22. Rébellion

IT: ribellione

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20 maggio 2023
Monaco-Ville, Principato di Monaco

Il rombo della Ducati noleggiata per la serata si acquietò quando spensi il veicolo ai piedi dell'imponente Tour Odeon, dove abitava Desirée e dietro cui si stagliava un caldo tramonto d'inizio estate. Mi tolsi il casco, frizionai i capelli con le dita e scesi dal sellino, abbandonando il peso su quest'ultimo; a braccia conserte, mi rilassai contro la vettura con lo sguardo fisso sul portone vetrato del grattacielo. Sulla moto abbandonai solo un sacchetto che conteneva una cena improvvisata e un telo piegato alla meno peggio.

Non sapevo di preciso cosa mi avesse spinto a cambiare i piani della ragazza a sua insaputa, ma i piccoli stralci di conversazione intrattenuti la sera precedente avevano generato la voglia di liberarla dalla cena di gala e da tutte le sue costrizioni: volevo conoscerla e superare il velo di segretezza di cui si vestiva, sinceramente e strategicamente. Forse era stata la mia indole pronta ad aiutare il prossimo, o la necessità di acquisire la consapevolezza di chi, ormai, guardavo negli occhi ogni giorno. Per me, Desirée era ancora una sconosciuta come quando ero atterrato a Nizza, un mese prima.

Per allontanarla dai costrutti di plastica e finzione di Monaco, avevo deciso di portarla oltre i confini del Principato per un paio d'ore. Le spiagge della Costa Azzurra erano numerose, ma per accorciare la strada avevo optato per quella di Cap-d'Ail.

Nell'attesa, accesi una sigaretta e me la infilai tra le labbra. L'odore forte del fumo e la cenere che cadeva al suolo erano rilassanti, il modo migliore di passare il tempo nonostante la sua nocività. Fu dopo pochi minuti, quando consumai il tabacco fino al mozzicone e lo gettai a terra, che Desirée uscì dal grattacielo affiancata da un uomo alto e biondo, il fisico possente.

Tacchi a spillo, un vestito nero la cui scollatura non lasciava nulla all'immaginazione e lo sguardo sorpreso, una volta alzato su di me. Due trecce alla francese le cadevano sulle spalle, contornando il viso dall'espressione dura. Un fascino pressoché impareggiabile nascosto dalla ritrosia che si sforzava di mostrare.

Accelerò il passo nella mia direzione, ma l'uomo accanto a lei la invitò a fermarsi, preoccupato. Ipotizzai che si trattasse di una sorta di guardia del corpo, vista l'importanza degli Aubert sul territorio.

«Tranquillo, Ivan» lo rassicurò, liberandosi della sua protezione e riportando l'attenzione sulla mia figura. «Spero che tu non sia qui per me. Ho un impegno e non sei coinvolto» dichiarò perentoria, incapace di accettare obiezioni.

Feci spallucce, le braccia ancora incrociate a mo' di scudo dal magnetismo che mi attirava verso di lei. «Si dà il caso che io abbia noleggiato una moto e due caschi, quindi sì, sono qui per te» ammisi. «Ieri non mi sembrava che tu fossi così entusiasta di andare a quella cena di gala».

«Devo andarci, Isaac» replicò. «Ora vattene, Valentin mi starà già aspettando lì».

Una risata amara mi sfuggì dalle labbra, in risposta alla sua finta convinzione. «Lo stesso Valentin che ieri hai rifiutato accusandolo di tradimento? Ho quasi pensato che stessi aprendo gli occhi, ma evidentemente mi sbagliavo».

Nelle sue iridi nocciola ribollì un connubio di rabbia per la mia intromissione e paura per essere stata scoperta, ma non si scompose. Fredda come il marmo, rimase immobile e calma.

«Ti stai sbagliando su tutto» mi incolpò. «Finiscila con questa pagliacciata e vai da tua figlia».

«Sai, Daisy» non demorsi, «sarebbe un vero peccato se rifiutassi». Iniziai ad afferrare il casco per infilarlo e allacciarlo, le pupille che non si staccavano dal suo corpo esile su cui il nero era ipnotizzante. «Vuoi continuare a chiuderti dietro le sbarre di questo circo o vuoi assaporare un po' di libertà? Solo per una sera» promisi. «Giuro che ti lascerò vivere la tua vita, se accetti».

La mia supplica la destabilizzò, portandola a vacillare sulle décolleté. Pensierosa, fu interrotta dalla voce profonda e dalla presunta cadenza slava di Ivan, che stazionava alle sue spalle.

«Mademoiselle, il suo fidanzato la starà aspettando. È ora di andare» la informò.

