2. Envie
IT: invidia
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13 aprile 2023
South Kensington, Londra
Al principio della primavera imminente, era una rarità che il sole rivestisse Londra. Quel giorno, i suoi raggi dorati ammantavano gli edifici bianchi, eleganti ma essenziali, di South Kensington, eppure mi sentivo prigioniero tra le quattro pareti immacolate dello studio di mio padre.
Stretto in un completo nero dalla fattura troppo preziosa, con il nodo alla cravatta che simulava quello che sentivo in gola, sedevo accanto a Michael, mio fratello gemello. Dinanzi a noi, l'uomo che ci aveva concesso la vita. Stesso abbigliamento, stesse espressioni: nell'aria aleggiava il profumo della ricchezza, il senso di apparenza del lusso sfrenato in cui mi ero obbligato a vivere per necessità.
La luce metteva in risalto la limpidezza della scrivania in vetro, su cui giacevano pile ordinate di documenti e un computer senza il benché minimo granello di polvere. Accanto a mio padre, campeggiava un giornale dalla testata sconosciuta, ma con un primo colpo d'occhio intuii la lingua degli articoli: erano scritti in francese, ma non si trattava né de Le Monde, né de Le Figaro. Su un rettangolo rosso, le lettere minuscole componevano il titolo del Monaco-Matin.
Perché leggere il quotidiano del Principato di Monaco?, mi chiesi.
Michael, sulla sedia di pelle al mio fianco, aveva assunto una postura da cui trapelava tutta la sua indifferenza. Io, dal canto mio, ero rigido. Spina dorsale ritta e attenzione alle stelle: era così che affrontavo ogni notizia di mio padre, dalla più banale alla più significativa.
Niente, però, mi preparò alla bomba che sarebbe stata sgianciata quel giorno.
Dopo essersi sistemato la cravatta con un movimento celere della mano, si schiarì la voce e alzò lo sguardo da un foglio che stringeva tra le mani, accantonandolo insieme agli altri documenti. Puntò i suoi occhi scuri su di noi, e Michael, d'un tratto, riacquisì la concentrazione. La barba corta e i capelli curati erano l'ennesima dimostrazione di serietà.
«Vi ho convocati entrambi qui per parlarvi di un compito speciale» esordì. Congiunse i palmi, intrecciò le dita. «Un'occasione che potrebbe portare l'azienda a un livello ancora più alto».
Sì, perché Damian Woodward, egocentrico e affamato di potere, gestiva l'omonima Woodward Entertainments, una società che aveva come focus il turismo sul territorio britannico e non solo: la sua offerta, infatti, includeva parchi divertimento e hotel sparsi in Europa e negli Stati Uniti.
Non pensava ad altro, nella sua vita. L'azienda e il fatturato erano le uniche cose che contavano per una personalità tanto narcisistica.
«Di recente, ho avuto la possibilità di parlare con Jules Aubert» ci informò ma, ostacolato dai nostri sguardi confusi, si interruppe per spiegare: «L'amministratore delegato della Société Aubert, che si occupa di gran parte dell'intrattenimento del Principato di Monaco, in particolare nel quartiere centrale di Montecarlo». Per una frazione di secondo, chinai il capo e sospirai. Solo sentendo nominare quel luogo capii quanti soldi c'erano in gioco. Mio padre mi lanciò un'occhiata torva come monito per la disattenzione improvvisa, poi proseguì con il suo eloquio. «E sono in corso alcune trattative per la cessione di parte delle sue proprietà» concluse.
In quel momento, a scambiarci uno sguardo, fummo io e Michael. Eravamo diversi fino alle radici dei nostri caratteri, e lo capimmo da quell'occhiata eloquente. Lui, competitivo e bramoso di ricchezza, sapeva che di quella conversazione non importava nulla a me, che avevo altre preoccupazioni per la testa.
«Mi ha detto, inoltre, di voler mettere alla prova sua figlia, futura erede dell'azienda» riprese la parola. «Quindi ho pensato di assegnare l'incarico a uno di voi». Potei immaginare gli occhi di mio fratello accendersi di speranza, mentre contemplava la possibilità di prendersi l'ennesimo elogio di papà. Eppure, quel brillio si spense quando l'uomo continuò: «Isaac, domani un jet privato ti porterà a Nizza. Da lì ci penseranno gli Aubert, a scortarti a Monaco».
