12. Distruggere, non annebbiare
Daisy rientra in casa con le cuffie nelle orecchie, collegate al cellulare, scorrendo sulla bacheca dei diversi social network a cui è iscritta; è un movimento automatico, quasi abitudinario, ma non sta leggendo veramente gli stati dei suoi amici virtuali o le notizie condivise. Chiude la porta d'ingresso con un piede e si leva le scarpe prima di andare in cucina: sua madre è ossessionata dal pensiero di mantenere la casa pulita.
Arriva al bancone dell'isola su cui c'è una parte del piano cottura e il lavello e lascia andare lì il cellulare. Ispeziona il frigo alla ricerca di qualcosa da bere, ma storce la bocca quando non trova il latte al cioccolato che sperava ci fosse. Lo richiude, decidendo che non ha poi così tanta sete. Ritorna ad armeggiare con il suo telefono e le viene in mente di aprire la chat con Blythe. I due ragazzi, per praticità, si sono scambiati i numeri di telefono e Blythe le ha promesso che le avrebbe fatto sapere, appena tornato a casa, l'orario in cui sarebbe sgusciato per raggiungerla nel cuore della notte.
Daisy non è del tutto sicura di credere che anche Blythe, come gli ha detto, soffre d'insonnia e che gli piaccia molto di più studiare di notte che di giorno. Ma ha acconsentito a quella strana richiesta soprattutto per riavere le sue pillole e, dopotutto, impiegare quelle ore in modo diverso le rasserena l'animo per una breve frazione di secondo. Tuttavia, è davvero un attimo, perché un'oscura ombra le scende davanti agli occhi e si ritrova a darsi della stupida e a maledirsi per aver pensato, per essersi illusa che quel ragazzo strambo potesse acquietare il suo cuore sempre troppo oppresso dai pensieri lugubri che le invadono la mente.
Scuote la testa e in un attimo torna alla realtà: non le interessa. Così chiude la chat e si dice che, magari, Blythe cambierà idea, che il sonno si impossesserà di lui e che non andrà mai a casa di Daisy. Ne è così certa che si ritrova a invidiare il ragazzo per un pensiero che ha fatto da sola e che è in dubbio. Eppure, tanto le basta per decidere che non rispetterà il piano che ha congeniato con Blythe: non lascerà la finestra aperta all'orario stabilito, ma soprattutto non metterà nulla – una scala o altro – per rendere più agevole l'entrata in casa furtiva del ragazzo.
Non verrà, ne sono certa.
Con l'idea di andare in camera sua a studiare, Daisy si slega la coda e lascia cadere i suoi fluenti capelli biondi sulle spalle. Arrivata al piano di sopra, avverte la voce melodiosa della madre canticchiare un motivetto improvvisato. Non può fare a meno di farsi spuntare un lieve sorriso sul volto, mentre Amy mette in musica le sue proteste contro suo padre, che lascia sempre la tavoletta del water alzata.
«Ciao, mamma» pronuncia, appoggiando la testa sul legno della porta del bagno.
«Oh! Ciao, piccola!» La donna si alza da terra, da dove, in ginocchio, stava pulendo il lavandino, e le va a scoccare un dolce bacio sulla fronte. «Com'è andata a scuola oggi?»
«Bene» si limita a riassumere Daisy. Non ha voglia né di accennare al progetto di chimica né che sarà in coppia con Blythe, per cui sua madre, senza un apparente motivo, stravede.
«È un ragazzo che ne ha passate tante» le ha detto una volta, «ma ha un cuore d'oro. Sua madre mi ha raccontato che quando sono costretti a trasferirsi, Blythe cerca un lavoro part-time per mettere da parte qualche soldo e consegna tutti i guadagni nelle mani dei genitori. James non li ha mai usati i soldi di suo figlio e li tiene da parte nel caso in cui il ragazzo volesse andare al college, ma lui non lo sa.»
Quelle parole, adesso, le sembrano perfettamente in linea con quanto ha iniziato a capire di Blythe, anche se proprio non riesce a togliersi dalla mente che non sia poi così diverso da tutti gli altri. Blythe non parla, è vero, ma ciò non lo rende di certo migliore degli altri suoi coetanei; anzi, lo vede spesso nei corridoi istigare Matt Anderson e non le piace quel suo atteggiamento passivo aggressivo.
«Solo bene?» domanda ancora Amy.
Daisy sospira, un occhio puntato al suo cellulare e un altro ai guanti arancioni di sua madre.
«Sì, solo bene» risponde e senza aggiungere altro va a rintanarsi in camera sua.
Amy si asciuga il sudore che ha sulla fronte e sospira profondamente. Adesso che è da sola, può finalmente assumere l'espressione che avrebbe voluto farsi spuntare quando sua figlia le ha regalato quelle sole tre parole. Non può farle vedere quanto sta male per Daisy, non può assillarla nemmeno affinché lei sorrida di più o si apra di più con lei: sa bene quanto possa essere deleterio e si limita a comportarsi come lo psichiatra le ha consigliato. A volte vorrebbe costringere sua figlia a uscire di più, ad andare alle feste; ma riesce comunque a trovare serenità nello sforzo che Daisy compie come capitano delle cheerleader. Nemmeno quello, però, a volte è sufficiente. Molte volte, infatti, in preda agli attacchi di rabbia della figlia, l'ha vista gettare dalla finestra la sua divisa o buttarla nell'immondizia.
