Capitolo 25
For the debt I owe, gotta sell my soul
'Cause I can't say no, no, I can't say no
Then my limbs all froze and my eyes won't close
And I can't say no, I can't say no
What do you want from me? Why don't you run from me?
What are you wondering? What do you know?
Why aren't you scared of me? Why do you care for me?
When we all fall asleep, where do we go?
- Billie Eilish
Tossì sotto il getto d'acqua della doccia e dovette chiuderla per tornare a respirare in modo normale. Quasi subito, i brividi gli attanagliarono la pelle per il freddo, ma li ignorò mentre obbligava il petto ad alzarsi e abbassarsi come era solito fare.
Si era gentilmente rifiutato di lavarsi nel bagno vicino la palestra. Solo il pensiero di ciò che era accaduto lì in passato, mischiato alla sorpresa in cui aveva ritrovato sé stesso a osservare Adam prima, gli aveva fatto battere il cuore sin troppo velocemente, obbligandolo a decidere per restare solo sebbene non fosse ciò che desiderava davvero; era costretto a riconoscere che la solitudine negli ultimi tempi stava diventando un fastidio sempre più esteso, che talvolta si trasformava in timore.
Ma lui non voleva che ciò accadesse. Doveva rimanere in isolamento per ricordarsi che era così che viveva, così che avrebbe vissuto. Nessuno poteva capire le sensazioni che gli albergavano all'interno del petto, men che meno lui stesso. Era solo e non aveva nemmeno la propria, di compagnia.
Si riscosse da quei pensieri e finì di sciacquarsi mentre si concentrava su un problema differente ma di egual gravità: ciò che gli aveva detto Adam in piscina. La sua aspirazione a farlo tornare a camminare era insistente ma genuina, come se la sua immobilità fosse una difficoltà che faceva star male persino lui. Era ovvio che non sapeva quanto in verità Alec meritasse quella punizione, e se solo ne fosse stato a conoscenza lo avrebbe guardato con disprezzo, ne era sicuro.
Era anche per questo che non riusciva a dirglielo. Affrontare i ricordi pungenti di quel giorno era pericoloso come ricevere una stilettata in pieno ventre, ma era certo che non avrebbe potuto sopportare l'espressione orripilata e delusa che avrebbe macchiato il viso di Adam al compimento di quel racconto.
Il desiderio di incontrarlo di nuovo ricomparì impellente quando fu fuori dalla doccia, quasi come se volesse rimembrargli quanto in realtà avesse bisogno di lui e, di conseguenza, di mentirgli per non allontanarlo. Era davvero giusto così?
Scosse il capo e si passò un asciugamano tra i capelli per poi rivestirsi. Un fulmine fuori dalla finestra lo fece sobbalzare, così come accadde alla luce emanata dal lampadario sopra la sua testa, che per qualche secondo si spense come era accaduto anche poco tempo prima in piscina.
Quando tornò la luminosità di sempre, il suo sguardo ricadde sull'orologio e si accorse che mancava ancora un bel po' all'ora di cena. Non avrebbe sopportato di rimanere con le mani in mano un minuto di più, sebbene questo significasse cedere un'altra volta a quella debolezza che continuava a spingerlo a cercare compagnia.
Uscì dalla stanza buia e venne investito dal cono di luce calda che la lampada a parete gettava su quella fetta di corridoio. Ascoltò l'ormai familiare rumore delle ruote che scorrevano sul pavimento cerato finché, pochi istanti dopo, non raggiunse una delle poche porte che in tutta la villa gli erano mai interessate. Rifletté che era un po' che non c'entrava e per un attimo credette di essere stato paziente a mantenere tempistiche più normali rispetto ai primi tempi in cui era lì, ma immediatamente si ricordò di quanto tempo aveva passato con Adam nella propria camera e si rese conto che non valeva festeggiare di non essere andato da lui se era stato lui ad aver fatto il contrario.
La porta si aprì non appena ebbe bussato, e si ritrovò davanti una sorridente Iris. Le sue labbra erano piegate in modo naturale, e persino i suoi occhi, non rivolti a lui, avevano una sfumatura allegra al loro interno.
