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Da più di mezz'ora Isaac fissava le parole stampate sul foglio che stringeva in una mano, senza riuscire a comprenderne il senso. Aveva persino tentato di leggere ad alta voce per evitare di essere distratto dai rumori che provenivano dal cantiere lì vicino, ma una volta si trattava del martello pneumatico, un'altra era la lama di luce che colpiva il foglio facendone brillare troppo il bianco e confondendo le parole; un'altra era un crampo alla mano con cui lo teneva e poi il torcicollo e poi era scomodo sulla sedia e poi... alla fine, batté il foglio contro la scrivania, allontanandosi da essa con un colpo di piedi, scivolando sulle ruote della sua sedia e finendo per avvicinarsi alle finestre che riempivano l'intera parete alle sue spalle.

Individuò subito il cantiere dai cui proveniva il caos; osservò la gente che si muoveva per strada, come se fossero dei granelli di sabbia colorati e in alto il cielo terso di L.A., i fumi di scarico degli aerei che sembravano nuvole impegnate in una competizione di corsa.

La sera prima, dopo non ricordava nemmeno lui quanto tempo, si era arrabbiato. Una rabbia incendiaria che gli aveva riportato alla mente i tempi in cui era stato solo un orfano come tanti, che viveva in una casa troppo piena di ragazzini come lui e adulti troppo oberati di lavoro per riuscire ad accorgersi di tutto e, chissà perché – forse perché anche la Vita era sadica –, le cose che non notavano rientravano troppo spesso nella sfera di quelle situazioni spiacevoli che avevano contribuito a fare di Isaac un bambino costantemente arrabbiato.

Era diventato un orfano intorno ai sei anni, quando i suoi genitori avevano tentato di attraversare il confine dal Messico agli Stati Uniti in cerca di una vita migliore e, invece, avevano trovato la morte. Solo lui si era salvato, con i piedi sul suolo americano.

Durante gli anni successivi aveva subito insulti razzisti, atti di bullismo – in istituto, a scuola, persino al parco, quando ogni tanto, gli assistenti sociali, li portavano per restituire loro una parvenza di normalità. Spesso Isaac veniva punito ed escluso da quelle gite perché era stato un "bambino cattivo", quello che aveva picchiato qualcun altro, quello che aveva fatto i capricci e risposto in modo maleducato a un adulto.

Nel tempo, si era sbarazzato di tutta la negatività che lo aveva accompagnato durante l'infanzia e l'adolescenza, aveva cercato di diventare un uomo migliore, eppure, la sera prima, si era arrabbiato, e non contro una persona qualsiasi, ma aveva finito per sfogarsi su una di quelle a cui voleva più bene.

"E Bryan" pensò, picchiettando distrattamente due dita contro il vetro della finestra. Aveva passato la notte insonne, rigirandosi nel letto finché non aveva quasi rischiato di legarsi con il lenzuolo e in quel momento si era tirato a sedere, per assicurarsi di non avere lasciato Bryan scoperto, e si era accorto che anche lui era sveglio. Alla fine, Isaac aveva ceduto e gli si era fatto vicino, ma l'altro non aveva ricambiato il suo abbraccio e l'uomo aveva accolto il suono della sveglia con gli occhi ancora aperti e il respiro profondo e tranquillo di Bryan nelle orecchie.

Aveva tentato di fare proprie tutte le sue emozioni, studiandolo mentre era più vulnerabile, ma a parte un breve movimento sotto le palpebre abbassate, Bryan non gli aveva dato indizi, durante il suo sonno, e Isaac stava iniziando a preoccuparsi sempre di più.

Mise una mano in tasca e strinse con forza la sagoma del proprio cellulare.

"Keith, no" si disse e si passò l'altra mano sul viso, tirando un profondo sospiro, "Se gli esponessi le mie perplessità, come minimo entrerebbe in paranoia e mi metterebbe addosso più dubbi. Ryan... meglio di no. Amber..." tirò fuori il cellulare e osservò l'ora sullo schermo, "... magari sta ancora dormendo".

Cedette al desiderio di poter sentire una voce amica e inoltrò una chiamata al numero della giovane, ma non ricevette alcuna risposta e, dopo un paio di ulteriori tentativi, Isaac desistette, arrendendosi all'evidenza che non avrebbe ottenuto risposta da Amber.

"Forse anche Keith dorme" si disse, rivalutando per qualche istante l'ipotesi di chiedere consiglio a lui, "E Ryan. Lavorano tutti al Seraphim e hanno orari simili, diversi dai miei" sospirò, lasciandosi andare contro lo schienale della sedia, "È una buona scusa pure per non tentare?" si chiese, ma sapeva che avrebbe ceduto alla "buona scusa" ed evitato di chiedere il loro aiuto.

"Aiuto... per cosa?"

Un martello pneumatico richiamò la sua attenzione: il rumore si era fatto così insopportabile che pareva stessero facendo lavori direttamente dentro il suo ufficio e non a più di venti piani di distanza.