Lei gli gettò un'occhiata effimera, poi tornò a guardarmi; nelle sclere, la paura venne rimpiazzata da un luccichio che sapeva di ribellione, in contrasto con l'espressione seria.

«Non dire niente a mio padre, Ivan» ordinò all'uomo. «Voglio solo capire cos'ha in mente. Torno tra un paio d'ore» continuò, compiendo un altro paio di passi in direzione della moto.

La guardia non poté che obbedire alle direttive della figlia del capo, e si limitò a rientrare nel grattacielo.

«Sapevo che ti avrei convinta» dichiarai fiero. Un ghigno incontenibile mi nacque sul viso.

Lei sbuffò. «Fa' sì che questo supplizio duri il meno possibile» si lamentò.

Ignorando il tono infastidito, prelevai il secondo casco e avvicinarmi a lei. Dal suo sguardo continuava a trapelare la seccatura, che trasparve anche quando arricciò le labbra, contrariata.

«Mi spettinerà i capelli» obiettò.

«Poco importa» sorvolai, procedendo con l'infilarle il casco che schiacciò le trecce. Glielo allacciai, sfiorando la sua liscia pelle olivastra. «Non metterei mai a rischio la vita della futura amministratrice delegata della Société Aubert» scherzai.

Ancora infastidita, si scansò dal mio tocco indietreggiando e, riflessiva, puntò lo sguardo sulla gonna lunga e stretta dell'abito. Tornò quindi a guardarmi, sempre più irritata dalla situazione.

«Come credi che io possa salire su una moto con questo?», e lo indicò. Inchiodò le mani sui fianchi e sbuffò. «Si sta rivelando una pessima idea» commentò.

«Se mi permetti, Daisy» risposi in tono rilassato e la voce bassa, prima di inginocchiarmi dinanzi a lei. Le lanciai un'occhiata dal basso per perdermi nel fascino della sua espressione dura, dei lineamenti evidenziati, poi afferrai due lembi della gonna dell'abito. Bastò un po' di sforzo per strapparne il tessuto, creando uno spacco che favorisse i suoi movimenti. «Non ringraziarmi, si tratta della galanteria rozza della periferia londinese» ammiccai.

«Isaac!» strillò, gli occhi sgranati per la sorpresa mentre mi rialzai. «È un vestito di Roberto Cavalli da duemila euro!» mi ammonì.

«Sono spiccioli, per te» puntualizzai. Mi voltai dandole le spalle e salii a bordo della moto. «Hai intenzione di stare lì a guardarmi trasmettendomi tutto l'odio che provi per me? Prometto che potremo tornare a detestarci tra un paio d'ore» giurai.

Lei si arrese e montò in sella, sistemandosi dietro di me. «Nessuna tregua, io ti detesto anche adesso» asserì.

Mi concentrai sul suo viso tramite uno degli specchietti, cercando di contenere un sorriso divertito che bramava di nascere. «Tieniti, invece di lamentarti» le consigliai, vista la distanza che si costringeva a mantenere da me persino sul sellino.

Incrociò le braccia al petto e si imbronciò. «Pretendi troppo».

Feci spallucce, il ghigno ancora presente, e impugnai le manopole iniziando a dare gas. Il rombo del motore riempì il silenzio; spinsi indietro il cavalletto e, in pochi secondi, accelerai per uscire da Avenue de l'Annonciade e scendere in direzione Larvotto.

Desirée sussultò, e fu celere nell'allacciarmi le braccia in vita, stringendosi a me e colmando il vuoto alle mie spalle. «Sei pazzo!» mi accusò. «Non farlo mai più».

«Tu hai fatto lo stesso in macchina, da quel che ricordo» la schernii, alzando la voce per sovrastare il rumore del veicolo e del traffico. Imboccai la strada che da La Condamine mi avrebbe condotto a Fontvieille, quindi fuori dai confini del Principato.

Non rispose alla mia precisazione, e analizzai il motivo del suo silenzio improvviso tramite lo specchietto: si focalizzò sul paesaggio circostante, benché lo conoscesse a memoria, e studiò ogni edificio con attenzione senza perdersi alcun dettaglio. Una concentrazione che aumentò quando costeggiammo lo stadio della città, il Louis II, superando il confine francese.

La Costa Azzurra, se percorsa sul litorale, presentava pini marittimi e onde del mare che si scontravano con gli scogli all'orizzonte, il tutto condito dalle sfumature del tramonto nascoste tra le fronde degli alberi.

Il panorama, insieme alle mani di Desirée che mi sfioravano la giacca di pelle all'altezza dello stomaco, generò una scarica di brividi che mi scosse la spina dorsale. Bellezza e fascino, spensieratezza e divieto a confronto in un'unione letale e ardente.

