti imbattibile». Separò un palmo dal bracciolo e alzò il dito per profilare la mandibola. Una carezza da brividi che si estese fino al mio orecchio, dietro cui riavviò una ciocca prima di aumentare la sua pericolosa vicinanza. «Cosa nascondi?» mi domandò, la bocca morbida che mi sfioro il lobo prima di stuzzicarlo con un leggero morso. Mi mandò in tilt, il raziocinio che iniziò a vacillare. «Mi permetti di spogliarti dei tuoi segreti?»
«N-Non ti conviene, Woodward» farfugliai, intontita dalla scia umida che i suoi baci lasciarono sul mio collo. Piazzai una mano sul suo petto con l'intenzione di allontanarlo da me, ma l'inconscio me lo impedì, trasformando quel gesto in brama di contatto fisico. «Non ne usciresti» lo avvertii.
«Non vorrei farlo» precisò. Il fiato caldo si schiantò sulla pelle della clavicola, e una scarica di brividi mi attraversò la spina dorsale. Ne sentii la mancanza quando, all'improvviso, si allontanò, e i suoi occhi perlustrarono il mio corpo da vicino per la prima volta. Reagì mordendosi il labbro. «Dio, questo sì che è un traguardo» sussurrò. «Mi è bastato vederti fuori da quell'aereo a Nizza, per rimanere folgorato da te e dal divieto che rappresenti» confessò.
E non sei il solo, pensai. Perché lui, nell'ultimo mese, aveva avuto ragione su tutto: magneti dai poli opposti, ci attraevamo perché condividevamo una posizione in equilibrio precario tra la disciplina e il desiderio di trasgressione, e i baci lascivi che scesero fino al mio seno ne furono la conferma.
Un fioco barlume di lucidità mi indusse a portare l'altra mano su di lui, ma non riuscii a spingerlo indietro. Altri brividi si trasformarono in un gemito che tentai di soffocare, e le mie dita si serrarono attorno al suo collo. Lo strinsero a me, invece di rifiutarlo.
Afferrò la cerniera anteriore del top a scacchi tra i denti, facendola scivolare verso il basso. I miei seni esplosero davanti al suo viso e lui, obbedendo al suo istinto, vi si avventò. Inumidì i capezzoli turgidi con la lingua e li torturò fino a godersi i miei lamenti di piacere, che avevano sostituito le parole.
«Sapevo già che mi avresti mandato fuori di testa» confessai. Con le palpebre socchiuse e i respiri corti, poi, mi sforzai di continuare. «M-Ma questo non era il modo che avevo immaginato».
«E non ho ancora finito di sorprenderti...»
Abbandonò i capezzoli per baciarmi fino allo stomaco, in direzione della gonnellina aderente. Le sue mani grandi mi strinsero i fianchi e lui, per adeguarsi all'altezza della poltroncina, si inginocchiò dinanzi a me. Capii dove stesse andando a parare quando le sue dita iniziarono a insistere sull'orlo.
Dal basso, mi lanciò uno sguardo. Aveva le sclere lucide di bramosia, e la consapevolezza di essere l'oggetto del suo desiderio uccise del tutto la mia parte razionale.
«Se pensi davvero di essere la regina di questo posto...» esalò, «...lascia che io mi inchini a te, mia Daisy».
Mi sfilò la gonna e la abbandonò sul pavimento, poi i suoi polpastrelli tornarono a viaggiare lungo le mie gambe; arrivarono alle ginocchia e le separarono, la sapienza nei movimenti come se ne fosse esperto. Sfiorò il pizzo degli slip e, con impazienza, me ne privò.
Persi la cognizione del tempo: in quella che sembrò una misera frazione di secondo, la sua lingua si avventurò tra le pieghe della mia intimità e io ribollii, una fitta allo stomaco che si trasformò nel primo urlo di piacere.
«Conserva il fiato, chérie» mi consigliò. «Ho appena iniziato».
Riprese a torturarmi senza attendere una mia risposta, e dal modo in cui si muoveva pareva conoscermi da una vita. Esplorò i miei punti più sensibili, si basò sui miei gemiti per continuare.
Capacità e divieto erano un connubio devastante, per la mia mente. Lui era abile, ma io non avrei dovuto conoscere quell'abilità. Era una regola che avevo appena trasgredito all'insaputa di tutti.
Il mio cervello, però, era ammaliato dalle scariche di benessere che riceveva. Ancora di più quando Isaac aggiunse due dita. A ogni piccolo affondo, nella mia testa nasceva una sensazione impossibile da etichettare, espressa solo dai lamenti che mi scappavano dalle labbra.
Nessuno era mai stato in grado di farmi sentire così. Nemmeno Marcel, nemmeno Valentin.
In silenzio, lo implorai di continuare nella sua piacevole tortura: le mie mani si avventurarono tra i suoi capelli e li tirarono per sfogare una libido incontenibile.
Mi privò della carezza della sua lingua, ma continuò a spingere con le dita per non sottrarmi il piacere. Sentii i suoi occhi addosso, anche se non li guardai, aderenti come i vestiti di cui mi aveva spogliato.
«Dimmi, Daisy» proferì, la voce roca. «Chi ti fa sentire così...? Esiste qualcun altro che ne è capace?»