Bussarono alla porta con una certa insistenza e Isaac trasalì, poi si volse verso l'ingresso della stanza e vide Emma sulla soglia, un'espressione corrucciata e un fascicolo sotto un braccio.

-Disturbo?- gli chiese con voce pungente.
-Non ti avevo vista né sentita arrivare- disse Isaac e scrollò le spalle, riavvicinandosi alla scrivania.
-Ah. Credevo mi stessi ignorando- l'uomo fece una piccola smorfia, che poteva significare tutto o niente. -Ieri sera è stato...-
-Uno schifo- Emma annuì e si scostò il ciuffo da davanti gli occhi. -Ho rischiato seriamente di prenderli a pugni, anche solo per godermi le loro facce di cazzo stupite nel vedermi agire in modo... poco femminile-
-Sì, è stato spiacevole per tutti- concordò Isaac, cercando di mantenere i toni della discussione neutri.

Non aveva voglia di approfondire gli aspetti orribili della cena che avevano dovuto subire la sera prima. Aveva dovuto rinunciare ai propri piani con Bryan soltanto per trovarsi alla stregua di un ospite indesiderato, attorno a un tavolo con quattro uomini che non si erano risparmiati stupore nell'udire le parole di lusinga di Yona, per il lavoro svolto dal suo socio. Che Yona avesse deciso di cambiare rotta e schierarsi dalla parte dei suoi colleghi non era bastato, ed Emma aveva dovuto sorbirsi frecciatine sessiste, mentre ad Isaac, a un certo punto, era persino parso di essere diventato invisibile.

Ricordava di avere pronunciato non più di un paio di frasi, bellamente ignorate dai loro finanziatori, e si era dovuto trattenere più di una volta per evitare di rovesciare il tavolo addosso ai quattro mentre facevano apprezzamenti squallidi su Emma, senza alcuna vergogna. Per fortuna, la donna era un tipo tosto e aveva saputo rispondere a tono, senza, tuttavia, riuscire a ribaltare l'esito disastroso, a livello emotivo, di quella serata.

"Sarà per questo che poi me la sono presa con Maria?" si domandò con rammarico, ignorando del tutto la voce di Emma che gli faceva da sottofondo: la donna stava esponendo il contenuto dei documenti che aveva portato con sé, riempiendo la superficie della scrivania di fogli, foto, picchiettando ora una cosa, ora l'altra, con un dito.

Emma si fermò all'improvviso e sollevò gli occhi sul collega e aggrottò la fronte.

-Non mi stai ascoltando- disse. Isaac si riscosse dai propri pensieri e scrollò le spalle.
-Scusami. Sto fuori fase-
-Casini in Paradiso?- gli domandò lei, occupando una delle due sedie riservate ai visitatori.
-Come?- le chiese l'uomo con voce stridula ed Emma sorrise, arrossendo un po'.
-Scusami tu. Devo sembrarti una ficcanaso. È che... da un paio di giorni mi sembri tornato un po' sulle nuvole. Quindi, mi chiedevo se avessi di nuovo problemi con Bryan-
-Uhm- fece Isaac e distolse gli occhi da lei, giocherellando con l'angolo di un foglio, facendosi scorrere la punta tra unghia e pelle di un pollice.

-Davvero, non volevo farmi gli affari tuoi. Possiamo continuare a parlare di lavoro e...-
-Penso di sì- la interruppe lui ed Emma tornò ad aggrottare la fronte.
-Okay. Quindi... con la Steel in pratica hai risolto...-
-Mi riferivo a Bryan- disse Isaac, troncando ancora una volta la sua frase.
Emma sospirò e abbassò le spalle, come se fosse sprofondata di colpo sulla sedia.
-Sta di nuovo male?- gli chiese con tono dolce e l'altro fece una smorfia.
-Bella domanda. Peccato che Bryan non mi dica sempre tutto quello che gli passa per la testa, quindi non lo so. Non ti so rispondere-

-Anche mio marito è un tipo taciturno. Io la chiamo timidezza, lui riservatezza. Più che altro... aspetta sempre che gli altri gli chiedano se c'è qualcosa che non va, perché di sua spontanea volontà non parla, non vuole... "disturbare" e aspetta eternamente il momento giusto per gli altri. Non ti dice mai: "ho un problema, dobbiamo parlare di questa cosa". È difficile, però, rendersi conto che sta in questa specie di fase, quando capita-
-Uhm- fece Isaac, indeciso se concedersi delle confidenze con la sua collega oppure no. Probabilmente, continuare a rimurginare sulla questione lo avrebbe portato a perdere l'occasione di sfogarsi con lei – era esattamente quello che accadeva ogni volta: stava lì a valutare i pro e i contro e, quando prendeva finalmente una decisione, l'argomento del discorso era già cambiato e lui, ancora una volta, aveva tenuto per sé i propri pensieri.