La spiaggia che avevo scelto si trovava all'inizio di Cap-d'Ail, oltre una serie di campi da tennis dinanzi a cui iniziai a rallentare. Occupai il primo parcheggio libero che trovai.

«Siamo già arrivati?» mormorò Desirée nel silenzio lasciato dal motore ormai spento, mentre ero intento a togliermi il casco. Lei mi imitò e si guardò intorno, curiosa. «Dove siamo?» aggiunse.

«Cap-d'Ail» risposi, scendendo dalla moto. «Non dirmi che abiti a due passi da qui e non ci sei mai stata».

Smontò dal veicolo e barcollò sulle décolleté, ma recuperò l'equilibrio nell'immediato. «Solo di passaggio. Non esco spesso dal Principato, a meno che non sia necessario» confessò.

«E io che pensavo fossi sempre in viaggio» ammisi, sinceramente sorpreso. Una volta riposti i caschi, afferrai il sacchetto e infilai in tasca le chiavi della moto. «Stasera nessuna cena stellata. So che le tue abitudini sono un po' diverse, ma credo che allontanarti da quel mondo finto ti faccia bene» affermai.

Iniziai a camminare verso la spiaggia a passo moderato, per facilitarle la strada sui tacchi. Mi seguì, forse mostrando un briciolo di fiducia in più nei miei confronti e nelle mie intenzioni.

«Un giorno la smetterai di giudicare il posto dove vivo e il modo in cui sono stata cresciuta» decretò. «Monaco non è solo finzione. A mio parere, è la dimostrazione che con l'impegno puoi ottenere lo stile di vita a cui ambisci e godertelo dopo tutta la fatica. Poi è festa, è spensieratezza...» elencò, con una franchezza tale da lasciarmi attonito. Non aveva mai parlato così liberamente con me, ma mi finsi indifferente per lasciare che continuasse. «Non c'è solo il marcio che vedi tu, sai?»

«Non lo metto in dubbio, Daisy. Sto solo dicendo ciò che ho notato finora, ma ho ancora il tempo di cambiare idea» le concessi.

Mi arrestai quando arrivammo al limite del marciapiede, oltre cui cominciava la distesa di sabbia. Desirée si guardò intorno e studiò il silenzio che la circondava, vista l'assenza di persone, fatta eccezione per la musica che giungeva ovattata da un locale poco distante. La sua attenzione, poi, piombò sulla spiaggia.

«Ti consiglierei di togliere i tacchi».

«Non se ne parla» si impuntò. «Non li toglierò e tantomeno li sporcherò di sabbia. Non hai idea di quanto valgano».

Mi arresi alla sua immancabile spocchia e mi avvicinai a lei, pronto ad attuare l'unica soluzione al problema delle décolleté irremovibili. La sfiorai per afferrarla, una mano dietro la schiena e l'altra dietro le ginocchia, il sacchetto stretto fra le dita. Sussultò quando la sollevai contro ogni sua aspettativa.

«Non strillare» mi raccomandai e mi lasciai scappare un risolino. Mossi i primi passi sulla sabbia morbida.

«Se stai cercando di fare ogni cosa presente sulla lista dei motivi per cui ti odio, stai andando benissimo» roteò gli occhi al cielo.

«Peccato che tu sappia dimostrarlo solo a parole» la canzonai. «O tolleri tutti i miei gesti, o nascondi che questi ti piacciano».

Si trincerò in un altro silenzio proprio nell'istante in cui la lasciai scendere, assicurandomi che non perdesse l'equilibrio sulla sabbia. Il suo mutismo fu la migliore delle conferme.

«Come immaginavo» dichiarai fiero.

Continuò a non rispondere, fingendo di stirare le pieghe del vestito con i palmi, e io assecondai la sua scarsa loquacità: nella quiete, distesi il telo e vi abbandonai il sacchetto con la nostra cena e una bottiglia di vino bianco, forse tra i più scadenti. Mi sedetti e mi rilassai subito, cullato dalle onde del mare e i garriti dei gabbiani.

Vidi Desirée, dal basso, che incrociò le braccia al petto invece di accomodarsi al mio fianco. E, ancora una volta, lasciò trasparire la seccatura. Era prossima una lamentela, l'ennesima di una serie.

«Io non cenerò seduta a terra sulla sabbia» sentenziò.

«Non solo siamo a terra, ma persino senza posate» aggiunsi. «E digiunare non è un'opzione».

Oltre a portarla via da una realtà rigida che la stava soffocando con la sua morsa stretta, volevo anche assicurarmi che mangiasse. Durante ogni pasto consumato insieme dal giorno del mio arrivo, l'avevo solo vista intenta a piluccare nei piatti senza assaggiarli.

Demorse senza provare a dissuadermi e fu strano, ma soddisfacente al contempo. Si sedette accanto a me sulla porzione di telo che le avevo riservato e, curiosa, sbirciò all'interno del sacchetto.