Quando la ragazza si voltò definitivamente, il suo sorriso si espanse ancora di più, ma non riuscì a contagiare il viso serio di Alec, il quale trovava quella felicità fuori luogo.
«Alec!» lo salutò Iris, e aprì di più per permettergli di vedere Adam che si alzava dal bordo del letto. Non poté fare a meno di chiedersi se fino a quel momento sua sorella fosse stata accomodata vicino a lui, e il respiro gli si mozzò.
«Alec? Cosa ci fai qui?» Adam lo raggiunse e controllò il corridoio alle sue spalle con aria preoccupata. Subito dopo lo fece entrare e chiuse la porta di scatto, quasi senza dargli il tempo di spostarsi.
Il fastidio nello stomaco di Alec si fece più acuto quando si rese conto di non essere, forse, ben accolto. «Scusatemi se sono venuto a disturbare. Non credevo voleste stare soli» fu tutto ciò che ebbe modo di dire tra i denti, e si sorprese. Non era ciò che avrebbe detto lui, quelle erano parole di qualcun altro. Qualcuno spezzato da un dolore che non credeva di provare, qualcosa che lo stava indebolendo pian piano senza che neanche se ne accorgesse. Il vecchio Alec avrebbe semplicemente mandato tutti a quel paese e se ne sarebbe andato.
«Oh, no! Non disturbi affatto!» disse Iris, educata. Alec la guardò di sbieco, cercando però di non farla sentire colpevole. Non era con lei che ce l'aveva; nemmeno con Adam, in realtà, nonostante non potesse fare a meno di pensare che tutto quel disagio al petto provenisse dalle sue azioni. Non era mai stato così scortese con lui.
«Scherzi? Puoi restare!» aggiunse il giovane Brass. «Solo che... dobbiamo essere cauti: non dobbiamo farci vedere dai nostri genitori. Ricordi l'ultimatum che mia madre mi ha dato oggi?»
Improvvisamente rifletté sulle parole che l'amico gli aveva rivolto quel pomeriggio e si diede dello stupido per non averci pensato. Eleanor e i Callaway erano sempre vigili, e loro non dovevano farsi scoprire.
«Mi dispiace» rispose con un filo di voce. Non era riuscito a trattenersi, e se ne vergognò.
«Alec, va tutto bene?» gli venne domandato dal moro.
Fece per rispondere dopo aver incrociato lo sguardo della sorella, che tutt'a un tratto si era fatto attento. Tuttavia, si bloccò: lasciando scivolare gli occhi su di lei, aveva notato qualcosa di familiare.
«Il mio libro?» si ritrovò a chiedere, sorpreso. Tra le mani di Iris c'era niente meno che il volume che si era visto sottratto dalla sua camera e che aveva creduto avesse preso Irina.
La giovane studiò con più attenzione ciò che stringeva tra le dita, poi alzò un sopracciglio e si rivolse al fratello. «Da quando in qua è il tuo libro?» ribatté con mezzo sorriso. «L'ha scritto Adam!»
Senza che nemmeno se ne rendesse conto, le iridi argentate corsero all'amico, che se ne stava lì in piedi con fare leggermente imbarazzato. Gli aveva suggerito di non leggerlo poiché, a detta sua, era noioso, e invece gli aveva mentito. Perché gli aveva mentito se a Iris, arrivata dopo di lui, aveva detto la verità?
«Come lo sai?» volle sapere. per confermare che ne fosse venuta a conoscenza direttamente tramite lui.
Adam rimase in un quieto silenzio, come se volesse lasciare a loro il compito di far chiarezza sulla questione.
«Me l'ha detto Adam! Sa che mi piace leggere, gli darò i miei pareri sul romanzo.» Sembrava non essersi accorta del disagio di Alec alla scoperta di quelle informazioni.
Il biondo tornò a guardare Adam nella speranza di comprendere almeno un frammento di ciò che stava pensando, ma i suoi zaffiri erano imperscrutabili. Non si distolse neanche quando udì la sorella annunciare che sarebbe andata in camera sua per iniziare la lettura, né quando la salutò freddo.
Il contatto visivo tra i due si interruppe solo una volta che Adam, ricordatosi al contrario di lui delle buone maniere, si fu girato per accompagnare la più giovane dei Callaway alla porta.