-Credevo che Bryan avesse superato l'esperienza dello scorso anno- insistette Emma e Isaac, in cuor suo, le fu riconoscente.
-Sì. In maniera... diciamo bizzarra. Los Angeles è innegabile che sia afflitta da un alto tasso di criminalità, quindi, apprendere che almeno un losangelino su tre è stato vittima di atti violenti, ha dato a Bryan la possibilità di vedere la sua esperienza come qualcosa di "normale"-
-Non è normale-
-Neanche un po'. Ma lui si è fatto forza così e l'ha superata. Io l'ho assecondato e pensavo che tutto si fosse risolto-
-Non è così?-

Isaac tornò a scrollare le spalle. Fino a che punto poteva essere sincero con lei? La conosceva da diversi anni, condividevano buona parte delle loro giornate e avevano tanto in comune anche su altri aspetti delle loro vite.

Ma non erano amici.

-È più facile sfogarsi con qualcuno che non conosci e che sai non potrà giudicarti- era il motto di Isaac, lo stesso con cui aveva spinto Keith a parlargli, la prima volta che si erano incontrati, ma lui conosceva Emma e non voleva che cambiasse opinione sul suo conto; dopotutto, lavoravano insieme e aveva bisogno che la donna continuasse ad avere di lui l'idea che nel tempo si era creata.

Tornò a giocherellare con un foglio, mentre Emma nascondeva un sorriso, "Uguale, uguale a mio marito" pensò lei e sospirò rassegnata a insistere, anche se, alla lunga, avrebbe potuto passare davvero per una ficcanaso e la cosa non le piaceva neanche un po'.

-Davvero Bryan ha avuto una ricaduta, dopo così tanto tempo? Forse c'è dell'altro...- disse e Isaac, ancora una volta, si strinse nelle spalle.
-Non litighiamo mai, quindi tutto quello che c'è da affrontare non lo affrontiamo. Si aggiusta da solo nel tempo-
-Questo non va bene-
-Fin'ora è andata benissimo-
Emma scosse la testa e il ciuffo le ricadde davanti gli occhi; se lo portò dietro un orecchio e tornò a fissarlo con una strana intensità.

-Sei proprio come mio marito- disse e Isaac trasalì e le rivolse uno sguardo di rimprovero.
-Ma... prima intendevo che il timido è Bryan-
Emma si lasciò sfuggire una risata.
-Siete uguali. E uguali a mio marito. Oh, io lo amo! Ma rimane un testone timido. Lo stesso sei tu. Non c'è nulla di male nel litigare, ogni tanto. Ad aspettare il momento giusto, che la cosa passi, si fa più male che bene. Meglio una litigata furiosa e tirare fuori tutto. Così poi si può fare pace!-
-È solo una sensazione- disse Isaac, cercando di giustificarsi. -Probabilmente sto costruendo un castello per nulla-
-Oppure... è il tuo sesto senso a metterti in allarme. Faresti bene ad ascoltarlo e affrontarlo a viso aperto- ribatté Emma. -Se ti sei sbagliato, puoi chiedere scusa. Se lo ignori, però, non puoi sapere quali conseguenze ti tirerai addosso-

Dall'altra parte della città, nel suo negozio a Malibu, Bryan non poteva saperlo, ma il suo umore non era poi tanto diverso da quello di suo marito. Per motivi differenti, ma anche il giovane aveva trascorso buona parte della giornata sopraffatto da una costante ansia e più aveva tentato di scacciarla via, rifiutando di rispondersi al perché si sentisse a quel modo, maggiore era stato il disagio che gli si era accumulato nel petto, rendendolo irascibile.

Quando Titty fece il suo ingresso nel negozio di fiori, Bryan la mandò a quel paese subito dopo avere udito due battute dell'amica, non sopportando quella sua tipica ironia pungente che caratterizzavano tutte le loro conversazioni, ma che, quel giorno, gli risultò davvero insopportabile.

-Hai la luna storta?- gli chiese Titty, tallonandolo in giro per il negozio, senza dargli tregua.
-Sto lavorando, cazzo, Titty! Non ho tempo da perdere- sbottò Bryan e la giovane incrociò le braccia sotto al seno, studiando con attenzione tutti i suoi movimenti.
-Non è che hai litigato, non litigato, di nuovo con Isaac?- gli domandò e l'altro trattenne a stento un urlo, dandole le spalle e mettendosi a lavorare su una composizione di fiori.

Titty si guardò intorno, notando Thomas e Veronica spiarli senza alcun ritegno, mentre si muovevano con fare fintamente distratto per il negozio.

"La situazione si sta facendo preoccupante" si disse, osservando l'amico tagliare i gambi di alcune rose con troppa irruenza, facendo produrre un agghiacciante zac! alle forbici che stava utilizzando, "Con la forza che ci sta mettendo, potrebbe tagliare pure una mano a qualcuno" e alzò gli occhi al soffitto, mentre tra i pensieri le risuonavano gli ammonimenti di Evan.

"Ma questo è un caso eccezionale!" protestò mentalmente, come se Evan si fosse materializzato dentro la sua testa per litigare con lei, "Anche tu hai detto che non abbandoniamo un amico in difficoltà!" e prima ancora che l'Evan-pensiero-visione le facesse cambiare idea, recuperò il proprio cellulare e corse nel giardino del negozio, facendo partire una telefonata al numero di Keith.

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