Capitolo 9

It's a dirty businnes, dreaming

Where  there is silence and not screaming

Where there's no daylight

There's no healing

- U2


Alec trattenne il respiro e contò i secondi che lo separavano dalla sfuriata della madre.

Uno, due, tre...

Cosa sarebbe stato peggio, dover fronteggiare lei o farla pagare pesantemente a Mya, rischiando così di ferire anche Adam? E dopo che sarebbe accaduto tra loro due?

«Louise!» salutò la ragazza con finto entusiasmo, al di là della porta.

Quattro, cinque, sei...

«Mya! Hai visto Alec?»

Sette, otto, nove, dieci...

Il silenzio lo tenne sulle spine, ma alla fine la giovane rispose, come se ci avesse pensato su. «È da ieri sera che non lo vedo. Sono passata a prendere una cosa che ho scordato in camera di Adam, ma non l'ho incontrato.»

Alec si lasciò andare a un sospiro di sollievo e si perse il resto della conversazione. Non poteva credere che Mya l'avesse coperto, ma effettivamente era proprio ciò che era successo. Forse era molto meno dispettosa di quanto sembrasse. In fondo aveva appena avuto l'opportunità per vendicarsi di ciò che lui le aveva fatto il giorno precedente, eppure non ne aveva approfittato. Ringraziarla era il minimo.

«Credevo mi odiasse» ipotizzò riguardo Mya quando le voci furono svanite del tutto.

Adam, che fino a quel momento era rimasto fermo tanto da creare una piccola pozzanghera accanto alla porta, si guardò i piedi, osservando ciò che aveva combinato. «Non ti odia. Deve solo imparare ad accettarti. Non è facile.»

Alec annuì con poca convinzione, più per far cadere il discorso che per il fatto d'esser d'accordo. Avrebbe dovuto assolutamente scusarsi, in modo tale da non sentirsi minacciato ogni volta che la sua tranquillità dipendeva da lei. Come in quell'occasione, ad esempio. Mya era stata clemente con lui, forse l'aveva fatto per il fratello o forse no, ma in ogni caso era necessario che avesse una convivenza pacifica con lei.

«Prendo dei vestiti asciutti. È meglio se resti qui finché il segugio non va via» disse Adam, facendolo ridere. Si tolse la maglietta e ne passò la parte meno fradicia sulla testa, cancellando gli strani riflessi che le goccioline avevano generato. Rimase a torso nudo, ancora bagnato, e aprì l'armadio per trovare un cambio per entrambi.

Un tuono squarciò l'aria rimbombando tra le pareti della stanza, ma Alec non se ne accorse, troppo impegnato a rimirare affascinato la schiena liscia del ragazzo con un po' d'invidia: la sua pelle sarebbe stata marcata per sempre da quelle cicatrici biancastre che si era procurato durante l'incidente, quasi a volergli far rivivere ogni giorno quel ricordo che mai, in ogni caso, avrebbe cancellato dalla propria memoria.

«Tieni.» Adam gli porse una felpa che appariva abbastanza pesante da scaldarlo bene. Le loro dita si sfiorarono e Alec dovette trattenere il respiro. Senza potersi controllare, tornò a pensare al fastidio provato per essere stato stretto sulle gambe, al brivido che l'aveva scosso, non per il freddo.

Per distaccarsi da tutto ciò, si guardò intorno. Adam stava ancora cercando di asciugare le zone più umide con la sua vecchia maglia. Il bagno non c'era e non poteva uscire per cambiarsi o avrebbe rischiato di farsi scoprire. Però... non voleva che l'altro vedesse. Non voleva che qualcuno sapesse com'era ridotto, che posasse gli occhi sui segni che lo marchiavano. Se li era meritati, dal primo all'ultimo, ma erano un suo cruccio personale, che non avrebbe condiviso con nessuno. Era il suo modo di scontare la pena, suo e solo suo.

Rimase con la testa bassa a osservare le proprie mani tremanti che stringevano forte il tessuto grigio. Tutt'a un tratto non voleva più essere lì.