Dopo che questa venne chiusa, il silenzio calò nella stanza.
«Perché non me l'hai detto?» Alec non riuscì a trattenersi dal chiedere, passato qualche secondo. Per tutto il tempo era stato lì a cercare di impedirsi di fare quella domanda, ma alla fine non ce l'aveva fatta.
Finalmente il ragazzo mosse i suoi passi fino a sedersi sul bordo del letto, e lui vi si posizionò davanti.
«Perché avrei dovuto dirtelo?»
«Perché a Iris l'hai detto!» Gli sembrava così ovvia come risposta, ma una volta che l'ebbe pronunciata parve improvvisamente infantile.
«Questo non significa che debba saperlo chiunque» si mise in difensiva il suo interlocutore.
Quelle parole lo indispettirono ancora di più. «Quindi io ora sarei chiunque?» Si rendeva conto di starsi arrampicando sugli specchi, di star pretendendo cose che non gli spettavano, ma proprio per questo non poteva stringere i denti e rimanere in silenzio. Aveva creduto di essere più in confidenza di Iris con lui, ma scoprire che si stava sbagliando gli faceva più male di quanto non volesse ammettere.
Adam indurì lo sguardo. «Ci sono cose, Alec, che non ci è sempre facile dire. Ho messo in quel libro tutto me stesso, non credi mi possa far sentire esposto il fatto che tu sappia che l'ho scritto io? Dopo che l'hai letto, poi!»
Si ammutolì, colpito da quelle parole. Iniziò a vedere la situazione sotto un'altra prospettiva, anche se non si spiegava per quale motivo a Iris l'avesse lasciato prendere senza problemi. Forse si sentiva più giudicato da lui di quanto non fosse con la ragazza? Ma perché?
Nonostante quello spiraglio di ragionamento sensato, non riuscì a tranquillizzarsi. Stava gettando addosso a Adam tutto ciò che durante quella difficile giornata era stato costretto a mandare giù, che riguardasse Iris oppure no.
«Mi hai nascosto altro? Qualcosa che sai potrebbe farmi incazzare?» domandò in ansia. Se proprio doveva scoprire altre cose spiacevoli, preferiva che avvenisse adesso.
Adam alzò un sopracciglio, preso in contropiede. «Perché mi stai chiedendo questo?»
«Non lo so. Sei strano negli ultimi tempi» sentenziò, pensando a tutto ciò che era successo con Cassie e poi con Iris.
Lui scosse la testa. «Alec, sono sempre io. Sei tu che sei strano.»
«Non è vero!» disse a voce più alta, sebbene solo poco tempo prima avesse pensato proprio la stessa cosa. Stava cambiando in qualcosa che non conosceva e aveva paura, aveva paura di sé stesso.
«Non ci sono segreti tra noi.»
«Fino a questo momento ci sono stati, però» continuò ad attaccare, imperterrito.
Il suo interlocutore aprì bocca per dire qualcosa, poi ci ripensò. Ma Alec non aveva alcuna voglia di rimandare la conversazione, quindi insistette: «Sputa il rospo.»
Alla fine il moro sospirò e assunse un tono grave. «Sei il primo ad avere dei segreti e, anche se voglio aiutarti a superare il timore di parlarne, non ti ho mai obbligato a dirmi nulla, né mi sono arrabbiato davanti al tuo silenzio. Dovresti iniziare a cercare di metterti nei panni negli altri ogni tanto, non solo pensare a quello che ti passa per la testa.»
La sua espressione era dura, lo ferì come se potesse perforare. Tuttavia, furono quelle parole a fargli più male, a graffiargli frammenti dell'animo ingrigito e intirizzito, perché erano vere. Lui non pensava mai agli altri, tantomeno al ragazzo che più di chiunque altro l'aveva aiutato in vita sua, e questo lo fece sentire irrimediabilmente sporco, egoista, senza sentimenti.
Incapace di reggere ancora l'affilatezza di quei zaffiri, abbassò gli occhi a terra e, dalle nubi presenti all'interno di essi, percepì un temporale in arrivo. Però non lo permise.