E detonò il panico.
Udii ogni rumore che mi esplose intorno, ma i suoni mi giunsero ovattati, come se i timpani fossero stati imprigionati da una morsa d'ansia. Michael sussultò sulla sua sedia, protendendosi in avanti, e strinse i pugni adagiati sulle cosce. La calma non era la sua miglior virtù: tentò di mantenerla, ma sapevo che in lui ribolliva la rabbia e l'invidia. Io, invece, rimasi immobile.
«Non mi sembra la scelta migliore che potessi fare» commentò, indirizzato a mio padre. La voce era graffiata d'ira. «Sappiamo tutti e tre che Isaac non ha la stoffa per queste cose. Lavora per te solo perché sei nostro padre».
«Michael» tentai di fermarlo.
«No, Isaac, no!» esclamò, inalberato. Con un altro balzo sulla sedia resistente, si voltò verso di me. «È inutile che ti pieghi al suo volere per soddisfarlo! Non hai mai dimostrato interesse per tutto questo!» mi accusò e, spalancando le braccia, si riferì alla grandezza del colosso aziendale in cui eravamo coinvolti. «Mai» rimarcò, smettendo di urlare.
Avrei voluto dirgli che era vero, che non me ne era mai fregato niente di quel mondo. Al contempo, però, ero consapevole che mio padre non fosse il tipo da favori non ricambiati. A ogni compito ben eseguito, infatti, corrispondeva una somma di denaro. E a me, quelle sterline, servivano per faccende ben più importanti dei capricci futili di Michael.
Rimasi in silenzio con il capo chino, contemplando i tatuaggi che fuoriuscivano dalla giacca nera e mi ricoprivano i dorsi delle mani. Alcune risposte plausibili mi girovagavano per la testa, ma quando raggiunsero la punta della lingua fu troppo tardi, perché mio padre ricominciò a parlare.
«Calmati, Mike». Mike. Un soprannome affettuoso per il figlio prediletto, ma in cui non riponeva fiducia alcuna. «Non ho scelto Isaac per delle preferenze personali, ma per il carattere» ci spiegò e io, incuriosito, risollevai gli occhi su di lui. Fu allora che si accarezzò la barba pungente, per poi riportare le mani sul ripiano della scrivania. «È paziente e carismatico. Se vuole, con la sua indole da benefattore può convincere la principessina a firmare quei contratti in pochissimo tempo». Con una sola frase si beffeggiò di me e della ragazza monegasca, benché fosse una sconosciuta.
Deglutii un groppo che mi si formò in gola. Mio padre non aveva mai apprezzato le mie donazioni continue a enti benefici – in anonimo, per giunta – e soleva canzonarmi per quella scelta. Per lui, erano una manciata di soldi buttati via, una serie di mazzette di banconote gettate alle fiamme deboli dei bisognosi.
Per me, però, era l'unica maniera di sentirmi utile in quel mondo tanto meschino, sbilanciato ed egoista. Il divario tra ricchezza e povertà era troppo ampio per non essere notato da un occhio attento e conscio.
«'Fanculo» bofonchiò mio fratello, adirato. Con un buffetto, allontanò un foglio di carta che sostava dinanzi a lui.
Io non potei far altro che arrendermi. Scoccai un'occhiata alla boiserie intarsiata che copriva parte della parete, conferendo una maggior eleganza a quell'ufficio già di per sé lussuoso, per poi tornare a concentrarmi sulla figura autoritaria e sulla voce perentoria di mio padre.
«Quali sono le proprietà che ti interessano?» gli domandai, sventolando una metaforica bandiera bianca. La resa era il mio peggior difetto.
Strinse tra le dita l'ennesimo foglio. Controluce, vidi che in alto era riportato il logo dell'azienda, semplice e privo di fronzoli. Quest'ultimo sormontava una lista di nomi appuntati in maniera ordinata, che lui cominciò a leggere. «Prima tra tutte, il casinò. Poi abbiamo i due hotel centrali, nel quartiere di Montecarlo: l'Hermitage e l'Hotel de Paris. Ho pensato, inoltre, di aprire le trattative anche per quanto riguarda il Country Club e il Jimmy'z, il locale notturno più esclusivo del Principato» elencò, e le sue pupille tornarono a puntarmi. «Se riesci a convincere Desirée a venderci qualcosa in più, tanto meglio» concluse.
