24. Chute
IT: caduta
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27 maggio 2023
Cannes, Francia
Desirée non proferì una singola parola dopo aver scoperto del soggiorno parigino di Valentin ed Erika. Aveva indossato un'espressione neutra che tendeva alla rabbia e alla profonda delusione; le labbra arricciate e gli occhi stanchi la sottolineavano.
Il suo silenzio perdurò anche quando tornammo nella stanza d'hotel. Aver lasciato la porta finestra aperta aveva fatto sì che la brezza temporalesca rinfrescasse l'ambiente. La setosa gonna color cipria dell'abito della ragazza sventolò e lei, a passo svelto, camminò in direzione del balcone. Si affacciò, i gomiti inchiodati sulla ringhiera metallica, e il vento le scompigliò i capelli.
Ignaro delle sue prossime azioni, occupai la chaise longue posta dinanzi alla finestra. Mi privai della giacca e allentai i primi bottoni della camicia, poi adocchiai il posacenere che campeggiava sul tavolino da caffè. Sfilai il pacchetto di sigarette dal taschino e me ne infilai una tra le labbra: inspirare il fumo rilassò i muscoli, un effetto immediato che nemmeno i miei sigari generavano.
Mio fratello aveva avuto ragione, per una volta.
«Non vuoi riposarti?» domandai a Desirée, la voce roca, rompendo la quiete. I miei occhi studiarono le curve sinuose del suo corpo, messe in evidenza dalla tonalità chiara del vestito.
Scosse il capo, risollevandolo e assumendo una postura eretta. Non ricambiò la mia attenzione. «Potrebbe essermi passato il sonno» ammise, ostentando un sorrisetto ironico.
«Fammi indovinare: colpa di Valentin» ipotizzai, convinto della risposta. Un altro nugolo di fumo si volatilizzò verso il soffitto.
Mi lanciò un'occhiata truce che mi invitò a non immischiarmi nei suoi problemi. «Non...» esordì, ma il suo tono calò quando lo squillo del cellulare la interruppe. Fissò lo schermo accigliata e accettò la telefonata, ma la contrarietà regnò sovrana sul suo viso. Si portò il dispositivo all'orecchio. «Valentin» mormorò a denti stretti.
La freddezza con cui pronunciò il nome del fidanzato mi gelò il sangue nelle vene. Se i miei occhi erano già calamitati dalla sua figura, come lo erano stati negli ultimi giorni, in quel momento l'intensità del mio sguardo raddoppiò. Le lessi attraverso, nonostante si fosse trasformata in un'impenetrabile lastra di ghiaccio.
Non sentii le parole del biondo, mescolate in un gracchio robotico a malapena udibile. Stava urlando con prepotenza, atteggiamento che Desirée non attese a ricambiare.
«Non hai nessun diritto di lamentarti» sentenziò, dura. Percorse la scarsa metratura del balcone accompagnata dal ticchettio cadenzato. «Sei stato tu a rifiutare l'invito per i tuoi "impegni di lavoro a Parigi", ricordi?» virgolettò nell'aria. Compiva movimenti agitati, nella foga del momento. «Avresti potuto esserci tu, con me, ma non te n'è importato» gli rinfacciò.
L'ennesima risposta pronta del fidanzato la portò a inalberarsi. Era infervorata, la furia che brillava nelle iridi nocciola.
«Sono solo delle foto, Valentin!» strillò, incurante di chi riposava nelle stanze vicine. «Quale parte di "è stata una normalissima sfilata sul red carpet" non capisci?!» insistette. «Non ho fatto nulla, a differenza tua. Tu quante volte ti sei scopato Erika, eh? Quante?!» proseguì, facendo un chiaro riferimento all'amica e alla loro relazione clandestina.
Valentin, per la seconda volta, si accinse a replicare nell'immediato, Fu tuttavia Desirée a zittirlo, congedandolo con un lapidario: «Andate al diavolo, tutti e due».
Si accanì contro la cornetta rossa e riagganciò nell'istante in cui io spensi il mozzicone nel posacenere. Liberò la frustrazione in un respiro profondo e superò la soglia della stanza, quindi si lasciò cadere sull'estremità ancora libera della chaise longue; abbandonò la schiena contro i cuscini morbidi e contemplò il soffitto, le dita incrociate in grembo.