I fruscii dei movimenti di Adam si interruppero e avvertì il suo sguardo su di sé, unica percezione di ciò che lo circondava. Respirare divenne più difficile, e le sue spalle iniziarono a essere scosse sia dal freddo che dallo stato di ansia in cui stava precipitando.

Si sentì toccare, e l'aria affluì nei suoi polmoni gelida come la neve, graffiandogli la gola e incendiandogli il petto.

«Qualcosa non va?» gli chiese Adam, che ora gli stava di fronte, indeciso.

Alzò appena il viso per incontrare il suo addome definito. Scosse il capo e tornò alla posizione originaria. Era successo troppo quella mattina, e per lui che era abituato a vivere giornate piatte e tutte uguali non era facile.

«Alec» venne chiamato. Sapeva di dover rispondere, ma non riuscì a far uscire un solo suono dalle labbra arrossate.

Udì Adam muoversi e sperò che se ne andasse, che lo lasciasse solo come desiderava, ma purtroppo non fu così. Il ragazzo gli si inginocchiò davanti in modo da essere alla sua altezza e lo obbligò ad alzare il capo per guardarlo negli occhi. Il contatto sulle guance lo fece tremare ancora di più, ma per fortuna erano brividi che potevano essere attribuiti facilmente all'acqua gelata che gli si appiccicava addosso.

Si ritrovò Adam a una decina di centimetri, che lo guardava concentrato, seppur un cipiglio di preoccupazione gli adombrasse il volto. Lo studiava, stava cercando di capire che cosa avesse. Doveva impedirglielo, non voleva scoprisse il suo attacco d'ansia, o qualunque cosa fosse.

«Sto bene, è solo il freddo» mentì. Sapeva alla perfezione che non era molto credibile, ma lo disse ugualmente pur di non rimanere in silenzio.

Provò distanziarsi in modo da poter avere più aria per sé poiché la carenza iniziava a divenire un problema. «Voltati» ordinò, lasciando l'altro perplesso.

Adam alzò un sopracciglio, scettico. «Ti vergogni di me?» domandò, indeciso se ridere o restare serio. Probabilmente non riusciva a comprendere la gravità della situazione, e pareva infastidito da ciò, dato che era abituato ad avere sempre tutto sotto controllo.

Alec inspirò a fondo prima di ribattere, per assicurarsi che la voce non gli si spezzasse. «Voltati e basta, ok?»

Non seppe se aveva avuto successo nel convincerlo soltanto con il tono o se era stata l'espressione implorante che aveva involontariamente assunto a fare il resto; in ogni caso, Adam ruotò su sé stesso e attese dandogli le spalle senza dire una parola. Quasi non ci credeva, era stato così facile e non aveva dovuto dare troppe spiegazioni.

Cercando di sbrigarsi, si tolse il tessuto bagnato di dosso e se lo passò sulla testa come aveva fatto il suo amico. Non gli servì insistere granché dal momento che i capelli erano così corti che quasi non catturavano acqua. Si infilò la felpa color grafite che gli aveva dato l'altro e si perse per un istante nel profumo che emanava, lo stesso che gli aveva sentito addosso quando gli si era avvicinato, ma un po' più impersonale, meno aspro.

«Hai fatto?» sbuffò Adam infastidito, e lui distolse rapidamente il naso dalla stoffa prima di assentire.

Il giovane, dopo essersi girato, gli strappò la maglietta dalle mani e la poggiò sul termosifone insieme alla propria. Gli rivolse uno sguardo indagatore e si soffermò sul suo viso, al di sotto degli occhi. Si era accorto di quanto fosse stropicciato dal poco sonno. Alec ricordava di aver scorto l'alba prima di essere riuscito a perdere conoscenza, quindi doveva aver dormicchiato solo per qualche ora.

«C'è qualcosa che non va. Qualcosa che non vuoi farmi vedere?» ipotizzò Adam. Non era sicuro se quella fosse una domanda, forse era più rivolta a sé stesso.

«Sto bene» disse in automatico, anche se forse non era la più azzeccata delle risposte. Era stata l'abitudine a spingerla, la frase che rifilava continuamente ai genitori a ogni loro preoccupazione.

«Di certo non si può dire questo» replicò Adam senza insistere, mentre indossava a sua volta qualcosa di caldo e si cambiava pure i pantaloni. Quelli di Alec erano zuppi, ma mai se li sarebbe tolti lì, e forse l'altro l'aveva capito.

