34. Buio

«Timothy, loro sono Blythe Valkut e Matt Anderson» spiega Karl a Timothy, lo psicologo di Daisy.

I due ragazzi, beccati in bilico fuori dalla finestra della ragazza, sono stati costretti da Karl a entrare in casa e a dare spiegazioni sull'accaduto. Per Blythe c'è l'aggravante della recidività, mentre per Matt è la prima volta. Ad ogni modo, Karl non sembra molto interessato alla presenza di Matt, ma piuttosto del fatto che Blythe, di nuovo e dopo i suoi chiari avvertimenti, abbia scalato casa sua per arrivare, furtivo, in camera di sua figlia.

«Piacere» mormora Matt, le dita a giocherellare con le altre e lo sguardo basso.

«Ho chiamato tuo padre, Blythe» lo informa Karl, «sta per venire qui. Quanto a te, Matt, appena vedo i tuoi glielo dico, adesso non mi rispondono al telefono.»

Karl, come gestore di una delle catene più importanti di farmacie, conosce più o meno tutti gli abitanti di quella piccola cittadina; così, riconoscere Matt e informare, in seguito, i suoi genitori non è stato complicato.

«I miei...» borbotta Matt con gli occhi sbarrati. «Signore, non lo faccia, le giuro che non accadrà più. Mi ha coinvolto lui!» Quasi urla, mentre indica con l'indice della mano destra il suo compagno di scuola, seduto accanto a lui. «Non glielo dica...» Matt sta bisbigliando, preso dal panico, e Blythe non può che tornare con la mente a quanto ha visto attraverso gli occhi del bullo.

Lo sguardo perso e delle leggere goccioline di sudore che imperlano il volto di Matt fanno stringere a Blythe un nodo alla gola, mentre riflette su cosa potrebbe succedergli se i suoi genitori lo venissero a sapere. Da come si è agitato il bullo, è chiaro che non la prenderebbero bene, che non la prenderebbe bene...

Matt non lo merita. Matt non merita quello che Blythe sta pensando, che ha intenzione di fare in modo di addossarsi tutta la colpa, ma sa che, se il giorno dopo rivedesse Matt pieno di lividi ed escoriazioni, non si sentirebbe affatto bene ma solo sporco. Per tutto quello che Matt gli ha fatto non meriterebbe un solo pensiero buono, ma vuole sperare che forse qualcosa cambierà, se lo aiuta.

Così, si batte una mano sul petto, richiamando l'attenzione di tutti i presenti; poi indica Matt e fa capire a gesti che non sta mentendo, e di nuovo costernato si batte il petto.

«Lo so benissimo che è colpa tua, Blythe» commenta Karl, «non è di certo la prima volta che lo fai!»

«Non è la prima...» farfuglia Matt, subito però interrotto, ma stavolta dallo psicologo.

«Perché?» gli domanda l'uomo. «Perché lo volevi fare, Blythe?»

Blythe incrocia lo sguardo di quell'uomo che, gli hanno detto, ha in cura Daisy da tanto tempo. Restano a fissarsi per qualche secondo, poi il ragazzo si porta un dito accanto all'occhio destro. Non lo fa con convinzione, però, anche se nessuno si azzarda a dire che non hanno capito.

«Voleva...» bofonchia allora Matt, prima di tossire e arrossire per tutti quegli occhi puntati su di lui. «Voleva solo vederla.»

È inevitabile per Blythe girarsi alla sua destra per incontrare gli occhi di Matt e ringraziarlo in quel modo, con un veloce scambio di occhiate.

«È questo che mi ha detto» continua a parlare Matt, ma guardando Blythe. «Che voleva vederla.» Le dita della mano di Matt scivolano in basso e, senza farsi vedere dagli altri, vanno a sfiorare un lembo dei jeans di Blythe, che vede quel gesto come un invito a capire che il bullo è dalla sua parte, per la prima volta.

«Blythe» s'intromette Amy e il contatto visivo tra i due ragazzi si arresta, «tu sai bene che puoi venire qui tutte le volte che vuoi, te l'abbiamo sempre detto, ma Daisy, al momento, non sta bene e se tu...»