La guardai con la coda dell'occhio, fingendo di utilizzare il cellulare: davanti a me, solo il salvaschermo che ritraeva Giselle ed Erin in sala parto, il giorno della nascita della bambina.
«Il corso del vero amore non è mai andato liscio» la canzonai, citando Sogno di una notte di mezza estate. Sul mio viso si disegnò un ghigno divertito dalla sua ostinazione nel fingere che la sua relazione, nonché il suo futuro matrimonio, fossero perfetti. E, quando mi fulminò per la seconda volta, alzai le mani per dichiarare la mia innocenza. «Parola di Shakespeare, non mia».
«Se potessi smetterla di recitare opere del '500, te ne sarei grata» sbottò. «Dico: ti sembra normale nascondermi le storie di Instagram per pubblicare una foto con il mio ragazzo?» si lamentò. «Erika è tra le persone che mi conoscono meglio e sa quanto sia importante questo matrimonio, per la mia famiglia. Non capisco perché debba urlare al mondo che lei è la prima a rovinarlo».
Mi raddrizzai sulla chaise longue, rinsaccando i cuscini per stare più comodo. Mi ritrovai a un paio di centimetri da lei. «Sono dell'idea che, se tuo padre sapesse la verità, non ci penserebbe due volte a cancellare le nozze», feci spallucce. «Potrà anche tenere agli affari, ma tu sei sua figlia».
Il suo cellulare tornò a squillare quando smisi di parlare. Controvoglia, lo sollevò per controllare il display: a cercarla, quella volta, era il contatto di Jules.
«Parli del diavolo...» sospirò, prima di accettare la chiamata. Non compì nemmeno lo sforzo di portarsi il telefono all'orecchio, optando per il vivavoce. «Papà» lo salutò.
«Desirée, ciao» esordì Jules stentoreo, schiarendosi la gola. «Sei tornata in hotel?» le domandò.
«Sì, perché?» gli domandò lei. Il suo tono iniziò a traballare, scalfito da un accenno d'ansia. Si raddrizzò sulla chaise longue e accavallò le gambe. «È successo qualcosa?» indagò.
«Dovresti dirmelo tu» dichiarò, ma la sua spiegazione non tardò ad arrivare. «Quando ti ho permesso di andare al Festival con Isaac, non intendevo che avresti dovuto scattare un intero servizio fotografico con lui sul red carpet» la ammonì. Un principio di senso di colpa mi indusse ad abbassare il capo, smettendo di guardarla, e mi torturai le pellicine delle dita. «Ci sono almeno dieci foto in cui siete vicini, vi guardate o in cui le sue mani sono su di te. Come pensi che reagirà la gente?» proseguì. «Tutti sono a conoscenza delle tue future nozze con Valentin. Mostrarti con un altro uomo, nonché con la concorrenza, non fa che macchiare la tua reputazione».
Il rimproverò portò Desirée a infilarsi una mano tra i capelli e a tirarli, emettendo un sonoro sospiro. Stava tentando con ogni sua forza di mantenere la calma, tra le ramanzine di Valentin e quelle di suo padre.
Aveva sempre la risposta pronta, però, e non si fece attendere.
«Non era mia intenzione» replicò, decisa. «È stato lui ad avvicinarmi a sé. Io mi stavo facendo gli affari miei» decretò.
Mi accigliai, all'udire delle sue parole. Le palpebre si spalancarono per lo stupore e lei tornò a essere l'oggetto del mio sguardo insistente.
Era stata colpa mia?, mi domandai. Ero colpevole del fatto che Desirée mancasse di autocontrollo, soprattutto in mia presenza?
Bramava il mio tocco e lo sapevo. Era diventato innegabile dopo la serata trascorsa a Cap-d'Ail, quando la nostra pericolosa attrazione reciproca aveva iniziato a viaggiare sullo stesso binario: quello della consapevolezza, perché ormai era impossibile da nascondere.
Ricambiò la mia occhiata attonita, e approfittai della sua attenzione per mimare con il labiale un sospettoso: «Colpa mia? Sul serio?»
Roteò gli occhi al cielo e tornò a concentrarsi su un punto perso nel vuoto dinanzi a sé. Si spostò i capelli su un'unica spalla, nervosa, scoprendo la pelle ambrata dell'altra. Mi leccai le labbra e ghignai, prima di chinare il capo.
