.𝟛𝟡. (𝕡𝕒𝕣𝕥𝕖 𝟙/𝟛)

Veles

"Non morirai, amore mio. Farò di tutto per salvati", iniziai col dirle. "La felicità ci attende ed io non ho alcuna intenzione di farmela sfuggire o di vederla andar via da me un'altra volta. Io ti amo, piccola mia. Non posso vivere in un mondo in cui tu non esisti, in un mondo in cui non mi è concesso vedere il tuo viso, pronunciare il tuo nome, vederti sorridere oppure sentire il tuo respiro caldo sulla mia pelle quando stai dormendo. Io non posso e non accetto di dover vivere senza te. Sei la mia unica ragione di vita, Astraea. Combatti, combatti per il nostro amore..."

I suoi bellissimi occhi viola erano puntati su di me e le sue labbra, tinte di rosso per il sangue che aveva ripetutamente sputato ogni volta che tossiva, si chiudevano e si socchiudevano ad intermittenza.

Sembrava che lei volesse dirmi qualcosa ma non ne avesse le forze, nonostante ci provasse con tutta sé stessa.

«Rimani con me, rimani con me, piccola» le dissi, la mia voce rotta dal pianto che non riuscivo più a trattenere. Non avrei mai immaginato di arrivare al punto di piangere per qualcuno. L'ultima volta, che mi ero sentito vulnerabile come in questo momento, era stata nel periodo della mia infanzia. «Non mi abbandonare. Abbiamo ancora molte cose da fare insieme, ricordi? Non puoi lasciarmi solo...»

Lei si limitò a guardarmi, le sue labbra erano ormai rimaste socchiuse.

Non riusciva nemmeno a chiuderle.

Il suo petto bagnato di sangue si alzava e si abbassava con sempre meno frequenza. Era chiaro che facesse sempre più fatica a riempire d'aria i suoi polmoni ormai sul punto del collasso totale.

Con lo sguardo ispezionai ogni centimetro del suo corpo e la rabbia, mista alla paura di perderla, fece capolino non appena vidi l'enorme buco che aveva al centro del petto.

Una lastra di ghiaccio era ancora conficcata al suo interno ed era proprio da lì che usciva il sangue rosso che aveva finito anche per bagnare le mie, di mani.

Guardai Vanya, anch'essa sconvolta per quanto i suoi occhi chiari stessero vedendo in quel momento, e le dissi: «Dobbiamo rimuovere questa lancia che ha conficcata nel petto. Domini il ghiaccio, giusto?»

Lei mi guardò con gli occhi colmi di lacrime calde e si limitò ad annuire.

«Bene, in questo caso, sarai anche in grado di scioglierlo.»

«Si...» bisbigliò e, guardando la sua amica per un breve istante, avvicinò l'indice al pezzo di ghiaccio e questo, improvvisamente, scomparve come se non vi fosse mai esistito.

Astraea ebbe un sussulto appena percettibile quando questo scomparve e il sangue riprese a scorrere con maggiore frequenza dalla ferita era completamente in bella vista.

Il suolo ricoperto da un leggero strato di neve era completamente macchiato da questa sostanza liquida.

Posai subito una mano su di essa mentre con l'altra la tenevo tra le mie braccia.

Non avevo alcuna intenzione di lasciarla andare.

«Aiutami» dissi a Vanya e lei non ci penso su due volte prima di posare le sue mani sulla ferita che aveva contribuito a creare.

Insieme provammo a tamponarla e ad evitare che il sangue sgorgasse troppo velocemente.

Puntai nuovamente lo sguardo sul suo bel viso che, man mano che i secondi passavano, diventava sempre più cadaverico.

«Non lasciarmi, Astraea... non farlo, te ne prego...» continuai a dirle ripetutamente mentre lei mi guardava.

Dai suoi occhi sgorgavano lacrime, lacrime che avrei voluto vedere sparire dal suo viso e sostituirlo con uno dei suoi meravigliosi sorrisi.

«Sorridimi ancora una volta, principessa... Fammi vedere come illumini la mia inutile esistenza con un tuo solo gesto... resta al mio fianco, non te ne andare» le ripetei mentre altre lacrime rigavano il mio, di viso.

Sembrava surreale tutto ciò, assurdo.

Possibile che stesse accadendo veramente?