Adam lo lasciò stare per raggiungere il divanetto, sul quale si sedette dopo aver acceso la tv. Prese un joypad e schiacciò il tasto al centro. «Ti va una partita alla play?»

Alec fu stordito dalla rapidità con cui aveva fatto cadere la conversazione scomoda, ma la cosa giocava a suo favore, quindi non commentò. Si mosse fino ad arrivargli accanto e passò con un piccolo sforzo sul morbido del cuscino, ma all'ultimo il braccio cedette sotto al suo peso e lo fece scivolare di faccia contro la spalla di Adam, con le gambe sulla metà più esterna del cuscino e il corpo che occupava l'altra metà.

Il ragazzo sobbalzò ma non lo scansò mentre lui rimaneva fermo a lamentarsi per il dolore e la stanchezza. Forse era per quella che i muscoli non lo reggevano più.

«Tutto ok?» si assicurò Adam, sfiorandogli appena la schiena. Solo in quel momento si rese conto che poteva averlo infastidito, e si allontanò da lui con uno scatto, imbarazzato. Non ebbe la forza di spostarsi troppo, abbandonò il capo contro lo schienale del divano e sospirò pesantemente.

«Tutto ok. Sono solo un po' stanco.»

Adam fece per dire qualcosa, ma poi si morse un labbro e mantenne il silenzio. Alec non ebbe nemmeno l'energia di domandarsi cosa avesse trattenuto. Le palpebre pesavano verso il basso come attratte da calamite.

«Puoi dormire, se vuoi» propose il giovane Brass. Nella sua voce erano presenti sfumature rilassanti e tranquille.

Alec scosse la testa. «Non posso... cioè, non riesco. Non dormo più di qualche ora al giorno.»

Il rumore della console risuonò dal grande televisore.

«Perché?» gli chiese l'altro, ma l'unica risposta che riuscì a dare fu un'alzata di spalle disinteressata.

Gli occhi gli lacrimarono e li chiuse completamente, trovando nel buio un attimo di riposo.

Le ultime parole di Adam non le capì, ma avevano un tono armonioso e rassicurante, che lo accompagnò nel sonno più profondo.

*

«Alec.»

Una voce interruppe il suo sonno, placida, così come quella che lo aveva indotto. Un mormorio basso ma costante, che a forza di ripetere il suo nome lo fece tornare alla realtà.

Alzò a fatica le palpebre, incontrando l'immagine di stand-by della console. Il profumo fresco e pulito gli stuzzicò le narici, e si ricordò di essere in camera di Adam. Un movimento gli scosse la testa, infastidendolo, quindi la tirò su per stabilizzarsi. Si rese conto così di essersi addormentato contro la spalla del nuovo amico.

«Finalmente! Non avrei mai detto che fossi un tipo che non dorme. Se non fosse per quelle occhiaie non ci crederei» scherzò lui, rendendo evidente che lo stava chiamando da un po'.

«Scusami, io... non credevo di crollare così» si scusò, ancora troppo stordito per provare imbarazzo.

«Non c'è problema, te l'ho detto che potevi dormire. Mi spiace di averti svegliato, ma dobbiamo scendere per pranzo.»

Le sue parole lo fecero ridestare del tutto. Possibile che fosse trascorso così tanto tempo? E gli incubi, che fine avevano fatto? Di solito ci mettevano poche decine di minuti per arrivare a tormentarlo, eppure non ce n'era stata traccia, quella mattina.

«Per pranzo?! Quante ore sono passate?»

Adam ci rifletté su, poi ipotizzò: «Tre o quattro.»

Non tantissime, tuttavia più di quanto avesse dormito quella stessa notte. Questa volta, però, il suo sonno era stato profondo e senza sogni tortuosi, come non gli succedeva da un po'. Si sentiva profondamente riposato in confronto al solito.

«Fantastico. Andiamo» disse, ma subito una smorfia gli nacque spontanea sul volto al pensiero di dover affrontare di già sua madre. Sperava di scappare ancora per un po'.