«Posso parlarti da solo, Blythe?» Timothy ferma il discorso di Amy e, infatti, le chiede subito scusa quando si rende conto di averlo fatto: «Scusami, Amy, ma vorrei parlare da solo con questo giovanotto.»

«D'accordo» acconsente la donna, che subito va a cercare lo sguardo del marito, che accetta a sua volta annuendo.

«Vieni» lo chiama Timothy e lui si alza, seguendo i movimenti dello psicologo.

Si allontanano, ma prima di essere completamente soli Blythe sente Matt dire ai signori McLean di volere andare a casa, ma che Karl gli ha negato quella possibilità.

«Dimmi un paio di cose e poi puoi andare» gli sembra di aver sentito. Non ha avvertito nessuna risposta, però, segno che Matt avrà probabilmente annuito invece di usare le parole.

Timothy porta Blythe al piano di sopra e si fermano in quello che sembra essere uno studio, forse quello di Karl. Non riesce a capire perché un farmacista dovrebbe avere uno studio con tanto di libreria e scrivania imponente, ma Blythe la trova comunque una bella e accogliente stanza. Si siedono entrambi sul divanetto posto sulla destra, dal lato più vicino alla porta.

«Parliamo chiaramente, Blythe, perché a me non piace girare attorno alle cose. Tu lo sai, vero? Del problema di Daisy?» domanda seccamente Timothy.

Blythe, che è della stessa opinione dello psicologo, conferma con un cenno del capo.

«Bene.» Dice solo questo, poi riprende fiato sospirando e continua: «Daisy non sta bene e non è vero quanto Amy va dicendo in giro, non è influenza. Una persona come Daisy, la cui mente è facilmente soggetta a crisi di panico o di rabbia, non può subire ciò che lei ha subìto, senza rinchiudersi nel proprio dolore. Non so quanto sai di Daisy, ma le è stato diagnosticato il suo malessere proprio durante le vacanze natalizie di sei anni fa. Da allora ci sono stati alti e bassi e per un periodo è stata paziente di una clinica per i disturbi d'umore e d'ansia. Ed è lì che ha conosciuto Abby, una delle sue migliori amiche.»

Timothy arresta il suo discorso, come se stesse soppesando la reazione di Blythe, e si aspetta che lui faccia qualcosa: un gesto o un movimento del capo. Tuttavia, il ragazzo è solo ansioso di sapere al più presto cos'è successo a Daisy perché l'aria di tensione che si respira in casa non gli piace per niente.

«Daisy l'ha vista morire, ha visto una delle sue migliori amiche morire davanti ai suoi occhi, tra le sue braccia» riprende lo psicologo. «Non sarà facile farla riprendere da tutto quel dolore. E, adesso, com'è già capitato quest'anno – purtroppo – si è rinchiusa nella sua stanza nel buio che sente di meritare.»

Blythe, a quel punto, avverte un pizzicore ai lati degli occhi e un bruciore alle gote per lo sforzo di trattenere le lacrime per quanto ha appena sentito. Si sente subito un idiota ad aver pensato, anche solo per un attimo, che Daisy fosse con un altro ragazzo, che si stesse sollazzando alle sue spalle, quando la ragazza è chiusa da giorni nel suo dolore e lui non c'è stato per lei.

«L'ultima volta» continua Timothy, «è scoppiata a causa delle troppe pressioni che sente di avere. Per fortuna, però, quel periodo è durato solo un paio di settimane. Adesso... non so...» Timothy inghiotte la sua stessa saliva, quasi in difficoltà. «Non so quando potrà tornare tutto come prima, per quanto sia labile la sua normalità.»

Blythe ritorna con la mente ai famosi "giorni d'assenza per malattia" che Daisy ha compiuto prima che lui si iscrivesse nella nuova scuola e ora tutto gli è più chiaro.