Desirée. La figlia di Jules Aubert si chiamava Desirée.
Quanto sarebbe stato difficile, d'altronde? Avrei firmato quei contratti in un breve periodo di tempo e sarei tornato a Londra, niente di più facile. Il fatto di dovermela vedere con la figlia dell'amministratore delegato, e non con l'amministratore stesso, mi semplificava l'impresa.
O almeno così credetti.
Distratto per l'ennesima volta dai pensieri, la mia attenzione fu ricatturata da mio padre quando prese a sfogliare il numero del Monaco-Matin che giaceva sul tavolo in precedenza. Il fruscio della carta riempì il silenzio fin quando non si fermò su una pagina precisa. A colmare lo sfondo bianco, un'immagine che lui mi mostrò: una ragazza mora dalla carnagione olivastra, fasciata in un tailleur perfetto per il suo corpo minuto, sedeva a gambe divaricate e sfidava la fotocamera con lo sguardo. I capelli dall'effetto bagnato erano pettinati all'indietro e scomparivano dietro le spalle.
Aveva tutta l'aria di sapere in che campo era catapultata, di essere ben consapevole di ciò che desiderava dalla carriera.
Michael sbirciò, sporgendosi nella mia direzione. Vagliò ogni dettaglio di quella fotografia, tanto da memorizzarne i particolari, poi si riappoggiò allo schienale della sedia. «Cazzo, complimenti ai genitori» commentò, le pupille calamitate dai seni della ragazza, coperti da una camicia semitrasparente che non lasciava nulla all'immaginazione.
Gli lanciai un'occhiata intrisa di stizza, infastidito dal suo parere inopportuno e non richiesto. Che fosse stata un piacere per la vista o meno, non importava: era lì solo per gli affari.
«Non so perché, ma ho l'impressione che avrà un bel caratterino» speculò mio padre, ritraendo e piegando il quotidiano. «Divertiti» mi augurò.
«E dove starò, nel frattempo?» curiosai.
«Oh, giusto» rammentò. «Il padre di Desirée ti ha riservato una suite all'Hermitage, la migliore che possiedono. Ti tratteranno come un re, non preoccuparti».
Mio fratello, tuttavia, non perse occasione per rendersi protagonista della conversazione. Non sapeva tenere la lingua a posto. «Adesso arriverà la parte in cui ti chiederà se...» cominciò a canzonarmi.
«Può venire anche Erin?» domandai, precedendolo.
Erin era mia figlia. Nata da una mia relazione passata con una ragazza australiana temporaneamente a Londra per motivi di studio, finita in maniera burrascosa ma trasformatasi in una buona amicizia, quella bambina di appena quattro anni rappresentava una delle poche ragioni per cui continuavo a nuotare controcorrente nel mare delle ricchezze di mio padre. Non avrei voluto correre il rischio che crescesse come me, nella miseria generata dall'egoismo dell'uomo da cui attendevo una replica, e per evitarlo le avrei donato ogni opportunità possibile.
«Fa' come ti pare» rispose mio padre, incurante. «È tua figlia, decidi tu».
«Grazie» quasi sussurrai. Come se avessi dovuto ringraziarlo per non nutrire il benché minimo interesse verso la sua unica nipotina.
«Quindi, ricapitolando» schiarendosi la voce, ritornò sui suoi passi. «Domani mattina dovrai recarti in aeroporto, il jet ti aspetterà lì. Atterrerai a Nizza e verrai scortato all'Hermitage. Hai qualche mese di tempo per portare a termine le trattative» mi ricordò.
Quel "qualche mese", però, non era mai stato contemplato.
«Qualche mese?» domandai, stralunato. «Erin deve andare all'asilo, papà».
«Sapevo che ti saresti posto questo problema, e io l'ho già risolto». Non ne avevo il minimo dubbio. «Ho chiesto a Jules di iscriverla in una delle scuole materne migliori del Principato, sapendo che non saresti stato senza di lei. L'École Saint-Charles sarà felice di accoglierla. Non ha problemi con il francese, giusto?» mi questionò.
«Niente affatto» confermai.