«Lo spero, ma belle. Lo spero davvero. Per il tuo bene, il mio e quello dell'azienda» si augurò con un sospiro. «Farò in modo che quelle immagini circolino il meno possibile. Chiederò ad APM Monaco se può anticipare la pubblicazione del servizio fotografico scattato al casinò, così che le persone possano concentrarsi su di te» spiegò i dettagli della sua strategia. Furbo, Jules. «Ma che non si ripeta più» avvertì la figlia. «Se dovessi scoprire che tra te e lui c'è qualcosa che va oltre la relazione lavorativa, sarebbe la delusione più grande di sempre» continuò con la sua minaccia velata. «Sei abbastanza intelligente da capire che non puoi rovinare tutto per una frivolezza. Usa la testa» si raccomandò.
Desirée si arrese e si piegò alla sua volontà. Per la prima volta, quando rispose con un mero "va bene", sembrò trattarlo più come capo, che come padre.
E, mio malgrado, comprendevo appieno anche quella sensazione. Si inerpicò lungo le mie braccia sotto forma di brividi, come se fossi coinvolto nelle sue questioni.
«Non va bene, Desirée» replicò Jules. «Ma continuiamo a fare finta che sia così, finché non sarai tu stessa a sbatterci la testa».
Non si premurò nemmeno di salutare la figlia, perché riattaccò. Freddo e impassibile.
La ragazza, arricciando le labbra in un broncio rabbioso, si rifugiò nel silenzio calato. Pestò i tacchi sul parquet della stanza e si alzò dalla chaise longue. A passo svelto, raggiunse la scrivania e agguantò la pochette che vi aveva abbandonato nel pomeriggio.
«Non che io muoia dalla voglia di saperlo» permisi, «ma dove hai intenzione di andare?» le chiesi. «È passata la mezzanotte e hai ancora quel vestito addosso. Dovresti struccarti e andare a dormire» le consigliai.
«Non sei mio padre, faccio quello che voglio» mi attaccò, ma cedette pochi secondi dopo e rivelò una mezza verità. «Starò via solo una decina di minuti».
Feci spallucce. In fondo, era abbastanza matura da saper badare a se stessa senza correre rischi. Finché si fosse intrattenuta tra le mura dell'hotel, non ci sarebbero stati problemi.
«Hai il mio numero, se ti serve» le ricordai con finta indifferenza.
La mia frase, tuttavia, attirò un'occhiata truce. Le bastò il paio di iridi nocciola per fulminarmi, immobilizzandomi sul divanetto.
«Dopo tutto il casino che hai sollevato perché non sai tenere le mani a posto, sei davvero convinto che sprecherò il mio fiato per chiamarti?» quasi strillò.
«O per fare altro» ammiccai, riportando l'attenzione sul display del mio cellulare.
Sempre più infervorata dalla situazione e dai miei commenti che miravano a sdrammatizzare, si diresse verso la porta. Ne afferrò la maniglia e la aprì, ma non lasciò la stanza prima di urlare un sonoro: «Va' al diavolo!»
Aver brindato a una tregua temporanea non era servito a granché, realizzai.
Il sorrisetto divertito dal suo nervosismo mi era rimasto incollato sul viso, ma scomparve non appena subentrarono i pensieri.
La reazione improvvisa di Desirée, manifestatasi in una scarica d'ira bollente che l'aveva portata ad aver bisogno di solitudine, non era ingiustificata. Le pressioni di Valentin e del padre la stavano soffocando tanto da rovinarle una serata che aveva atteso per anni, solo perché alcuni particolari erano stati diversi da quanto pianificato.
Nemmeno scrollando con fare incurante sulla pagina principale di Instagram riuscii a distrarmi.
Ero davvero colpevole di aver scombussolato un equilibrio intoccabile?
Decisi di supplire l'interrogativo accendendo la seconda sigaretta da quando ero tornato nella stanza. Filtro tra le labbra, fiammella, primo tiro. Sfortunatamente per i miei polmoni, ancora non conoscevo un modo migliore per rilassare i nervi.
Socchiusi le palpebre e mi godetti la nicotina che mi calmava e avvelenava a ogni respiro. L'odore pungente del tabacco pervase la stanza e fu soffiata via dalla brezza burrascosa.