«Non puoi portare due fette di pizza incartate al supermercato a una persona abituata al caviale» mi rimproverò, impegnata a scavare nel contenuto della busta. Estrasse la bottiglia di vino e la guardò con sospetto, senza riconoscerne la marca poiché economica e di scarsa qualità. «Stai scherzando?» quasi esclamò. «E dove sono i bicchieri?»

Afferrai una delle due fette di pizza senza rimuginarci a lungo, poi la scartai. «Bere dalla bottiglia non ti farà male, e nemmeno mangiare con le mani» precisai. Gustai il primo boccone della mia cena, buona nonostante il poco sforzo che aveva richiesto.

«Dove sono finite l'eleganza e la compostezza che conoscevo?» indagò, il tono ora dilettato dalla situazione. Stava vedendo un lato di me che non era ancora venuto a galla, e la sorpresa la divertiva.

«Ricordati, Daisy: potrò anche abitare a South Kensington, ora, ma sono nato e cresciuto a Hackney» confessai. «Nessuno si fa problemi, lì, purché tutti abbiano un pezzo di pane in tavola. Tutto questo» e indicai i dintorni con un dito, «è già un grande lusso, per me». Rivelarle parte del mio passato fu spontaneo, ed ero convinto che la mia naturalezza l'avrebbe spinta a comportarsi nella medesima maniera. La guardai, trovandola ancora restia nel consumare il pasto. «Che fai, non la assaggi nemmeno?»

Contrasse la bocca in una smorfia di disgusto e scosse il capo. «Contrariamente a te, sono stata abituata a mangiare sempre su un tavolo, con le posate cambiate a ogni portata e senza sporcarmi le mani» spiegò.

«Se non vuoi sporcarti le mani, la soluzione c'è» dichiarai. Senza attendere il suo permesso, staccai un pezzetto di pizza con le dita e la avvicinai a lei. «Dai, prova» la incitai.

«Isaac, no» provò a essere autoritaria, ma le sfuggì una risatina. Portai il boccone a sfiorarle il labbro inferiore, sporcandolo di pomodoro. «Smettila!» si dimenò.

«Fai un tentativo» continuai a pregarla, tradito da un sorriso. «È buona» le assicurai.

Finalmente accettò e assaporò il boccone in silenzio, cercando di captarne il sapore. Lo gustò morso dopo morso, poi concordò con me: «Non è così male».

«Te l'avevo detto» rimarcai. Non si era accorta di avere ancora il labbro sporco di pomodoro, quindi glielo sfiorai con un dito per rimuovere la salsa, portandomelo poi alla bocca. Il gesto parve lasciarla attonita, ma fu abile nel nasconderlo pur guardandomi dritto negli occhi. «La prossima volta dovresti fidarti di più».

«Non ci sarà una prossima volta» decretò, senza tuttavia indurire il tono. Era un'affermazione, non una dichiarazione contrariata.

«Ti ricordo che devi andare al Festival di Cannes con il sottoscritto» le rammentai.

Alzò le mani manifestando la resa, in tutta risposta. «È solo un impegno della mia agenda, niente di più». Si affaccendò ad afferrare il collo della bottiglia ancora chiusa e la scosse. «Hai un cavatappi?»

«Non mi dimentico delle cose basilari» replicai, estraendone uno dalla tasca interna della giacca. Glielo porsi, ma lei lo rifiutò.

«Oh, no, Woodward» negò con il movimento di un dito. «Non credere che io lo sappia usare. Nella vita ho ricevuto solo bottiglie già aperte, se non addirittura il vino versato direttamente nel calice» esplicò.

Fu così che la aiutai a rimuovere il tappo di sughero, il silenzio riempito da uno scoppiettio quando la bottiglia venne aperta. Gliela passai e lei, ora evitando di opporsi, ne bevve una prima e copiosa sorsata.

«Questo fa schifo» rise. «Ma se è l'unica cosa che abbiamo, dobbiamo adeguarci».

Notai, tuttavia, che non scartò la sua fetta di pizza e non la mangiò, nonostante avesse cambiato idea. Ciò mi rese più serio, più attento alle sue azioni, e mi preoccupai quando prese un secondo sorso di vino a stomaco vuoto.

«Non mangi?» le domandai, di conseguenza.

«Devo seguire la dieta, Isaac» sospirò. «Qui sono solo carboidrati e Céline non sarebbe contenta, se lo scoprisse».

La sua sincerità inaspettata mi fece pensare che l'alcolico le avesse già dato alla testa, nonostante fosse totalmente lucida. Io, dal canto mio, continuai a insistere.