Non avrebbe potuto averne. Fin da quando era stata capace di proferire parola, mi ero auto-imposto di insegnarle il francese al pari dell'inglese. L'avevo fatto perché mia madre ci teneva, da vera parigina qual era. Anche se viveva in Inghilterra, la sua lingua melodiosa e raffinata le era rimasta nel cuore.
«Direi che è tutto perfetto, allora» dichiarò. Puntò i palmi sulla scrivania, senza preoccuparsi di lasciare gli aloni – qualcuno, al posto suo, li avrebbe puliti – e si alzò in piedi. «Se non vi dispiace, vado a prendere un caffè». Dopo aver espresso la sua volontà, camminò verso la porta dell'ufficio e sparì oltre essa.
Ad alzarmi dalla sedia, successivamente, fui io. Mi sgranchii le gambe atrofizzate, strette nel pantalone elegante, e passeggiai inquieto per lo studio. Non mi allettava l'idea di trascorrere mesi in un paradiso fiscale in cui ogni singola persona contava gli zeri del proprio conto in banca, né di sprecare il tempo che avrei potuto dedicare a mia figlia. Frustrato, mi strattonai i capelli con le dita.
«Mi chiedo perché tu debba sempre fingere di assecondarlo» si interrogò Michael, mimando i miei movimenti. Anche lui prese a torreggiare nella stanza, in tutta la sua altezza, con le mani rintanate nelle tasche. Eravamo lo specchio riflesso l'uno dell'altro, in quelle vesti. «Se non te ne frega un cazzo di tutto questo, lascialo a me».
Un classico. Voleva e pretendeva, senza accettare alternative.
«Quando capirai che ho bisogno di quei soldi, Michael?» gli domandai infastidito, con un ringhio iroso a graffiarmi la voce. «Sai che mi servono per la mamma, per Erin e per le donazioni» ricordai. «Non lo faccio per soddisfare i miei capricci, come faresti tu».
Si munì di un'espressione strafottente e, incrociando le braccia al petto, si appoggiò alla scrivania con il bacino. Il suo sguardo era fisso su di me, ma io lo ignorai.
«Non puoi migliorare la tua vita coprendola di bontà, Isaac».
«Per favore, taci» lo interruppi.
Lui scoppiò in una risata amara. «Stai ancora cercando di riprenderti da ciò che è successo sei anni fa» rammentò. «Svegliati, fratello, la vita va avanti. Le persone muoiono o se ne vanno, non puoi continuare a piangerti addosso. Devi imparare a fregartene».
Gli lanciai un'altra occhiata, quella volta pregna d'odio. Menzionava vicende a cui lui non aveva mai dato importanza, ma che avevano segnato me nel profondo. Lo faceva perché lui, al contrario mio, aveva un'ottima mira per i punti deboli altrui.
«Sta' zitto, prima che io ti spacchi la faccia» lo minacciai.
La stanza era piccola, l'aria densa per la tensione. Anche se provavo a stargli lontano, a dividerci era uno scarso paio di metri e i miei freni inibitori avevano smesso di funzionare da un po'.
«La realtà non ruota attorno a tua figlia e a nostra madre» continuò. Strinsi i pugni lungo i fianchi, cercando di trattenere la calma che stava scemando. «O a Giselle, perché da quel che mi pare di capire, sei ancora innamorato perso di lei».
Conficcai le unghie nei palmi quando nominò l'unica persona che, in quella conversazione, non c'entrava nulla.
Giselle era la mia ex ragazza, la madre di Erin. Era tornata in Australia dopo il parto e dopo le procedure per lasciare Erin nelle mie mani, convinta che con me avrebbe vissuto meglio. E, considerati i guadagni, dovetti darle ragione.
Gli occhi di Michael saettarono sul giornale chiuso, abbandonato sulla scrivania alle sue spalle. «Sai, non credo che impiegherai troppo tempo a dimenticartene» ipotizzò. «Visto con chi avrai a che fare da domani».
Non avrebbe dovuto dirlo.
Me lo ripetei più volte, respirando a fatica mentre il cuore martellava nel petto. Ma la rabbia, ahimè, superò la mia capacità di rimanere cheto: il sangue mi defluì bollente nelle vene, scese fino ai pugni stretti, finché uno di essi non finì dritto sulla mascella di mio fratello, che rovinò sul ripiano della scrivania, colto alla sprovvista. Alcuni fogli volarono sul pavimento.