«Non preoccuparti per Louise, probabilmente la paura di non trovarti per tutte queste ore le ha fatto dimenticare ciò che ha visto stamattina» cercò di consolarlo Adam.

«Questa non è affatto una cosa positiva» rise, e l'altro gli si accodò. Un'altra volta, grazie a lui si ritrovava a scherzare su un potenziale momento critico. Iniziava a piacergli quel prendere le situazioni così alla leggera, come se potesse fregarsene di tutto e di tutti fintanto che non era solo.

«D'accordo, andiamo dalla dittatrice» lo incoraggiò Adam con un sorriso, con una promessa implicita che l'avrebbero affrontata insieme.

Alec si issò a fatica sulla propria sedia, accorgendosi che i pantaloni gli si erano quasi asciugati al caldo di quella stanza. I muscoli erano ancora stanchi, ma il suo cervello carburava e tanto bastava. Rifletté sulle ultime parole dell'amico e scosse la testa, felice ma perplesso. Non riusciva proprio a spiegarsi la sua voglia di stargli vicino e aiutarlo, quasi potesse percepire il bisogno che ne aveva.

«Non capisco» disse per interrompere Adam che era già a metà strada tra il divano e la porta, accanto al letto ordinato. Quello si fermò e lo guardò interrogativo, invitandolo a proseguire. Alec prese coraggio ed esternò la domanda che da giorni lo tormentava. «Perché mi aiuti in questo modo? Non sono nessuno per te, nemmeno il fidanzato di tua sorella, dato che non ho fatto altro che ferirla.»

L'espressione del ragazzo virò su toni più seri e si fece riflessiva mentre formulava una risposta. «Non l'hai ferita, credimi, la conosco» si sentì in dovere di precisare prima di prolungarsi con qualcosa che, era evidente, gli risultava più complicato. «Cerco di aiutarti – di aiutarvi, dato che sarà lo stesso con tua sorella, quando arriverà – perché penso di capire quanto possa essere difficile.»

Alec, che credeva fermamente di non poter essere compreso da nessuno al mondo, s'indispettì. «No che non puoi capirmi» inveì più duramente di quanto non fosse necessario. Quasi se ne pentì, ma il suo ego sofferente continuava a credere di aver fatto bene.

Adam si avvicinò di qualche passo e si inginocchiò a terra, di fronte a lui. Alec ipotizzò che forse trovava più piacevole conversare alla stessa altezza. Anche per lui lo era, ma non l'avrebbe mai rivelato poiché poteva trattarsi solo di un caso, anche se, a pensarci bene, era accaduto più volte che Adam apparisse più a suo agio a parlargli faccia a faccia.

«Hai ragione, forse non posso» concesse, ma Alec non ne fu più così sicuro. Lo faceva riflettere e confondere al tempo stesso, a partire dal modo in cui gli aveva scostato la sedia, quella sera a cena; dalla premura che si era preso nel non sottovalutarlo, la prima volta, solamente perché non camminava; dallo sforzo che aveva fatto quella mattina per donargli ciò che non poteva avere. Questi e molti altri fattori avevano dimostrato più volte quanto Adam, al di fuori di ogni aspettativa, lo capisse. «Però, come te, mi sono ritrovato nella situazione di dover dire addio alla mia città, alla mia casa, a tutto ciò che è mio. È stato traumatico per me, anche se alla fine non è nemmeno successo davvero, quindi...»

«Quando?» lo interruppe, accantonando ogni congettura, improvvisamente interessato dalla novità.

Adam esitò. Lo guardò un po' perplesso, poi alzò un sopracciglio. «L'anno scorso. Non lo sai?» Il tono palese con cui gli aveva rivolto quella domanda altrettanto esplicita lasciava intendere che fosse un'informazione di cui avrebbe dovuto essere al corrente. Un brutto presentimento si fece strada in lui, ma scosse la testa e cercò di non dargli retta. «L'accordo era che noi saremmo venuti a Phoenix. Era tutto pronto, mancava solo da sistemare le ultime cose e fare i bagagli. Io e Mya abbiamo passato un periodaccio, lei era più triste che mai.»

La notizia lo scioccò come un pugno in pieno volto, e rimase a fissarlo senza comprendere, senza voler comprendere.