«Prendi almeno qualche boccone» consigliai, offrendole la sua fetta. «Non puoi stare a digiuno, rischi di sentirti male come quel giorno in palestra» le ricordai.

«Ma stavo benissimo» obiettò, nel vano tentativo di nascondere la realtà a una persona che aveva imparato a vedere tanto, forse troppo dei comportamenti altrui.

Tuttavia, mi arresi: se Desirée non voleva lasciarsi aiutare, sarebbe stato impossibile convincerla del contrario. Mancava il mezzo della sua iniziativa e ogni ausilio sarebbe stato respinto, senza quell'arma preziosa.

Finii di mangiare e abbandonai l'incarto vuoto nel sacchetto, mentre la ragazza al mio fianco continuò a sorseggiare il vino. Sembrava che lo bevesse per distrazione, più che per un effettivo apprezzamento del gusto.

«Sei pregata di lasciarne qualche goccia per me» sottolineai.

Era impossibile non focalizzarsi sui suoi gesti o toglierle gli occhi di dosso. Il suo magnetismo continuava a essere potente, difficile da ignorare e negare. Quando inclinava la testa all'indietro per inghiottire il liquido, quando socchiudeva le palpebre per rilassarsi e le sue labbra carnose si incollavano all'anello: tutto, di lei, aveva il sapore del proibito.

Era un divieto letale, se non rispettato, e inconsciamente sapevo che sarei morto pur di sfiorarla.

«Non lo berrò tutto, stai–» Lo squillo improvviso del suo cellulare, che campeggiava sul telo, la interruppe. Sullo schermo comparve il contatto di Valentin, ma lei rifiutò la chiamata e intristì l'espressione del viso.

Dopo tutti gli atteggiamenti bizzarri che Desirée aveva intrattenuto in presenza del fidanzato, non avevo alcun dubbio circa i problemi della loro relazione. Avevo colto i primi segnali, consapevole che non fossero gli unici, ma ero certo che qualcosa mi sfuggisse ancora. Ragion per cui, in quel momento, fui colpito da un'idea repentina.

«Facciamo un gioco» proposi, attirando la sua attenzione. Conscio di quanto amasse l'azzardo e l'adrenalina del rischio, sapevo che avrei lanciato la giusta esca. «Per ogni domanda che farò io su di te, avrai diritto a farmene una tu» introdussi. «Le risposte dovranno essere sincere al cento percento, ma possiamo rifiutarci di rispondere e bere un sorso di vino. Perde chi diventa brillo per primo, ovviamente» dichiarai, il sorriso che nacque per il piacere della sfida.

«A volte hai iniziative interessanti» convenne. «Ci sto, Woodward. Apri le danze».

«Perché ieri avevi la guancia arrossata? È successo qualcosa con Valentin?» curiosai. Era un dubbio che mi perseguitava da quando l'avevo vista al Méridien, pur evitando di scovare i particolari.

Si rifiutò di fornirmi una risposta e bevve altro vino, il liquidò che sfiorò già la metà della bottiglia. Non compì neanche lo sforzo di giustificarsi, ma quella tacita replica fu la più chiara delle conferme.

«Tocca a me» disse, afferrando il testimone. Senza peli sulla lingua, esternò il suo quesito: «Chi è la madre di Erin?»

Sospirai, ma non mi sporsi per agguantare la bottiglia. Al contrario, pensai che parlare di Giselle, dopotutto, sarebbe stato piacevole: conservavo un bel ricordo delle prime settimane della nostra relazione, prima che tutto crollasse per colpa mia.

«Si chiama Giselle ed è australiana. Quando l'ho conosciuta viveva in Inghilterra per approfondire i suoi studi in interior design, poi ci sono state delle complicanze che l'hanno costretta a rimanere lì, tra cui la gravidanza» confessai, ma non mi addentrai nei dettagli. «Ora abita a Melbourne, dov'è nata, e ha una vita serena» conclusi. Desirée, però, non era la sola ad avere paura di mostrarsi vulnerabile, e quando percepii il nascente timore di sgretolarmi decisi di continuare il gioco. «È il mio turno, ora. Essere a capo della Société Aubert è davvero il tuo sogno?» A quesito fatto, mi voltai per guardarla ancora in viso.

Si abbandonò a un respiro profondo, ma quella volta non esitò a rispondere. «Sono stata cresciuta per questo, dato che papà ha sempre visto in me la sua unica erede. Diciamo che è anche il motivo per cui non posso e non voglio deluderlo, qualsiasi cosa lui si aspetti da me» premise. «Ma no, non è davvero ciò che voglio fare. Ci tengo tanto perché amo la città in cui vivo e l'azienda ne controlla una buona parte, ma io avrei voluto studiare moda e, chissà, diventare una stilista o una persona celebre in quel campo» confessò, attirando il mio interesse. Mi persi ad ascoltarla, mentre lei fissava, ipnotizzata, le onde increspate del mare e il buio che calava. «Da piccola mi piaceva abbozzare abiti, completi... qualsiasi cosa avesse a che fare con l'abbigliamento. Oggi, invece, posso solo dimostrarlo vestendomi in maniera impeccabile, ma senza approfondire».