«Hai ragione. Sono uno stronzo; insensibile, egoista, indolente, apatico stronzo.» Le mani gli tremarono, ma mai come lo sguardo annacquato che, tuttavia, continuava a mantenere quel diluvio. «Non merito la compagnia di nessuno» mise in chiaro, come per affermare che non era stato lui a chiedergli di stargli vicino, ma questo non lo fece sentire affatto meno in colpa.
Si voltò senza avere il coraggio di rialzare il capo. Sapeva che incrociare quel cielo limpido nelle iridi di Adam gli avrebbe solo ricordato quanto fosse prossima la sua tempesta, rischiando di farla esplodere.
Il tremolio che si scatenò nel suo corpo quando diede la prima spinta alle ruote gli tappò persino le orecchie, quindi non ebbe idea se Adam avesse provato a dire qualcosa o se fosse rimasto semplicemente in silenzio ad attendere che se ne andasse.
Uscì nel corridoio e non si bloccò nemmeno quando vide Stephen, e nemmeno quando quest'ultimo lo chiamò.
Si rifugiò in camera sua a mordersi le labbra per scacciare via l'acquazzone imminente, finché il sapore del sangue non sovrastò il bruciore delle lacrime intrappolate nei suoi occhi.
*
Quando il suo respiro finalmente si placò, si rese conto che era già ora di cena, anzi era pure in ritardo.
Si issò a fatica sulla propria sedia e si diede una spinta stanca verso la porta. Era esausto, dentro e fuori; quel tipo di sfinimento che non poteva essere risolto con una dormita, nemmeno se priva di sogni come gli capitava quando si lasciava andare al fianco di Adam. Si morse un labbro per non pensarci, ma questo, gonfio e ormai consumato, gli inviò una stilettata di dolore che non riuscì a ignorare.
A tavola i due amici si ignorarono saggiamente sotto lo sguardo calcolatore di Eleanor. Se Alec aveva pensato che quella donna fosse più tollerabile e meno insensibile di sua madre, adesso stava iniziando a ricredersi. Almeno Louise aveva Stephen che ogni tanto tentava di bilanciare la durezza delle sue azioni. E ultimamente in più di un'occasione aveva mostrato di tenere a lui, anche se temeva di lasciarsi ingannare e quindi non si lasciava andare a quell'affetto nascosto.
Nonostante ci provasse, un po' per l'amico e un po' anche per sé stesso, Alec continuava a trovare fastidiose le attenzioni che Adam riservava a Iris, ma ovviamente non gli avrebbe detto nulla, né di quello né di nient'altro. Non gli avrebbe più parlato, non lo avrebbe più macchiato con le proprie mani intrise di errori; era stato egoista abbastanza.
Decise di non guardare più nella direzione di Adam e cercò di farsi distrarre dalla mano di Mya, stretta forte nella sua al di sopra della tavolata imbandita. Quest'ultima aveva capito che qualcosa tra i due ragazzi non andava, ma invece di fare domande si era limitata a cercare di infondere in Alec più calore possibile, e lui glien'era grato.
Fuori imperversava il temporale più imperioso degli ultimi mesi, a detta dei Brass, ma il clima più allegro del solito non lasciava che il maltempo rovinasse la cena di famiglia alla quale entrambe le coppie partecipavano ufficialmente per la prima volta. Ironico quanto lui fosse con il morale a terra e dovesse invece fingere il contrario, più di quanto avesse fatto ultimamente.
«Dovremmo organizzare una serata solo per voi due domani!» udì Louise dire, e alzò gli occhi di scatto quando si rese conto che si era riferita a sua sorella e il giovane Brass.
Per sicurezza, smise di ascoltare, preferendo mordere l'interno della propria guancia piuttosto che il carpaccio di ostriche che aveva nel piatto.
Quando tornò al piano di sopra, il nauseante sapore del sangue gli danzava sulle papille già precedentemente infastidite dal mollusco che non era stato in grado di apprezzare.
Storse il naso mentre fissava il proprio letto, poi la stanza vuota. Era dotata di ogni comfort, ma nonostante ciò non gli permetteva di essere a suo agio. Era triste, opprimente, quasi come se le emozioni che provava e aveva provato in passato fossero state così estese da fuoriuscire dal suo corpo e impregnare il luogo dove passava più tempo. Realizzò che in poche occasioni non si era sentito schiacciato da quelle pareti, e pian piano arrivò alla conclusione che in tutte quante Adam gli era stato vicino.