Ingannai una copiosa manciata di minuti in quella posizione, con la schiena contro il cuscino, barcamenandomi tra foto pubblicate online e mozziconi spenti nel posacenere. Arrivarono ad ammontare a cinque, vista la mia incapacità di zittire le voci che mi ossessionavano la testa.
Solo un'immagine riuscì a costringermi a separarmi da Instagram: l'ultimo post di Giselle che, ovviamente, la ritraeva in compagnia del suo futuro marito. Quell'uomo era diventato una persecuzione, la ragione per cui anche sentire la voce della madre di mia figlia era diventato difficile.
E realizzai che Desirée non era l'unica a star perdendo il controllo su tutto.
Chiusi l'applicazione con uno sbuffo e bloccai il display, dopo aver gettato uno sguardo all'orario: era ormai trascorsa un'ora da quando la monegasca era uscita dalla stanza senza tornare.
Contenni l'allarmismo, nell'alzarmi dalla chaise longue per scacciare i pensieri e concentrarmi su di lei. Senza recuperare la giacca abbandonata sui cuscini, presi la chiave magnetica della stanza lasciata sulla scrivania e mi diressi alla porta. In qualsiasi angolo di quell'immenso hotel lei fosse stata, l'avrei trovata nel giro di mezz'ora.
Salii sul primo ascensore disponibile e scesi al piano terra, dove si trovavano bar e ristoranti. Ogni salone era gremito dalla folla che festeggiava dopo la serata del Festival, e guardandomi intorno optai per controllare all'interno del Bar 58.
Entrandovi, il chiacchiericcio calò, sovrastato da un sottofondo di musica jazz suonata dal vivo. Gli arredi, dal marrone al color crema, gli conferivano la raffinatezza di un'altra epoca, che ben si sposava con lo status della clientela.
Tirai un sospiro di sollievo quando, tra completi eleganti e vestiti sfarzosi, scorsi il suo abito rosa. Desirée sedeva al bancone e rigirava il vino rosso in un calice. Era loquace, espansiva con il paio di sconosciuti che la attorniava; parlava e rideva come se fossero stati degli amici di vecchia data.
Il divertimento, tuttavia, era agli sgoccioli. Era visibile da lontano un miglio che fosse stanca, dopo chissà quanti bicchieri di vino e i litigi della serata, ed era mio compito assicurarmi che tornasse nella stanza senza farsi del male.
Mi avvicinai a passo lento, destreggiandomi tra i presenti, e arrivai alle sue spalle. Chiamare il suo nome sarebbe stato inutile, vista l'unione di musica e vociare, quindi le toccai ripetutamente la spalla nuda.
Sussultò per lo spavento improvviso e si voltò con rapidità, dimenticandosi di avere un calice mezzo pieno tra le dita. Mi ritrovai con la camicia umida, il vino rosso rovesciato addosso e una macchia che non sarebbe andata via facilmente.
Desirée tentò di mascherare una risata portandosi una mano alla bocca, ma il diletto arrivò agli occhi e si unì alla patina lucida dovuta all'ebbrezza. Avvampò, le guance arrossate, e non si trattenne: rise di gusto e chinò il capo per provare a smettere.
Nonostante non fosse lucida, fu la prima volta che, in quel mese, la vidi davvero spontanea.
«Non è un bel modo di salutarmi, ma almeno è originale» commentai con un sorriso divertito. Riacquisii un'espressione più seria quando tornai a preoccuparmi per lei. «Che stai facendo?»
«Niente!» esclamò con estrema gioia. «Stavo parlando del Festival con alcune persone. Lei è Sophie e lui...» L'allegria svanì nel momento in cui si voltò e notò che la sua compagnia temporanea si era dileguata, lasciandola sola. «Oh» mormorò, delusa.
Si rincuorò con un ultimo sorso di vino, lasciando che alcune gocce campeggiassero sul fondo del bicchiere.
Con delicatezza, serrai le dita attorno al calice, sfiorando le sue. Uno scambio di sguardi bastò a esplicitare la sua intensità nonostante fosse stato effimero.
«Torniamo in camera, va bene?» le proposi, sottraendole il bicchiere per riporlo sul balcone. «Sei stanca e domani dobbiamo tornare a Monaco. Devi riposarti».
Mise su un broncio contrariato, arricciando le labbra, ma non si oppose quando le afferrai le mani per aiutarla ad alzarsi dallo sgabello. Mi assicurai che fosse stabile sui tacchi e feci scivolare le dita sul suo fianco per migliorare il suo equilibrio.