Non riuscii a replicare, prossima a raggiungere il culmine. L'urlo mi risalì la gola e mi uscì dalla bocca proprio nel momento in cui strinsi ancora i suoi capelli tra le dita; chinai il capo all'indietro e mi abbandonai a respiri profondi.
«Isaac...» gemetti, in risposta al suo quesito. «Solo Isaac» ripetei.
«Risposta esatta» asserì, e cessò il movimento delle sue dita.
Rialzandosi per torreggiare su di me, si passò il pollice sul labbro ancora umido; lo ripulì e si chinò sul mio viso. Aveva le guance arrossate e la fronte imperlata di sudore, una visuale che fu la mia condanna definitiva.
Senza ritegno, mi accarezzò la bocca schiusa con il polpastrello madido, lasciando che io percepissi il gusto dolciastro del liquido.
Sulle labbra che lui non aveva baciato, neanche per un secondo.
«Lo senti?» sussurrò, guardandomi negli occhi. Le nostre pupille si incatenarono a forgiare un legame ormai indissolubile. Annuii senza proferire verbo, ormai alla mercé di ogni sua azione. «È il sapore di quando sei sincera, Daisy. Ed è molto più buono delle tue bugie».
Si ritrasse senza attendere una replica e mi lasciò in balia del vuoto. Non sapevo come reagire, mi aveva resa impotente e incapace di pronunciare una sola parola. Gettò, poi, una rapida occhiata al Rolex che portava al polso.
«La gara sta per finire» mi informò. «È meglio che tu sia puntuale, se devi sventolare quella bandiera».
E mi rifilò un altro occhiolino, come se avesse voluto dirmi di tornare a fingere che niente fosse successo.
«Tu sarai la mia rovina» decretai. Mi alzai in fretta per recuperare l'intimo e i vestiti, quindi li indossai. «E non finirà bene».
Non poteva avere un lieto fine. La sua insistenza nella mia vita avrebbe solo portato a conseguenze spiacevoli, tra la furia di Valentin e la delusione di mio padre. Eppure, ormai mi ritenevo condannata all'ira e al disappunto, perché l'idea di privarmi del piacere paradisiaco causato dall'inglese era inconcepibile.
Apri le danze della mia distruzione, Woodward.
«Non sarai la sola ad affondare» convenne. Un paio di passi lo riportò da me, e lui si premurò di pettinarmi con le dita i capelli disordinati. «C'è in ballo il lavoro di entrambi, non credi?»
Sospirai e abbassai lo sguardo. Non sarei riuscita a tollerare il contatto visivo nemmeno per un secondo di più e, a testa bassa, mi voltai per scendere al piano inferiore dell'hospitality.
«Lo so bene, Isaac» replicai, sforzandomi di muovere passi decisi verso le scale. «Andiamo».
Mi seguì senza rispondermi, abbandonandosi al mio comando, e scendemmo insieme per goderci gli ultimi giri della gara.
Non sapevo come mi sarei comportata dinanzi a Valentin e a papà, dopo quel momento. Avrei mentito più del solito, triplicando le insicurezze e la conseguente ostentazione di finta sicurezza.
Ma quanto avrei rischiato?
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Salii i gradini del piccolo trespolo allestito a bordo pista per prepararmi alla bandiera a scacchi.
Sugli schermi che riproducevano l'ultimo giro della corsa, spiccava la monoposto blu di Max Verstappen, leader indiscusso dell'intera gara. Il Principato piangeva la sconfitta del pilota di casa, ma al contempo gioiva per l'imminente vittoria del campione.
Tra le urla e il rombo dei motori, seguii le istruzioni di uno stewart che mi preparò ad accogliere la vettura al traguardo. Quando il pilota sbucò sul rettilineo dopo la Rascasse, celebrai la sua vittoria con uno sventolio agitato, che continuò per segnalare il termine della corsa alle altre diciannove monoposto.
Era la loro linea d'arrivo e il mio punto di non ritorno.
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Nota dell'autrice
Buongiorno a tutti amici, come state? <3
Eccoci qui con il venticinquesimo capitolo di AD. Come vi avevo promesso, ho cercato di aggiornare il più presto possibile e ormai posso assicurarvi che la mia scarsa costanza sta finendo, quindi tornerò a essere più presente qui, su IG e su TikTok.
Ebbene sì, eccoci qui con la prima scena spicy di tutta la storia (abbiate pietà di me). Non sono abituata a scriverle, quindi oggi più che mai vi chiedo un parere sincero sul capitolo che avete letto. Spero che sia sensato e non cringe, perlomeno 💀
Anche se, vi dirò la verità, la mia parte preferita di questo capitolo è senza dubbio il Gran Premio. Mi sono trattenuta e ho arginato la tentazione di essere più tecnica, perché Desirée non ne sa nulla, e probabilmente per esserlo dovrei scrivere un F1 Romance (e non ne sarei in grado). Ma credetemi, il desiderio di farlo era tanto, e la comparsa di Leclerc ne è la dimostrazione.
Detto ciò, posso solo dirvi che ci vediamo al prossimo capitolo. Sarà un banalissimo capitolo di passaggio in cui introdurremo alcuni dei viaggi che faranno i nostri protagonisti in futuro, quindi prestate attenzione!
A presto <3
IG & TikTok: zaystories_
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