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La chiamata era arrivata esattamente all'una, trentasette minuti e cinquantaquattro secondi.
Faceva caldo.
Sonja Decker era abbandonata in posizione di stella marina sul pavimento, alla ricerca di un minimo ristoro.
L'aria condizionata aveva dovuto tagliarla. Non poteva di certo permettersela, senza uno stipendio.
Aveva già scacciato l'idea di salire al piano di sopra e chiedere ospitalità ai suoi genitori un paio di volte, ma più il sudore aumentava, meno convinto diveniva il suo orgoglio.
Le mani ai capelli, tirava due grosse ciocche in direzione opposta. Se continui così rimarrai calva, le diceva sempre il suo collega. Dio, quanto le mancava lavorare con quell'uomo!
Come le era venuto in mente di lamentarsi degli omicidi?
Stupida. Stupida. Stupida.
Il suo desiderio era stato esaudito, e del dipartimento della omicidi le era rimasta una foto stropicciata, ficcata a caso nello scatolone in cui aveva riposto dodici anni di onorato servizio.
Le sarebbe bastato pure uno di quei noiosi incidenti sul lavoro, in cui il malcapitato di turno, solitamente messicano, scivolava da un'impalcatura non a norma e batteva la testa ovviamente priva di casco protettivo.
E invece niente.
Non si moriva da duocentosettantatré giorni e mezzo, e la sua pazienza aveva già superato il limite da tempo.
Sonja stava per l'appunto autocommiserandosi e alzando bandiera bianca al richiamo dell'aria condizionata, quando il suo telefono cellulare squillò.
E no, non il suo cellulare privato, quello dove riceveva noiose catene di preghiera per invocare il miracolo dell'Apocalisse e immagini di gatti.
L'altro telefono.
IL telefono.
Quello di lavoro.
"Ci mancavano solo le allucinazioni" sbottò, tappandosi le orecchie. Ma il fastidioso trillo non accennava a smettere.
Due minuti e mezzo seminterrato sottosopra dopo, Decker scriveva sul retro di un pacco di cereali l'indirizzo di un mediocre hotel in centro.
*
"Dan! Hanno chiamato anche te" esultò Sonja, correndo ad abbracciare l'ex partner.
"Solo i migliori!" rispose quello, rispondendo calorosamente all'abbraccio.
"Non posso ancora crederci."
"Nemmeno io... Eppure, eccolo qui il nostro cadavere."
"Cosa abbiamo?" chiese lei, chinandosi sul corpo. Una ragazza davvero bella, non c'era che dire.
Fossero stati tempi diversi, avrebbe pensato alla sua tragica scomparsa come un vero peccato.
Daniel MacDonald recuperò un taccuino dalla tasca dei pantaloni e cominciò a scorrere tra le note ordinate con il dorso della penna.
Si schiarì la gola, raddrizzò la postura e recuperò un tono solenne e professionale che il Creatore - e anche la sua povera moglie Annette, che da duecentosettantatré giorni si sorbiva un polpettone di lamentele - sapeva quanto gli fosse mancato.
Fece in fretta il resoconto della situazione.
Della ragazza non si sapeva molto. Si chiamava Agnès Fixemer, aveva ventisette anni e nessun segno di colluttazione sul corpo. Aveva preso la camera in affitto quattro giorni prima e, stando alla testimonianza dell'addetta alla reception, sembrava decisa a fermarsi a lungo.
L'ammontare di vestiti, trucchi e gioielli sparsi per la camera faceva pensare che fosse ricca sfondata, forse al punto di poter comprare un viaggetto all'altro mondo da uno scienziato pazzo.
Nelle sere precedenti, aveva riscosso un certo successo con una manciata di ricchi ospiti dell'hotel, tutti uomini, al bar al pianterreno. Quello della notte prima si chiamava Steven Bauer, avvocato, camera 1019.
"Toccherà andarci a parlare" disse Sonja, rivolgendo un ultimo saluto al suo piccolo miracolo.
Che fosse morta da sola, così, per cause naturali?
Assurdo.
Eppure, sempre meno assurdo di un uomo che avesse trovato il modo di uccidere.
Un killer a piede libero.
Dio, quanto ci aveva sperato!
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