«La smetti di darmi consigli?» si lamentò. «Non mi piace che tu finga che ti importi di me» biascicò.
Percepii una lieve fitta al cuore, a quelle parole. Sì, forse nutrivo un minimo interesse nei suoi confronti, ma era solo perché condividevamo un frammento di dolore senza che lei ne fosse a conoscenza.
Nel nostro sangue scorre la medesima sofferenza, Daisy.
«Sai com'è, sono l'unico a essere qui con te» le ricordai, mentre uscivamo dal bar a passo lento. Imboccai il corridoio e chiamai un ascensore. «Se dovesse succederti qualcosa, ne avrei la piena responsabilità».
L'ascensore arrivò prima che lei potesse replicare ed entrammo. Stanca del contatto con il mio corpo, si separò da me per appoggiarsi a una delle pareti della cabina. Socchiuse le palpebre per la stanchezza.
«Dubito che tu abbia passato l'ultima ora a bere solo per divertirti» supposi per interrompere il silenzio. «Che ti prende?»
Era una delle prime volte che indagavo oltre la sua facciata, e mi sentii in colpa per approfittare della sua condizione di vulnerabilità, ma la curiosità sovrastò quella sensazione.
«Odio discutere con mio padre» mugolò, sorreggendosi al corrimano dorato dell'ascensore. «E la storia di Valentin... Vorrei solo dimenticarmene» sospirò.
Le porte dell'ascensore si spalancarono sul corridoio delle stanze dopo un tintinnio. Desirée si raddrizzò e mosse un paio di passi per uscire, io rimasi al suo seguito.
Rischiò di inciampare più volte nella gonna ampia e, arrangiandosi per evitare il mio aiuto, mantenne l'equilibrio tastando la parete con la mano. I miei occhi non si staccarono da lei, i riflessi pronti ad aiutarla in caso di necessità.
Tuttavia, arrivò sana e salva alla porta della stanza che sbloccai con la chiave magnetica. La spinse verso l'interno e varcò la soglia.
Chiusi la porta e, nel silenzio assoluto, la udii mentre tirava su con il naso. Attirò subito la mia attenzione; entrò nel mio campo visivo proprio nel momento in cui si lasciò cadere sul letto, le mani abbandonate in grembo e il capo chino. Spazzò via una lacrima che le rotolò sulla guancia.
«Daisy?» la richiamai, avvicinandomi. Mi inginocchiai dinanzi a lei per studiare il suo viso. Stava davvero piangendo, in un'inaspettata manifestazione di fragilità, pur contenendo i singhiozzi. Le sfiorai un ginocchio per tranquillizzarla. «Che succede?»
Liberò un lamento e scosse il capo, restia nel confessare il suo stato d'animo. L'alcol che le circolava in corpo, tuttavia, la indusse ad agire nella maniera opposta.
«Non sono ciò che mio padre o gli altri si aspettano da me» farfugliò. «Mai abbastanza intelligente, mai abbastanza magra, sempre a comportarmi nel modo sbagliato» elencò. «Non doveva andare così».
Il modo in cui trascinò ogni parola, mescolandola con quella successiva a formare frasi pressoché incomprensibili, mi fece intendere che quella confessione fosse solo dovuta al vino. Se fosse stata sobria, si sarebbe ritratta a ogni attenzione.
«Ma non devi essere impeccabile» tentai di tranquillizzarla.
Lanciai uno sguardo al suo viso: le occhiaie si vedevano attraverso il correttore ormai sciolto sulle guance, e le venule arrossate nelle sclere sottolineavano la stanchezza.
Lemma dopo lemma, decisi di aiutarla a prepararsi per la notte. Le accarezzai il polpaccio coperto dalla gonna fino a raggiungere la caviglia e, con cautela, le sfilai le scarpe.
«Non hai mai pensato di soddisfare le tue aspettative, invece di quelle altrui?» le chiesi. «Non hai mai voluto essere felice, invece di essere perfetta?» la incalzai.
Le mie mani risalirono e afferrai le sue per invogliarla ad alzarsi dal letto. Contrariata, si tirò su e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. La invitai a girarsi con un gesto carezzevole, così che io potessi abbassare la zip del vestito.
Non agivo con malizia. Quella sera, dopo l'accaduto, volevo solo aiutarla.