«Perché non siete venuti?» lo interrogò con un filo di voce, anche se in realtà già conosceva la risposta. Solo che aveva bisogno di udirla, di assicurarsi che fosse vera, sentire con le proprie orecchie l'ingiustizia che fino a quel momento si era celata tra le parole.

Adam tirò le labbra in una linea dritta, indeciso se continuare o no. Si stiracchiò le spalle per prendere tempo, e lo sguardo di Alec si soffermò su quella sinistra, la stessa sulla quale aveva poggiato la testa mentre dormiva. Se chiudeva gli occhi e si concentrava poteva rievocare il buon profumo che l'aveva colpito in più occasioni, quella mattina. Sebbene avesse ancora la sua maglia addosso, l'odore che il ragazzo aveva sulla pelle era ben più caratteristico di quello che impregnava il tessuto rendendolo comunque molto gradevole. Ma non era il caso di farsi distrarre, quindi si impose di restare focalizzato sulla loro conversazione, scomoda ma necessaria.

«Perché non siete venuti, Adam?»

Quello sospirò. «Mia madre non ci ha detto molto, solamente che tu avevi bisogno di più tempo. Ha taciuto qualsiasi altra cosa e ha fatto cadere il discorso, tanto che abbiamo pensato che avesse cambiato idea e ci siamo rilassati. Dopo quasi un anno invece è tornata dicendoci che tu necessitavi di un cambio di città, e che quindi sareste venuti voi.»

Il silenzio cadde sulla stanza. Alec si ritrovò a trattenere il fiato senza neanche accorgersene, e forse anche Adam fece lo stesso, poiché non si sentiva neppure il più flebile suono.

Era stato ingannato. A lui non era mai stato detto che degli sconosciuti sarebbero andati a vivere a casa sua. I genitori avevano voluto tenerglielo segreto fino all'ultimo perché sapevano che non avrebbe reagito bene. Poi c'era stato l'incidente, e la cosa aveva giocato a loro favore: non aveva più la libertà di prima e avrebbe dovuto sottostare alle loro regole perché non abbastanza indipendente. Ma Louise aveva delle turbe mentali che l'avevano portata a decidere di invertire tutto, e così aveva rovinato la sua vita ancor più di quanto non lo fosse già. Quelle turbe, Alec ne era convinto, si chiamavano odio.

«Mia madre mi odia» sussurrò tra sé e sé, trattenendo a stento il tremore che gli scuoteva le mani senza controllo. L'aria tornò nei polmoni e il sangue circolò più rapido, offuscandogli la vista con l'alta pressione.

Adam fece per dire qualcosa, ma non gli importava ascoltarlo. Tutto ciò che voleva sentire – o che non voleva sentire ma era necessario per lui – era già stato detto.

«Mia madre mi odia» disse a voce più alta, sovrastando le parole del ragazzo, qualunque esse fossero.

«Mi dispiace. Ero sicuro che lo sapessi» si scusò sincero, ma non era di certo lui a doversi dispiacere per la sua vita fatta a pezzetti. L'artefice di tutto ciò, invece, nemmeno se ne rendeva conto. Non poteva credere che era stato a un passo dal non abbandonare la sua casa e poi le cose erano andate in quel modo. Non poteva credere che i genitori gli avessero fatto un torto così grande dopo ciò che aveva passato, anzi per via di ciò che aveva passato.

Partì con una spinta energica sulle ruote, raggiungendo la porta in poche bracciate.

«Dove vai?» gli chiese in fretta Adam, ma lui lo ignorò.

Uscì e superò corridoi opulenti e quadri dai dubbi gusti, fino ad arrivare alla stanza che gli interessava. Sperava che sua madre fosse ancora lì, non aveva alcuna voglia di scendere e incontrare tutti.

«Louise!» urlò a pieni polmoni. Non voleva attirare attenzioni da lei, solo che non se la sentiva di chiamare "mamma" una persona che gli aveva arrecato tanti danni.