I miei dubbi si rivelarono veritieri, dunque. Desirée non era solo la ragazza perfetta che voleva essere, ma nascondeva un cumulo di ambizioni cancellate per la soddisfazione altrui, di sogni annichiliti per il volere di qualcuno di più potente.

Era inutile dire che la capivo, e che mi rividi in ogni parola di quella confessione. Anch'io ero stato costretto a conseguire una laurea in economia tra le mura soffocanti di Oxford, quando avrei voluto disegnare e liberare un'arte destinata a rimanere segreta. Eravamo solo due persone svuotate pronte a essere modellate da obblighi e costrizioni, incapaci di ribellarsi.

La nostra pausa riflessiva non durò a lungo, interrotta dalla smania di Desirée di continuare il gioco. Ci aveva preso gusto, quindi procedette con la seconda domanda: «Com'è finita tra te e Giselle?»

Il mero ricordo dei miei errori e della persona orribile che ero stato in quel periodo mi fece rabbrividire, e mi chiuse in me stesso. Con Giselle, la mia Ellie, avevo sbagliato dal primo giorno e non avrei avuto una vita lunga abbastanza da riuscire a perdonarmi, tantomeno ad accettarlo. Pertanto, allungai la mano in direzione della bottiglia e la strinsi tra le dita.

Buttai giù diversi e lunghi sorsi di vino, che bruciarono al principio della gola prima di scivolare verso lo stomaco, lasciando che poco liquido campeggiasse sul fondo. Ero dilaniato dalla vergogna e non avrei mai rivelato a Desirée il tipo di uomo – se così potevo essere definito – che ero stato in quel periodo buio e all'apparenza insuperabile.

Stavo gustando la mia redenzione, era vero, ma la memoria conservava numerose cicatrici indelebili di ferite autoinflitte.

Quell'alcolico scadente mi annebbiò subito i pensieri, e scossi la bottiglia emettendo un risolino. «Abbiamo finito anche il vino» constatai.

«Facciamo pena» commentò lei, rifugiandosi poi in un silenzio rilassante.

Passammo una decina di minuti nella quiete, in parte spenti dall'effetto dell'alcol che rallentò i riflessi e i pensieri di entrambi. Le onde si infrangevano sulla costa e il loro movimento, illuminato dalla luna piena che ora regnava nel cielo, fu tutto ciò su cui ci concentrammo invece di parlare. Di lì a pochi minuti avremmo mantenuto la promessa di tornare a odiarci, come ci avevano imposto di fare, e quella piccola parentesi di libertà sarebbe giunta al termine.

Un fruscio improvviso, tuttavia, spezzò quel nuovo equilibrio. Desirée si alzò in piedi, il tessuto dell'abito che danzava secondo il soffio della brezza marina, e si liberò delle décolleté per godersi la sabbia ormai fresca.

«Che fai?» le chiesi, allora.

Mi lanciò un'occhiata, prima di tornare a guardare la distesa d'acqua scura e infinita. «Vorrei fare una nuotata, prima di tornare».

«Ma non hai nemmeno il costume» obiettai.

«Qualcuno mi ha insegnato a adattarmi a ogni circostanza, stasera» concluse. Mi dedicò un occhiolino, ma non ebbi il tempo di replicare poiché lei iniziò a camminare in direzione della battigia.

C'era un fattore tanto intenso quanto a me ignoto che mi attirava a lei, e che mi indusse a replicare i suoi movimenti: mi alzai per seguirla, sfilandomi le scarpe e la giacca, e la raggiunsi con ampie falcate.

Tra movenze e pensieri flemmatici, acquietati dalla leggera ebbrezza dovuta al vino, si fermò sulla riva. Osservò il litorale e lasciò che l'acqua le carezzasse i piedi, impregnando l'orlo del vestito.

«Hai fatto nascere in me una nuova paura, Isaac» proferì, il tono basso e il mormorio incerto.

Un ultimo passo mi portò a sostare alle sue spalle, con pochi centimetri a dividerci. «Posso sapere quale?» indagai.

Quello non era certo l'obiettivo delle conversazioni che avevamo intrattenuto durante il gioco alcolico, pertanto la curiosità salì alle stelle.

«Quella di non sentirmi mai più libera come stasera» ammise in un sussurro flebile.