«Devo essere perfetta, Isaac» rilanciò. «Presto avrò tra le mani qualcosa di molto più grande di me e non posso rischiare di fallire». Scrollò il corpo per far sì che il vestito slacciato scivolasse via, cadendo sul pavimento. «Eppure, sto sbagliando agli occhi di tutti e, soprattutto, sto deludendo mio padre».
Approfittando del fatto che mi stesse ancora dando le spalle, le raccolsi i capelli in una coda alta e la fissai con l'unico elastico che avevo a disposizione: quello di Giselle, mio malgrado.
«Te l'ho già detto prima: non ho dubbi sul fatto che tuo padre ti voglia bene nonostante tutto» le assicurai. «Queste sono piccolezze. Di sicuro, l'amore che ha per l'azienda non supera quello che prova per te».
Fece spallucce, voltandosi. Il broncio era ancora protagonista del suo viso. «Sto iniziando a dubitarne».
«Non pensarci adesso, okay?» la invitai. Ancora una volta, mi persi nelle sue iridi nocciola e lei non scisse lo scambio di sguardi; ammaliato dalla sua vulnerabilità, le afferrai una mano. Fu un mero sfioramento incerto. «Ti do una mano a struccarti e andiamo a dormire».
Desirée sbuffò quando iniziai a condurla verso il bagno. «So farlo benissimo da sola».
«Lasciami essere altruista. La nostra tregua vale ancora, no?»
Il mutismo comunicò la sua resa e si lasciò guidare. Varcammo la soglia della piccola stanza e accesi la luce, un fascio caldo che ne illuminò i pregiati arredi marmorei.
Giunti dinanzi al mobile del lavandino, colmo degli averi di Desirée sparsi sulla sua superficie, mi affaccendai per trovare lo struccante e un paio di dischetti di cotone.
Per la prima volta dopo anni, mi sembrò di rivivere i momenti in cui mi prendevo cura della mia sorellina, a Hackney. Starle accanto all'inizio dell'adolescenza, quando io, lei e Michael abitavamo solo con mia madre, mi aveva abituato a prendermi cura di una donna in ogni situazione.
«Togliti questa camicia, ti prego» ridacchiò Desirée, interrompendo i miei pensieri e le mie azioni. Compì un passo per azzerare la distanza che ancora ci separava e, senza attendere una replica, iniziò a sfilare i bottoni dalle asole. «Puzza di vino» constatò.
Non la fermai: inumidendomi il labbro inferiore con la lingua e tenendo gli occhi fissi su di lei, era innegabile l'effetto che le sue mani avevano su di me. Era un mero sfioramento, ma mi fece avvampare come se le sue dita mi stessero esplorando ben oltre il tessuto sottile.
Alzai le mani per annunciarle la mia resa. «Era il tuo calice, Daisy. Il tuo vino su una camicia di Dior» la canzonai con un ghigno.
Lasciai ricadere le braccia lungo i fianchi e lei ne approfittò per sfilarmi la camicia. Denudò così il mio petto; spostò la stoffa leggera oltre le spalle e la fece scivolare lungo gli arti. Ben presto, si accartocciò ai miei piedi.
Le sue mani restarono su di me. Mi sfiorava i bicipiti scoperti e profilava i contorni dei tatuaggi con i polpastrelli bollenti, senza distogliere lo sguardo dal reticolo che si estendeva fino ai pettorali. Schiuse le labbra carnose, ma non proferì parola.
Si rese conto di essere immobile solo quando, scrollando il capo, si ridestò e tornò a prestare attenzione al mio viso. Un solo passo le permise di recedere, ponendo la distanza necessaria per non cedere.
E uno spiraglio di raziocinio sembrò fare capolino tra le fitte nubi dell'ebbrezza.
«Dai» smorzai la tensione, imbevendo il primo dischetto di cotone con lo struccante, «concludiamo questa giornata. È stata stancante» dichiarai.
Le presi il mento tra le dita in un gesto carezzevole, reclinandole appena il capo per facilitare l'operazione. Con altrettanta delicatezza, le sfregai il dischetto sulle palpebre per rimuovere il trucco rimasto, insieme a quello sciolto dalle lacrime.
L'ennesimo silenzio che era calato sembrò calmarla. Al mio tocco, rilassò le spalle tese e non si oppose.