Un ticchettio lo tirò bruscamente via da quei pensieri prima che potesse realizzare cosa significavano davvero. Si voltò verso la porta, ma il rumore che aveva udito era diverso da quello che di solito emetteva quel legno pesante. Sembrava più il suono di un vetro...
Si girò di scatto verso la finestra e vide un'ombra confondersi con il nero petrolio che di fuori veniva annacquato sempre più dalla pioggia incessante. Poi, un'istante dopo la figura si avvicinò, e fu in grado di distinguere Adam, completamente fradicio, che lo guardava con un'espressione gentile e premurosa, come se non stesse colando acqua dalla testa ai piedi.
Lo fissò con gli occhi spalancati per un bel po' prima di riscuotersi e darsi una mossa per tirarlo via da quel gelo invernale, del quale non pareva nemmeno totalmente conscio, dal momento che un sorriso gli incurvava ora le labbra.
«Che cosa ci fai sul mio balcone?!» fu la domanda scioccata che gli rivolse non appena ebbe girato la maniglia della porta-finestra. Poteva giurare di averlo visto dirigersi direttamente in camera sua mentre lui raggiungeva la propria. Era impossibile che si fosse sbagliato.
Adam non aspettò altro per entrare, compié quel piccolo passo che lo separava dal calduccio e si richiuse il vetro alle spalle mentre gocciava ovunque mettesse i piedi. «Non dobbiamo farci vedere, ricordi?» disse con tono ovvio mentre si passava una mano tra le ciocche corvine.
Alec lo guardò tremare e si mosse istintivamente verso il bagno per fare qualcosa per interrompere quel tremolio. Prese tutti gli asciugamani che riuscì a trovare e li spinse con poca delicatezza tra le braccia dell'amico dopo essere tornato da lui.
«Quindi per non farti scoprire ti nascondi lì fuori con zero gradi e una tormenta? Sono sicuro di averti visto andare verso la tua stanza!» Se aveva le traveggole, preferiva saperlo subito.
Il moro si strofinò il tessuto spugnoso sui capelli dopo aver gettato terra qualche telo per coprire la pozza. La sua risata lo raggiunse, ovattata da ciò che aveva in testa, ma musicale come al solito. Aveva creduto che non l'avrebbe più sentita rivolta a lui dopo quel pomeriggio, e invece eccolo lì, a bearsi di quel suono e della visione di quel ragazzo in camera sua, altra cosa che credeva di aver perso per sempre.
«Credi davvero che sia entrato come un ladro per nascondermi fuori? E come avrei fatto a chiudere la finestra? Sentiamo.» Rise ancora, e Alec passò in difensiva. Doveva ammettere che una volta sarebbe stato indignato da un'insinuazione del genere, tuttavia adesso non poté fare altro che riflettere su quelle parole. Se Adam non aveva raggiunto il balcone tramite la porta significava che...
«Ti sei arrampicato?» chiese sorpreso, mentre la sua mente si perdeva in evitabili calcoli che vedevano come protagonista l'altezza che separava il primo piano da terra. Era impossibile raggiungerlo dal giardino, e se qualcuno fosse caduto da lì si sarebbe fatto parecchio male.
«Non proprio» lo prese in contropiede l'amico. «Ma ci sei andato vicino: ho solo seguito il cornicione partendo dalla mia finestra per poi girare l'angolo della villa. Dopo di quello arrivare qui è stato un gioco da ragazzi.»
Spalancò gli occhi davanti a tanta noncuranza. Gli aveva inevitabilmente dipinto nell'immaginazione una burrascosa serata di pioggia nella quale un individuo giocava a fare Spiderman su scivolosi e ghiacciati cornicioni.
«Stai scherzando?»