Fu una confessione semplice, priva di dettagli eclatanti, ma fu anche la ragione del brivido che mi serpeggiò lungo gli arti. Il suo era un timore radicato nei suoi obblighi imprescindibili, ma apprenderlo da lei era bizzarro.

Benedetta teoria dell'in vino veritas.

Azzerai il vuoto che aleggiava tra di noi portando la mano sulla sua spalla e le sfiorai la spallina dell'abito. Inspirai il profumo vanigliato della sua pelle calda, socchiudendo le palpebre per imprimerlo nella mia memoria.

«Facciamo sì che conti, allora» proposi.

Iniziai a sfilarle l'abito, accompagnato dal gemito con cui sussultò, incurante di lasciarlo cadere e che il mare lo inzuppasse. Non importava più il suo immenso valore, ora attribuito al momento di ribellione e libertà che stavamo vivendo.

Le trecce le accarezzavano la schiena e lei rimase a seno nudo, indossando solo la parte inferiore dell'intimo; ogni singolo raggio di luna baciava le sue curve morbide e le evidenziava nel buio della notte.

«Conterà senza dubbio più di quanto sarò costretta ad ammettere» sospirò.

Furono le ultime parole che pronunciò prima di lasciarsi abbracciare dall'acqua tiepida della Costa Azzurra. Il suo corpo sinuoso scomparve nel buio, visibile solo dalle spalle in su. Poi si voltò per guardarmi, e nel suo sguardo scorsi un baluginio elettrizzato.

«Non vieni?» mi domandò.

Ero rimasto paralizzato dall'immagine della sua perfezione eterea circondata dall'acqua, tanto da dimenticarmi che fosse reale. Così tanta e finta perfezione da stordirmi finché lei non mi ridestò.

Soddisfai la sua richiesta e mi spogliai della polo bianca che indossavo, quindi dei jeans. Ebbi cura di abbandonarli dove l'acqua non arrivava, per utilizzarli in un secondo momento.

Non indugiai e mi tuffai per raggiungerla, consapevole dello sbaglio che stavo commettendo: stavo ammirando una donna con cui avrei dovuto competere, e che nonostante ogni controversia era già promessa a un altro. Una venerazione contro ogni regola già scritta, di cui mi dimenticai nel momento in cui, riemergendo in superficie, mi ritrovai di fronte a lei.

«Quel vino ci ha dato alla testa» scherzai.

«Ce ne pentiremo quando la nostra tregua finirà» concordò.

Spontaneo, le lambii la gota su cui era scomparso il rossore e propagai la carezza lungo la treccia, la cui punta terminava sul seno.

«Ti sfiorerei più spesso e ti direi cosa penso di ciò che vedo, se non avessi paura che lui ti facesse ancora del male» confidai in un mormorio roco.

«Potrei sopportarlo, se questa è la spensieratezza che provo con te» sussurrò, ma abbassò lo sguardo per l'incapacità di sostenere il mio. «Tu puoi liberarmi, Isaac, e odio che sia così» aggiunse.

Il movimento dell'acqua ci spingeva ad avvicinarci fino a finire fronte contro fronte. I nostri respiri si mescolavano a forgiare l'unico legame di cui potevamo godere, effimero e illusorio.

«Non ti farò rischiare» sentenziai. «Voglio che lo superi con le tue forze, intesi? Non hai bisogno di me per capire cosa devi fare per il tuo bene» le spiegai.

«Se solo fosse così semplice». Un sospiro le gonfiò il petto e, in un caduco frangente, si spinse via da me piantandomi i palmi sul petto. «Andiamo a casa».

Quando iniziò a dirigersi verso la riva e uscì dall'acqua, non potei che seguirla. La osservai mentre raccoglieva l'abito ormai zuppo, scossa da un tremolio a causa della brezza che le sfiorava il corpo bagnato. Anch'io recuperai i miei vestiti asciutti, poi la affiancai.

«Hai freddo?» le domandai.

Lei non rispose, ma i brividi non si arrestarono. Il suo silenzio funse da conferma e, senza ottenere il suo permesso, le adagiai la giacca di pelle sulle spalle. Accolse il gesto, stringendola a sé finché non raggiungemmo il telo.

«Restiamo ancora un po' qui?» insistetti, accomodandomi. «Ti prometto che torneremo a Monaco tra una decina di minuti».

L'ennesimo sospiro, quindi acconsentì con i soli gesti. Si sedette al mio fianco mentre io mi sdraiai, dopo essermi rivestito, con le braccia incrociate dietro la testa e lo sguardo volto alla coltre notturna.

«Perché hai smesso di parlarmi?» continuai la mia serie di quesiti.

Lei optò per l'ironia. «È ancora in corso il gioco della verità?» ridacchiò amaramente.

Feci spallucce, le pupille calamitate dai pochi astri visibili a occhio nudo.