Impaziente, la chiamò di nuovo, alzando di più il tono. Ormai non riusciva più a trattenere il tremore ai pugni, e quasi non si accorse di essere stato afferrato per la spalla da Adam finché non se lo ritrovò davanti. Si tuffò per un attimo in quelle iridi blu zaffiro, domandandosi se potesse immergervisi per sempre e non uscirne più. Sarebbe stato bello scappar via al loro interno, lasciarsi guidare dalla tranquillità e fuggire dalle battaglie, dalle ingiustizie e dalla vita.

Poi la porta alla sua sinistra venne aperta e la figura della donna che cercava apparì. Lo guardò inizialmente con espressione ingenua, poi il sollievo si fece strada sul suo volto solo per un istante, e infine affiorò l'ira per essere stata ignorata l'intera mattina. Solo dopo qualche secondo l'incertezza eliminò completamente le altre emozioni, ma a quel punto Alec l'aveva già agguantata per la camicetta fino a tirarla a sé. Tutto il resto avvenne con una furia che non lo fece rendere pienamente conto delle sue azioni.

«Tu, tu mi odi! Avresti potuto alleggerire la mia pena, e invece non hai fatto altro che approfittartene!» Sua madre tentò di parlare, ma non la lasciò emettere un solo suono di senso compiuto. Era stanco delle sue parole. «Sei stata fortunata che tuo figlio non cammini più, eh? Cos'hai detto a papà? "Non poteva capitare in un momento migliore", eh? "Adesso non avremo più problemi con Alec al guinzaglio"! Anziché aiutarmi hai colto al volo la scusa per portarmi qui, fottuta...»

Fu Adam a interromperlo. «Alec, smettila» s'intromise, con un tono molto più duro di quanto avrebbe immaginato di sentire mai da quelle labbra. Si voltò verso di lui, carico d'ira. Si era del tutto dimenticato di averlo a fianco, tanto la frenesia gli aveva offuscato il cervello. Come si permetteva di intromettersi? Lui che aveva avuto la fortuna di mantenere la propria vita, mentre i due Callaway trascinavano via Alec, per colpa di sua madre, sempre colpa di sua madre.

«Togliti di mezzo» gli urlò contro, ma quello non si lasciò intimidire, anzi si chinò su di lui fino a raggiungere la sua altezza, per poi provare a poggiargli le mani sulle spalle, ma venne rifiutato in modo quasi violento.

«Alec, stai facendo una scenata, piantala e parliamone civilmente. Non capisco a cosa tu ti riferisca...» riuscì a dire Louise. La guardò senza cogliere lo sbalordimento che aveva preso posto sul suo viso. Tutto ciò che vide fu rosso, alimentato dal suono acuto delle sue parole.

Fu troppo per lui. Non avrebbe tollerato la sua voce un secondo di più. Si scrollò di dosso Adam per andare ad afferrarle di nuovo i vestiti, ma quest'ultimo si mise ancora in mezzo, e la sua carica furente non venne che aumentata, fino al punto di dimenticarsi qualsiasi altra cosa. In quel momento non gli importava chi era, dove si trovava e chi aveva intorno. Aveva perso totalmente il controllo, e tutto ciò che voleva era sfogare la sua ira per quell'ingiustizia.

Scagliò verso Adam un pugno che lo colpì in pieno in un occhio, facendolo arretrare di qualche passo finché non sbatté la testa contro il muro. Louise trattenne un sospiro strozzato davanti alla zuffa che si era creata.

Alec non distolse lo sguardo da lei, severo e carico di odio come non era mai stato. Solo quando vide il segno rossastro che già circondava la palpebra di colui che poco fa aveva chiamato amico si rese conto di quello che aveva appena fatto. Adam gli rivolse un'espressione sorpresa e ferita, ma non seppe se attribuirla alla sofferenza fisica che provava o al danno morale che gli aveva arrecato con il suo gesto. L'unica cosa di cui era sicuro era che non sarebbe stato in grado di sopportarne la vista ancora per molto.

Un urlo li raggiunse dalle scale principali: qualcuno stava venendo a controllare la situazione. Non ce la faceva, non avrebbe retto tutto ciò. Desiderava rimanere solo.

Arretrò finché non si ritrovò abbastanza lontano da potersi voltare, poi trovò l'energia necessaria per far girare le sue ruote e fuggire via.

*Revisionato*

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top