Si protese verso di lui e tirò l'asciugamano per farlo cadere in modo da avere accesso ai zaffiri, che fissò accuratamente fino a capire che così non era. Adam aveva davvero affrontato un percorso pericoloso, e tutto quello solamente per raggiungere la sua stanza inosservato. Per quale motivo? Quel pomeriggio non gli era sembrato che volesse stare in sua compagnia, e lo capiva. Ciò che non comprendeva, invece, era cosa stesse accadendo in quel momento.
«Hai idea di quanto hai rischiato? Piove e c'è un vento che avrebbe potuto spingerti giù, e proprio oggi tu devi destreggiarti come un funambolo per le pareti della villa?»
Adam alzò un sopracciglio, che tremolò appena. Alec si rese conto con ovvietà che non aveva smesso di avere freddo con quei vestiti fradici addosso.
«Che ti prende, Alec? Non sei mai stato così apprensivo. È una cosa che faccio da quando sono piccolo e non sono mai caduto, perché sarebbe dovuto succedere proprio oggi?»
Senza saper dare una risposta nemmeno a sé stesso, tentennò. Perché era così preoccupato? Non gli era mai importato degli altri, solo di sé stesso, e la discussione di poche ore prima ne era la prova. Il vecchio Alec non si sarebbe comportato in quel modo, e questa volta se lo ripeté nella mente fino a ficcarselo bene in testa.
«Tsk. Fai come ti pare, se vuoi sfracellarti fai pure, non credere che mi interessi.» Si ritrasse di nuovo nel suo guscio, dove i sentimenti erano più attenuati e quindi comprensibili, mica come quell'ansia inspiegabile che gli era presa scoprendo ciò che era successo. «Puoi metterti qualcosa di mio» aggiunse.
La successiva frase di Adam venne coperta dal rombo tonante di un fulmine che riuscì a illuminare a giorno l'intero giardino. Alec rabbrividì e si allontanò finalmente dall'altro per avvicinarsi al letto. Fece come se fosse solo e si issò sul comodo materasso dalle coperte bordeaux che Irina si premurava sempre di fargli trovare perfettamente lisce e pulite.
Davanti ai suoi occhi, il giovane Brass si liberò di maglia e pantaloni e si avvicinò al suo armadio. Memore di ciò che era accaduto quel pomeriggio in piscina, lui distolse saggiamente lo sguardo e lo puntò sul televisore spento, ove era comunque appena percepibile il riflesso della stanza.
«Dove tieni i pigiami?»
«Pensavo di chiedere a te quale con quale logica i miei vestiti venissero riposti. Magari ne sai qualcosa.»
Sentendo silenzio, si voltò e si accorse che Adam lo fissava stralunato, per poi scoppiare a ridere. Quando lo vide girarsi di nuovo, non ebbe la prontezza di volgere il viso altrove, e non poté fare a meno di tornare a osservare quasi con fretta qualsiasi particolare della sua schiena tonica, come la linea perfetta che entrava sinuosamente nei boxer umidi, o il modo in cui ciuffi di capelli gli sfioravano il collo come avrebbe invece voluto fare con i propri polpastrelli.
Il moro si mise ad aprire cassetti e ante finché non fu soddisfatto, e prese alcuni capi leggeri dall'interno. Nel momento in cui si portò le mani alle anche, Alec non capì subito quali fossero le sue intenzioni, ma gli fu tutto chiaro quando due dita si infilarono al di sotto del tessuto per fare pressione verso il basso.
Puntò subito gli occhi da un'altra parte mentre percepiva il cuore compiere una capriola nel petto. Adam si stava cambiando accanto a lui, completamente nudo. Si disse che non c'era niente di strano, non era la prima volta che gli succedeva qualcosa di simile, nella palestra della sua vecchia scuola tutti i suoi amici si erano spogliati vicino a lui. Nonostante ciò, per qualche motivo avvertiva il viso farsi sempre più bollente, e non poter fare nulla per indurlo a smettere gli aumentava il battito cardiaco a dismisura.
Si passò le mani tremanti sulle guance nella speranza di rinfrescarle un po', e per fortuna parve funzionare, dato che le sue dita erano costantemente ghiacciate. Il moro non si accorse di quell'anomalia, e quando lo raggiunse era quasi del tutto passata.