«Sdraiati, Daisy. Un po' di riposo prima di tornare» le proposi. «Non vorrei guidare con l'alcol ancora in circolo».

Nonostante fosse restia, mi accontentò. Si distese con la giacca stretta sulle spalle, le mani salde sui lembi per coprire i seni come se si vergognasse della mia presenza.

«Rimedierò a tutti i miei errori, prima o poi». Fu un'asserzione fuori contesto, una promessa sancita al vento come se fosse stata la sua coscienza, a esprimersi. «Questo è uno di quelli».

Iniziava ad avere la voce impastata dal sonno; si girò su un fianco e mi rivolse le spalle.

Il silenzio in cui piombò non fu solo per la tensione nata tra noi, ma anche il frutto della stanchezza che la trascinò con sé. Ben presto, con respiri più rilassati e le trecce ormai spettinate, si addormentò al mio fianco.

Non l'avrei svegliata per tornare a casa: avremmo potuto percorrere quei pochi chilometri di strada la mattina seguente, lucidi e al sicuro. Il sonno e l'alcol non erano un connubio sano, se presente alla guida.

Così, cullato dalle onde del mare, mi appisolai anch'io.

✧✧✧

«Isaac».

Una voce femminile e famigliare mi giunse distante, ovattata, come se fosse intrappolata in una dimensione onirica. Convinto che si trattasse di un sogno, non aprii gli occhi.

«Isaac» ripeté.

Al richiamo perentorio si sommò uno scrollio sul braccio, il tocco delicato sul bicipite. Il tono si colorò d'ansia e i picchiettii si moltiplicarono, ora celeri.

Quando sollevai le palpebre, i raggi caldi del sole ammantavano la spiaggia e il cielo era dominato dalle sfumature dell'alba. Il mare era calmo, produceva l'unico rumore udibile nel giro di chilometri insieme alla voce di Desirée.

Desirée. Io e Desirée insieme, addormentati su una spiaggia di Cap-d'Ail.

Assumendo la consapevolezza della situazione, mi alzai a sedere nell'immediato e la guardai, ancora disorientato dal sonno.

«Che succede?» la interrogai.

«Abbiamo dormito qui» rispose. «Dovevi portarmi a casa, Isaac!» strillò, infilando le dita tra i capelli spettinati per il nervosismo.

Il rammaricò mi divorò le viscere, se pensavo a ciò che rischiava ogni volta che andava contro le regole ferree di cui la sua vita era costellata. Abbassai lo sguardo, mortificato, e mi limitai ad annuire per comunicarle che aveva ragione.

Era stata solo colpa mia.

«Che ora è?» le chiesi.

Agitò il cellulare davanti a me, mostrandomi un semplice display nero. «Telefono scarico» sbuffò. «Mio padre mi avrà chiamato almeno venti volte».

«Il vestito è asciutto?» continuai a domandarle.

Lo tastò e annuì, ma non ne fu confortata.

«Vestiti, tra poco andiamo» le dissi.

Quella piacevole tensione che ci aveva unito la sera precedente, tra la voglia di scoprirci e la necessità di sentirci vicini, si era ridotta a un algido obbligo di stare nei pressi l'uno dell'altro senza volerlo.

Come da manuale, eravamo tornati a detestarci.

Desirée pose fine alla conversazione e si alzò in piedi, il vestito stropicciato stretto fra le dita affusolate. Sul viso regnavano la rabbia e il rimpianto, che spensero il brillio di poche ore prima.

«Niente di tutto questo finirà bene» decretò.

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Nota dell'autrice
Ciao a tutti! <3
Sorprendentemente dopo poco tempo, rieccoci qui con un altro aggiornamento. Forse è persino il primo capitolo di AD in cui vediamo Isaac e Desirée veramente insieme, veramente vicini... E preparatevi, è solo l'inizio!
Ricapitoliamo un po' ciò che abbiamo visto finora: una cena di gala si è trasformata in una serata (o nottata?) su una spiaggia di Cap-d'Ail, poco lontana dal Principato, fino a diventare un gioco alcolico di verità sia confessate, che ancora nascoste. Quante di queste questioni vi incuriosiscono?
Avremo tutto il tempo del mondo per indagare sulla vecchia relazione di Isaac (vi dico che Giselle e il suo Nash appariranno presto) e su tutti i problemi di Desirée, ma ci muoveremo gradualmente in questo abisso di segreti.
Nel frattempo, sono lieta di annunciarvi che nel ventitreesimo capitolo, nonché il prossimo, saremo finalmente in direzione Cannes per il Festival. E ci aspetta un one-bed trope che manderà la nostra Desirée in crisi...
Vi aspetto la settimana prossima! <3

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Note informative

Spiaggia Marquet, Cap-d'Ail

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