«Sai distinguere lo struccante dal tonico, oltre a rendermi la vita un inferno?» sogghignò.
Imbevuto un altro dischetto, abbassai la mano per struccarle le labbra. Sfiorai così la loro morbidezza, rimuovendo il rossetto resistito alla serata.
Accennai un sorriso, in risposta al suo quesito. «È scritto sulla confezione» premisi, «ma diciamo che sono cresciuto tra le donne. Mia madre lavorava sempre ed ero io a insegnare queste cose alla mia sorellina». Sentii la voce mozzarsi, al solo pensiero, e gli occhi inumidirsi, ma ricacciai indietro la vulnerabilità. «O meglio, mi arrangiavo», feci spallucce.
Desirée si lasciò sfuggire una risata amara, tinta di tristezza, ancora annebbiata dall'alcol. «Valentin non saprebbe nemmeno da dove cominciare» mormorò. «Non che sia tenuto a farlo, ma non gli è mai importato di essere... gentile con me» confessò, esalando un sospiro. Senza interromperla, la ascoltai anche mentre gettai i dischetti usati nel cestino. «Vuole solo dimostrarsi superiore» concluse.
«Non pensare di nuovo a lui, dai» le consigliai. Cercai disperatamente di instaurare un contatto visivo con lei, di farle sentire le mie parole sottopelle. «Andiamo a dormire?»
Annuì con un cenno del capo, prima di avviarsi verso l'uscita del bagno per raggiungere il letto. «Domani dobbiamo tornare presto, se vogliamo evitare che le strade vengano bloccate. I campionati minori correranno la mattina e... Dio, sarà un delirio» sbuffò.
Si lasciò cadere sul materasso, rimanendo in intimo e senza preoccuparsi di indossare un pigiama.
«Sei tu l'autista, Daisy. Se non seguissi te, rimarrei qui» scherzai.
La sua risatina riempì il silenzio e accompagnò il fruscio del lenzuolo che spostai. Mi sfilai il pantalone elegante, lasciando anch'esso a terra nel disordine che avevamo creato.
Occupò il suo lato del letto senza proferire alcuna replica, attenta a evitarne il centro. Stesa quasi sul bordo del materasso, strinse a sé uno dei cuscini e si voltò verso la parete.
«Non osare avvicinarti» mi avvertì, la voce dura e al contempo impastata dal sonno. «L'idea di dover dormire con te è già abbastanza snervante».
«Non avevi fatto molte storie, a Cap-d'Ail» continuai a canzonarla.
«Taci» ringhiò in risposta.
Mi sdraiai, mantenendo la giusta distanza da lei, e mi sporsi verso il comodino per spegnere l'abat-jour. Il buio della notte ammantò la stanza, lasciandoci nella mera compagnia dei nostri respiri e della brezza che soffiava attraverso la finestra aperta.
Augurarmi la buonanotte non rientrò nei suoi piani: rimase in silenzio, abituandosi all'oscurità e cedendo alla stanchezza. Quando mi sentii pronto a proferire le stesse parole che mi aspettavo da lei, tuttavia, mi interruppe.
«Isaac?» mi chiamò. Le concessi di continuare, la gola produsse solo un suono gutturale. «Possiamo tornare a odiarci, da domani?» chiese.
Ridacchiai, con lo sguardo fisso sul soffitto e le dita intrecciate sullo stomaco. Nonostante la sua versione più serena e rilassata fosse una piacevole compagnia, quella era l'opzione più conveniente per entrambi.
Glielo assicurai con un semplice: «Torneremo a odiarci, Daisy».
Ma vorrei farlo senza allontanarmi da te.
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Nota dell'autrice
Ciao a tutti amici, come state? <3
Eccoci qui con il ventiquattresimo capitolo di AD!
Faccio pena, non aggiornavo da venti giorni, ma credetemi che questo capitolo è stato un parto (riscritto due volte) e ancora adesso mi sembra impresentabile. Prometto che mi farò perdonare con il prossimo :')
Ciononostante, abbiamo un ulteriore avvicinamento di Desirée e Isaac. Tra una macchia di vino su una camicia e la caduta di altri frammenti delle loro facciate di perfezione, la tensione è palpabile e – ve lo dico – culminerà nel prossimo capitolo, durante l'inimitabile Gran Premio di Monaco.
Siete pronti? Vi aspetto!
A presto <3
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