Adam gli si sedette vicino e rimase in silenzio. Dopo ciò che era successo tra loro, Alec non se la sentì di iniziare una conversazione, né di girarsi per guardarlo. Restò ostinatamente con il volto puntato contro lo schermo piatto, nero come la sua anima.
Dopo un po', però, la situazione si fece fin troppo pesante per essere sopportata dalla sua poco estesa pazienza, quindi disse la prima cosa che gli veniva in mente, giusto per spezzare il silenzio.
«Mi è piaciuto molto» soffiò. «Il tuo libro» aggiunse per specificare.
Vide Adam abbassare il capo e comprese quanto per lui fosse difficile parlarne. Si era comportato da vero idiota, non aveva pensato a lui, solo a sé stesso. Voleva rimediare, ma non sapeva come, non era esperto di queste cose. Più di tutto, voleva sentire ancora la voce di Adam, quindi provò a toccare un argomento più leggero.
«Venivi qui da bambino camminando sui cornicioni? Perché?»
Il ragazzo che gli sedeva a fianco parve leggermente sorpreso da quella domanda, tanto che ci mise qualche istante a rispondere. «Percorrevo la via al contrario, da qui all'altra stanza, ma fa lo stesso.» Fece spallucce, e lui avvertì che gli sfiorava una spalla con il movimento. Quel contatto casuale e appena accennato, mischiato al suo tono affabile, gli conferì il coraggio di voltarsi verso di lui.
«Perché? Cosa c'era qui?»
«Questa era la mia camera prima che arrivaste voi» sentenziò.
Alec rimase così stupito da perdere le parole. Il posto in cui dormiva era stato di Adam fino a poco tempo fa. Ma perché l'aveva lasciato a lui? Effettivamente aveva sempre pensato che la sua sistemazione fosse migliore sotto diversi aspetti rispetto a quella di Adam, e si era domandato più volte il motivo. Tanto per cominciare, aveva più luminosità, e poi aveva il bagno in camera, che non era una comodità indifferente... Ma certo. Era per quello che se ne era andato per lasciare spazio a uno sconosciuto. Lui avrebbe avuto diversi disagi se non avesse posseduto un bagno tutto per sé, e questo era evidente. Non poteva credere che Adam avesse iniziato a fare qualcosa per lui già da prima che arrivasse!
«Di là» proseguì il moro, «c'era solo una stanza per gli ospiti, ma usavo quella via per fuggire nei giorni in cui ero in punizione o per incontrarmi con Mya quando invece avremmo dovuto svolgere i nostri doveri, tipo studiare.» Emise una risata che grattò nell'animo fremente di Alec. Ancora immerso nelle sue riflessioni, era incredulo davanti a quel gesto, che in un istante aveva rievocato tutti gli altri.
Era solo un egoista. Continuò a ripeterselo più volte, finché quelle parole non gli offuscarono ogni altro senso. Adam stava parlando, ma non lo sentiva, non percepiva le sue dita sul suo braccio che cercavano attenzione, né il sapore de sangue scaturito dai suoi stessi denti che laceravano la carne. Non era in grado nemmeno di respirare. Era un egoista, lo era stato prima dell'incidente e lo era adesso, non era affatto cambiato. Si era solo illuso di poter cambiare. Di diventare una persona migliore mentre scontava la condanna che aveva accolto per essere stato talmente disumano. Però non ce l'aveva fatta.
«Alec!» il grido di Adam riuscì a penetrare l'uragano ululante dei suoi pensieri e lo richiamò a sé.
Si accorse di aver strizzato gli occhi, quindi li riaprì e per un attimo la sua vista fu macchiata da una miriade di puntini neri. Quando mise a fuoco il viso preoccupato dell'altro, aveva il respiro corto. Vide l'amico aprire bocca per parlargli e, per metà ancora risucchiato dal miasma velenoso nella sua testa, si domandò se stavolta l'avrebbe sentito, ma in quel momento un tuono più forte degli altri rimbombò così forte da assordarli, e tutto divenne nero.
Il buio che improvvisamente aveva invaso la camera alimentò la sua personale condanna, gli sottrasse quel poco di aria che gli era rimasta, lo rigettò in quell'alienazione che ergeva le sue spire verso di lui.
E lui, debole e sfinito, si lasciò andare.
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