«Ti sto dicendo questo, Blythe» ritorna a parlare lo psicologo e lui lo fissa negli occhi, «perché Daisy mi ha parlato tante volte di te. La conosco da così tanto tempo per dirti con certezza che ciò che ho visto nei suoi occhi quando parla di te, non l'ho visto mai. Così come ho notato dei piccoli e insignificanti, ma pur sempre cambiamenti. Qualche ora di sonno in più, un sorriso sincero di tanto in tanto. Piccoli sforzi, me ne rendo conto, ma molto importanti.»

A sentire quelle parole, una lenta e solitaria lacrima riga il volto del ragazzo, che ancora di più si sente di merda per non essere stato in grado di evitarlo, di poter essere la sua spalla su cui piangere e il conforto di quando ne aveva bisogno.

Un singhiozzo gli toglie per un attimo il respiro e si porta una mano davanti alla bocca, impedendo alle altre lacrime di sgorgare.

«Si vede che ci tieni a lei» bisbiglia l'uomo, porgendogli un fazzoletto, «e se ti senti così probabilmente è perché l'hai capito anche tu.»

Blythe non può far altro che essere d'accordo con lui e con gli occhi rossi di pianto e il labbro stretto tra i denti annuisce. Si asciuga le lacrime con il fazzoletto che gli ha dato Timothy e tira su col naso, mentre cerca di far andare via quel magone che gli preme la gola e che gli fa sentire il bisogno di utilizzare l'inalatore.

«Io non so se potrebbe aiutare e nemmeno se ti va, ma visto che addirittura ti sei aggrappato alla sua finestra, mi viene spontaneo pensare che adesso ti vada di vederla, no?» domanda, riuscendo a strappare un sorriso a Blythe.

Nonostante non sia una bugia ciò che ha detto Timothy, Blythe ci riflette qualche secondo più del necessario per decidere. La realtà è che ha paura, paura di ciò che potrebbe vedere. Non sa in che stato potrebbe trovare Daisy, che cosa potrebbe dirgli, ma soprattutto non sa cosa potrebbe fare lui, proprio lui che non riesce nemmeno a risolvere i suoi di problemi.

«Se non vuoi non sei obbligato, ovviamente.» Lo psicologo sembra leggergli nella mente e lui abbassa lo sguardo, colto nel vivo. «Lasciamo stare, allora. Magari, prima cerco di sondare il terreno con lei, okay? Chiederle se le va che tu entri in camera sua: in quei momenti, sono poche le persone che vuole vedere.»

Timothy si alza, con l'intenzione di andarsene, ma Blythe non ci sta a quella proposta e allora lo ferma, stringendo un pezzo del suo vestito elegante grigio. L'uomo corruga la fronte, interrogativo, e Blythe gli spiega di aver voglia di vederla. L'ha capito nell'esatto momento in cui Timothy ha deciso per lui, riflettendo sul fatto che forse sarebbe stato meglio lasciar stare. In quell'attimo ha capito che quell'idea non gli piaceva e che, in realtà, dubbi e paure potevano accantonarsi per un attimo perché la delusione che ha sentito al pensiero di non vederla è stata troppo forte.

«Sei sicuro?» gli domanda lo psicologo.

Sicuro, annuisce.

«Va bene» afferma lui in un sospiro, quasi sollevato di quella decisione. «Aspettami qui, però, ne vado a parlare prima con Karl e Amy, non vorrei fare qualcosa di cui non sono d'accordo.»

Blythe acconsente e osserva l'uomo lasciare la stanza. Quando resta solo, si alza dal divanetto, dà un veloce sguardo all'ambiente intorno a sé e poi non riesce a reprimere l'impulso di uscire dalla stanza.

Apre la porta e il borbottio che proviene dal salone lo distrae per un attimo, ma solo per un breve istante, perché subito si sposta verso quella che sa essere la camera di Daisy: sarà anche entrato spesso dalla finestra, ma è sempre uscito dalla porta e conosce bene l'architettura della casa. La porta della camera è semi aperta e Blythe, proprio come gli ha detto Timothy, scorge solo tanto buio.

Sta per poggiare la mano sulla superficie di legno, quando si sente tirare per le spalle.

«Entriamo insieme» gli dice Timothy. 



Buon venerdì! Spero che il capitolo vi sia piaciuto! 

A martedì, 

Mary <3 

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