Questo è per aver creduto che io potessi scordarmi di Giselle, stronzo.
«Che cazzo fai?!» strillò, afferrandomi il bavero della giacca per staccarmi da lui, invano.
Lo zittii con un altro pugno, all'altezza del sopracciglio. Socchiuse le palpebre per il dolore, stordito. «Azzardati ancora una volta a dire una stronzata del genere e sei morto» decretai, dettando il mio ultimatum.
«Come se avessi torto» replicò con saccenteria.
Sferrai un altro paio di colpi sul suo viso non più intonso. Cominciò a perdere sangue da un taglio che si aprì sul labbro spaccato, il liquido cremisi mi macchiò le dita. Non fu nemmeno lo scricchiolio inaspettato della porta ad arrestarmi: su quella scrivania, da cui continuarono a cadere documenti, pestai mio fratello fino a metterlo a tacere. Chiusi la bocca alla sua invidia e alla sua competitività, con quelle percosse.
«Papà, che stai facendo allo zio?» mormorò una vocina dolce, tenera, che giunse dal basso.
Solo allora mi separai da Michael. Lasciai che un rivolo di sangue gli sporcasse il colletto della camicia un tempo immacolata e, confuso, indietreggiai. Nel mio campo visivo comparve mia figlia, proveniente dall'appartamento accanto dove vivevamo; nei momenti ricchi di impegni, lei vi giocava con la sua babysitter Kira.
Erin non avrebbe mai dovuto assistere a quello spettacolo, e il senso di colpa crebbe in me. Con la sua purezza, i capelli rossi raccolti in due codini alti e i suoi vestitini chiari, era l'ultima persona a cui avrei permesso di scorgere i lati di me che ancora non riuscivo a reprimere.
Le iridi cristalline, identiche alle mie, mi scrutarono in attesa di una risposta. Era curiosa come sua madre.
«Niente, amore, niente» liquidai i suoi quesiti. «Come mai sei qui?» le chiesi, compiendo alcuni passi verso di lei. Nella speranza che non se ne accorgesse, mi pulii il sangue con l'orlo della giacca nera.
«Vuoi giocare con me?» mi domandò, gli occhioni dolci usati come tecnica per manipolarmi e convincermi. La sua caratteristica preponderante era l'astuzia.
«Certo, ma poi dobbiamo fare le valigie» le comunicai. Mi inginocchiai sul pavimento, mentre mio fratello era intento a riassestarsi, per abbassarmi alla sua altezza. Le sistemai una piega del vestitino lilla. «Domani partiamo».
«E dove andiamo?»
Dovetti deglutire l'ennesimo nodo in gola, prima di risponderle. Sottrarre una bambina così piccola alla sua routine di scuola materna e pomeriggi di diletto era difficile, ma avrei dato il meglio di me per farla sentire a casa anche in un luogo mai visitato.
«Papà ti porta a Monaco».
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Nota dell'autrice
Buongiorno a tutti e buon sabato, amici, come state? <3
Eccoci qui con il secondo capitolo di AD! Da qui, avrete sicuramente intuito che si tratterà di un doppio pov alternato, a differenza di Semicolon in cui era la voce della protagonista femminile, a prevalere. Cosa ne pensate di questa scelta? Sappiate che ci tornerà utile in futuro per dipanare le matasse di diverse dinamiche che si formeranno...
Oggi ci troviamo nella magica Londra, in una zona tranquilla dove si respira il profumo della potenza nell'aria. Anche Isaac, come avrete visto, è figlio di un importante CEO. Lui e Desirée hanno già qualcosina in comune... 👀
Anche il suo caratterino è un caratterino a tratti indomabile e irascibile, ma avete visto quanto è dolce e premuroso con la piccola Erin? Nei capitoli a venire, si scoprirà cosa c'è alla base di questo legame, oltre al semplice rapporto padre-figlia.
Come sempre, fatemi sapere che ne pensate di questo capitolo e dei nuovi personaggi. La settimana prossima ci aspetta l'incontro tra i due futuri capi, contendenti di proprietà importanti... Siete pronti? 🔥
Vi aspetto...
IG: zaystories_
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