7. INGIUSTIZIE E SILENZI

<<Di tanto in tanto qualche astro splende più di altri illuminandosi in cielo. Ma è solo una placida apparenza, tutto si acquieta nell'opalescenza di un cielo infiammato. Malato come il cuore di questa terra sfruttata, usurpata, violentata dalla stupidità umana...>>
<<Tesoro stai bene?>> mi chiede mia madre sinceramente preoccupata.
A dire la verità lo sarei anch'io se ascoltassi queste parole da mia figlia.
Mi guarda seria, poi mi accarezza il volto scansando una ciocca.
<<È successo qualcosa a scuola? Sai che puoi dirmi tutto>> aggiunge speranzosa.
Le ho sempre raccontato ogni cosa, mia madre conosce ogni mio pensiero, ma dubito la metterei al corrente di ciò che avviene a scuola. Penso abbia già troppe preoccupazioni nella vita di tutti i giorni.
<<Niente mamma>> le sorrido falsamente, <<ho solo ripensato alle parole ascoltate in un documentario sul riscaldamento globale. Sai che se non facciamo nulla i ghiacciai si scioglieranno e Miami scomparirà?>> spiego con la speranza di rendermi credibile; i lineamenti del volto di lei si fanno più lievi. Mi ha creduta e la preoccupazione abbandona in un sospiro il suo petto.
<<Vado a dormire, sono distrutta>> le dico baciandola sulla guancia prima di alzarmi. Non le posso raccontare cosa ho visto e ascoltato questa mattina in classe. Ho ancora la nausea che mi stomaca la mente.

Ripenso a quelle urla e le risate di sottofondo, a come i miei compagni di classe ridacchiavano dinanzi lo schermo di un cellulare mentre uno di loro mostrava con orgoglio le sevizie riservate ad una delle governanti della sua casa. Poi sempre più sdegnata ascolto il racconto di come, con una forchetta, uno degli imbecilli del gruppo l'abbia rincorsa a lungo punzecchiandola. Impossibile trattenersi; il pensiero che uguale trattamento sia riservato a mia madre, ha acceso dentro me un fuoco dirompente.
<<Perché?>> mi volto affrontandoli. <<Non pensate possa soffrire? Credete abbia un'anima di cartone questa donna, tale che non possa provare dolore?>>
Loro mi guardano impassibili per alcuni secondi, poi scoppiano a ridere ancor più esilarati.
<<Che ti importa>> mi risponde il probabile artefice della molestia. <<Questa è una schiava, la mia schiava>> precisa con sfregio, incorporando nella possessione la massima espressione di un disfacimento e degradazione sociale. <<E quanto tale io posso ogni cosa.>>
Non replico neppure, ogni mia parola sarebbe superflua. Impossibile modificare il pensiero, oramai, troppo contorto e sporco perché faccia entrare anche il minimo bagliore di lucida coscienza.
Mi volto e cammino spedita nel corridoio sino ad arrivare ai bagni. Improvvisamente, la colazione ha preso a fare a cazzotti con le pareti dello stomaco.
Chiudo la porta alle spalle e rigetto ogni cosa. Il puzzo, di piscio misto all'acre odore del vomito, mi stomaca ancor più di prima, ma oramai i conati di vomito non hanno più efficacia. Il mio stomaco si è svuotato con gran facilità dello scarso e insufficiente tramezzino ingurgitato di fretta durante il lungo percorso mattutino.

Mi sdraio sul letto. Sono distrutta. Da qualche tempo a questa parte sto seriamente ripensando e odiando la decisone di frequentare questa scuola. Ma ancora una volta l'idea di come questo diploma elitario possa aprirmi strade ancor più elitarie mi fa accantonare il desiderio di abbandonare. "Devo garantire a mia madre un futuro migliore" concordo con me stessa stringendo i pugni lungo i fianchi. Mi volto di lato portando entrambi le mani sotto la guancia. Improvvisa alla mente torna l'espressione derisoria di Sebastian. Stringo i denti ripensando a quando uscendo dal bagno questa mattina, ho incrociato i suoi occhi. "Probabilmente avrà ascoltato tutta la conversazione in classe, ed essendo anche lui figlio della stessa società malata, avrà voluto umiliarmi ulteriormente riservandomi quel sorrisetto da scemo" concordo con nervosismo <<come uno stronzo!>> correggo inviperita. Sospiro rigirandomi su me stessa. L'idea di come debba affrontare un progetto tanto importante assieme al mio compagno di classe mi demoralizza. Eppure l'indomani dovremo incontrarci assolutamente. Ci siamo dati appuntamento alle dieci e trenta di mattina per scambiarci il materia e concordare sull'argomento da trattare. E nel mentre formulo in mente qualche bella frase ad effetto da rifilargli, il sonno mi rapisce donandomi un po' di sollievo.