«Sono stanca, sono stufa!» ha urlato Daisy, l'ultima volta che ha avuto una crisi di nervi. «Odio tutto questo, odio questa divisa, odio il colore della felpa, odio dover fare tre ore in più al giorno per degli stupidi allenamenti per un'ancora più stupida partita di football!»
La ragazza ha strappato dalle pareti della sua stanza tutte le gigantografie che suo padre ha fatto stampare per lei con la sua bella immagine; le ha accartocciate e le ha gettate a terra. Poi è andata a prendere la divisa dall'armadio e l'ha lanciata addosso alla madre che, sulla soglia della porta, le provava a dire che è un bellissimo passatempo per una ragazza della sua età.
«E allora fallo tu!» ha gridato a quel punto Daisy, gli occhi spiritati, i capelli arruffati per i movimenti veloci e le mani tremolanti. «Io non ne posso più!»
Un urlo straziante, poi, ha lasciato le labbra della ragazza; le unghie a graffiare il viso e le gambe non più capaci di reggere il suo peso. Si è lasciata andare in ginocchio, scoppiando in un pianto isterico e raggelando sua madre. Amy non aveva mai assistito a una così tremenda crisi di rabbia della figlia. Quel giorno, non è stata nemmeno in grado di farle da supporto, limitandosi ad avvicinarsi e a sedersi a terra con lei. L'ha solo guardata, mentre sua figlia sembrava volesse far uscire il dolore dalla sua mente a suon di pizzichi sulle guance, consapevole che quello sfogo le avrebbe portato solo altro dolore e non il benessere che provoca in tutte le altre persone.
Con quel ricordo nella mente, Amy si alza da terra per andare a consegnare le pillole che il medico le ha prescritto. Ogni scusa per la donna è un buon modo per andare da sua figlia e parlare un po' con lei.
Si toglie i guanti e, veloce, si sistema i capelli arruffati allo specchio, prima di andare a recuperare il sacchetto bianco che suo marito ha lasciato nella loro stanza.
Avere una catena di farmacie ha sicuramente aiutato i coniugi nel rifornirsi con discrezione di tutti gli antidepressivi di cui Daisy ha bisogno. È stata una lunga e sofferta decisione quella di affidarsi ai farmaci, ma alla fine hanno lasciato che fosse la mente di Daisy a decidere cosa fosse meglio per lei. E la sua mente reagisce sempre molto bene quando ne assume.
Eppure, mentre avanza piano verso la stanza di Daisy, Amy non può che odiare quelle pillole che ha tra le mani. Vorrebbe che ci fosse un altro modo, che si possa fare diversamente.
«Daisy, disturbo?» esordisce, risvegliando la figlia che, per qualche minuto, era riuscita ad appisolarsi sulla scrivania. Amy si mangiucchia l'interno della guancia e si maledice per averla svegliata.
Daisy, ancora mezza assopita, stira la schiena e allunga le braccia.
«Mh, no» borbotta, poi sbadiglia.
«Ti eri appisolata? Magari puoi metterti un po' a letto a riposare. Ai compiti ci penserai dopo» afferma la donna.
Ciò che pensa, però, è ben diverso: vorrebbe che sua figlia dormisse di più perché in questo modo la sua mente sarebbe più rilassata; dei compiti non gliene frega niente. Il rendimento scolastico non ha la stessa importanza della salute di sua figlia.
«No, penso che mi sarei svegliata lo stesso e ho troppe cose da recuperare per le assenze...» Daisy lascia in sospeso la precisazione e la madre si ritrova a deglutire, nella speranza che sua figlia non ritorni con la mente a quei giorni d'inferno.
«Va bene» acconsente, accarezzandole i capelli e sistemandoli poi dietro le spalle, in modo che non ricadano sui quaderni. «Ma non stressarti troppo: il preside ha detto che hai tutto il tempo che vuoi per recuperare.»
«Lo so, ma...» È sul punto di dire che non deve solo pensare agli assegni arretrati, ma anche al nuovo progetto di chimica, ma si blocca. «Ma voglio togliermeli dai piedi il prima possibile» conclude, invece.
«Okay.»
Amy annuisce, comprensiva, e poggia il sacchetto sulla superficie di legno scuro.
«Il medico ha detto che puoi prenderne ancora, ma solo dal momento in cui senti di averne davvero bisogno.» Stringe forte sua figlia in un abbraccio e le bacia la fronte. «Anzi» canticchia, «quando questo bel cervellino lo deciderà. In fondo è super intelligente!»
Daisy finge una risata e sua madre, al contrario, sorride spontaneamente, inconsapevole del fatto che sua figlia stia fingendo.
«D'accordo, me lo ricorderò» conferma Daisy. «Anzi, spero che lui se lo ricorderà.»
«Lo farà, lo farà» decide Amy.
Quindi lascia sola Daisy, ma resta a pochi metri dalla sua camera. Amy non lascia mai che sua figlia passi troppe ore da sola.
La ragazza fissa per qualche minuto la porta che la donna ha lasciato volutamente socchiusa; poi afferra il contenitore di plastica bianco e lo rigira tra le mani. Con quelle può solo annebbiare il cervello, non distruggerlo per sempre. E non le basta.
Buon venerdì! Spero che l'essere entrati - almeno un pochino - nella mente di Daisy vi abbia fatto capire qualcosa di più su questo personaggio, che ancora è da scoprire.
A martedì,
Mary <3
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