Sono in ritardo, avrò di già perso la prima metro, se corro un po' più veloce forse riesco ad arrivare in tempo per la seconda campanella; oggi alla prima ora ci sarà il test di matematica e proprio non posso perderlo. Sarebbe un sacrilegio rovinare la perfetta media da me tanto faticata. Mi fiondo lungo le affollate scale mobili di una metropolitana presa d'assalto. Spintono qualche spalla assonnata lasciandomi dietro un po' di scuse affrettate.
Finalmente intravedo il piazzale, ma la metro è di già lì, e le porte si stanno per chiudere. Spicco l'ultimo salto come se stessi volando per davvero; l'atterraggio, però è decisamente meno soave, provocandomi una distorsione della caviglia destra. I lineamenti si contraggono in un'espressione addolorata, ma non ho il tempo per valutare il danno e dunque spingo ancora più sull'arto peggiorando di certo la prognosi.  "Margiori non ne sarà di certo contenta."
Resto in piedi, pressata da corpi accaldati e maleodoranti di lavoratori assonnati. La caviglia mi pulsa, mantengo il piede sollevato poggiando solo la punta anteriore della scarpa sulla superficie plastificata della metro in modo da alleviare un po' il dolore, ma ad ogni curva o frenata, la massa si sposta all'unisono trascinandomi con essa. "Se solo potessi sedermi per dieci minuti, forse..." sospiro, ma ciò non avverrà sino all'ingresso in classe, e purtroppo, istruita dall'abitudine di tutti i giorni, lo so sin troppo bene.

Ora sono in classe, il professore ha di già distribuito i fogli bianchi a quadretti per tutti i tavoli. Mi tasto la caviglia riscontrando un rigonfiamento. Nuovamente i lineamenti del volto si contorcono e improvvisi i miei occhi si imbattono in quelli curiosi di Sebastian che mi fissa da qualche banco più in là.
Vacui, freddi. Cosa pensa lo sa solo lui e di certo a me non interessa. Contraccambio lo sguardo per alcuni secondi prima di mimargli un "cosa vuoi" con le labbra. Lo vedo alzare un sopracciglio quasi sorpreso, poi si volta mostrando uguale indifferenza di sempre. Stamattina sono più acida del solito, lo so. Ma lo sguardo derisorio che ieri mi ha scortesemente dedicato, ha contribuito a riservargli personalmente uno spazio nella mia mente catalogandolo con l'acronimo di antipatia.

Gli esercizi sono esattamente quelli attesi. Procedo senza intoppi sin troppo sicura che anche questa volta sarà una "A".
Qualcosa mi punzecchia le spalle. Neppure so chi sia seduto dietro di me. Al mio arrivo ero tanto esausta che non ho fatto in tempo a prendere nota dei compagni di classe. Mi volto e scorgo la punta di una penna che fastidiosa mi colpisce ripetutamente la schiena.
<<Spostati>> sussurra il ragazzo <<fammi vedere il foglio>> aggiunge speranzoso di poter copiare, accompagnando la richiesta col sorriso più falso di sempre.
È proprio lui: Marcus. E nella mia mente quella penna prende spessore e diviene artefice di sofferenze. Fisso con disgusto la stessa mano che pochi giorni prima impugnava una forchetta e rincorreva una donna impaurita e depredata dal coraggio di reagire. Mi faccio carico di una vendetta sciocca, ma pur sempre significativa e così gli sorrido dispettosa. Quindi mi volto e trincero il banco come fosse per davvero un piano di battaglia segreto dal quale dipende la salvezza dell'intero pianeta.

L'altro sorpreso, incassa l'affronto. Lo sento mugugnare risentito e imbestialito. Un poderoso calcio punisce lo zaino al mio posto, ed io immagino di già quel misero pacchetto di creckers divenire polvere.
<<Brutta troia spostati e fammi copiare>> ordina alzando leggermente il tono di voce. Ora più di una persona ha calamitato l'attenzione sui sottoscritti.
Impavida lo ignoro.
<<Se non ti sposti, quando usciamo da scuola ti ammazzo>> minaccia.
E stavolta un brivido mi risale la schiena. Conosco Marcus solo di fama e so che non è esattamente il ragazzo contro cui mettersi contro, ma so anche che se dovessi abbassare la testa in questo momento, a me sarebbero riservate ugualmente ingiurie e forse anche qualche dispetto, oltre alla perdita vigliacca della sfida.

Ingurgito la saliva del timore e strafottente mi volto.
<<Ci aspettiamo fuori!>> gli rispondo con la massima calma.
L'altro è sorpreso; scorgo le labbra schiudersi di poco l'arcata sopracciliare alzarsi di molto. Poi un ringhio infesta la sua bocca.
<<Cosa sta succedendo?>> ci interrompe il professore.
Non so cosa fare, se spifferare tutto o tacere.
<<Grace, se ti sento ancora parlare ti sbatto fuori!>> mi minaccia il professore vigliaccamente e felicemente inconscio del battibecco. La famiglia di Marcus, i Browns, è una delle più prestigiose di New York, quasi nessuno oserebbe contrastali, e di certo non un umile professore di liceo. E forse io sono stata un po' sfrontata e sciocca. Ma l'idea di come il professore abbia ripreso unicamente la sottoscritta mi indiavola, facendomi accantonare la paura. Tuttavia, il pensiero di come il brutto voto causerà non pochi problemi allo stesso Marcus una volta saputo a casa, mi balsamica l'anima indignata.

Buon anno nuovo a tutti voi ❤️
Volevo solo dirvi che sono episodi realmente accaduti. Ho vissuto questi momenti per davvero al Liceo e ancora tutt'oggi il pensiero mi lascia un sapore amaro.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top