Possibile che stavo per perdere l'unica mia ragione di vita?

Se era un incubo, avrei voluto svegliarmi il prima possibile: non potevo sopportare di vederla in quelle condizioni.

Continuai a parlarle ma, ad un tratto, il suo sguardo parve perso nel vuoto, era vacuo.

Sembrava come se qualcuno avesse cliccato sull'interruttore generale del suo corpo e lei, poco alla volta, si stesse spendendo definitivamente.

Iniziò a battere freneticamente le palpebre, forse per dissipare quella fastidiosissima nebbiolina che sembrava essersi posata dinanzi ai suoi occhi, pronta ad impedirle di vedermi nitidamente in volto.

I singhiozzi disperati di Vanya erano l'unico rumore che si avvertisse in quella pianura desolata.

«Amore mio...?»

Lei aveva smesso di battere le palpebre dei suoi occhi tanzanite e le aveva lasciate quasi del tutto socchiuse.

Iniziai a sentire altre voci urlare il suo nome ma non riuscivo a distinguerle né a capire a chi appartenessero.

In quel momento, non mi importava assolutamente nulla di chi vi fosse intorno a me: la mia concentrazione era completamente rivolta a lei, alla ragazza che amavo perdutamente e con tutto me stesso.

Fu in quel preciso istante che il capo di Astraea iniziò a penzolare di lato.

Lo afferrai e continuai a mantenermelo dritto mentre le urlai qualcosa che non giungeva né alle mie orecchie, né alle sue.

Lei non mi rispose e tentai di parlarle tramite il nostro speciale canale di comunicazione mentale ma, come nel primo caso, non vi fu risposta.

Non sentivo più i suoi pensieri.

La sua mente era completamente vuota, deserta.

«Astraea, non lasciarmi...» la supplicai ma, ormai, non mi sentiva più.
Ne ero certo.

Fissò il suo sguardo dritto di fronte a sé.

Credo che esso fosse stato catturato dal movimento ondulatorio delle foglie blu avio del Salice piangente che le aveva dato e le avrebbe tolto ogni cosa.

Poco alla volta, le palpebre iniziarono a farsi pesanti e percepii la sua volontà di rimanere in vita vacillare.

Si stava lasciando andare e, in quel momento, il mio cuore si spezzò.

«No, no, no, no, no... Astraea, guardarmi» dissi con urgenza, spostandole il viso nella mia direzione con la mano che, fino a quel momento, avevo usato per tamponarle la ferita al petto.

Lei non fece alcun cenno mentre i nostri occhi erano incatenati l'uno all'altro.

Un lieve movimento delle labbra mi fece intuire che lei avrebbe nuovamente voluto dirmi qualcosa che sarebbe per sempre rimasta nella sua testa e sulla punta della lingua.

Le accarezzai la guancia, sporcandola ancora di più con il suo stesso sangue. «Rimani con me, piccola» le sussurrai con un nodo alla gola mentre il mio sguardo vagava su ogni centimetro del suo viso come a volermi imprimere nella mentre anche il più piccolo ed insignificante dettaglio. «Non andartene. Non posso vivere in un mondo in cui tu non esisti, te l'ho detto...»

Lei boccheggiò e, subito dopo, voltò nuovamente lo sguardo verso il Salice piangente.

Sembrava che il suono delle sue tenere e fragili foglie che si sovrapponevano fosse l'unica cosa che potesse esserle stato concesso di udire.

Che l'albero le stesse parlando?

Non ne avevo la benché minima idea, ma avrei voluto che esso smettesse di fare qualunque cosa stesse facendo.

«LOTTA, LOTTA, ASTRAEA» le urlai, disperato.

Non potevo lasciare che lei mi abbandonasse così.

Non potevo accettare che lei morisse e che io non potessi fare assolutamente nulla per evitarlo.

No.

No.

No.

Non potevo assolutamente permettere che qualcuno o qualcosa mi strappasse via quel po' di felicità che finalmente mi era stata concessa... Non di nuovo.

«Amore mio, resisti! Restiti!»

Lei continuò a fissare il salice sotto cui stava, man mano, perdendo le forze.

I battiti del suo cuore iniziarono a diminuire, fino a non udirsi quasi più.

Hipnôse, ad un tratto, si avvicinò a noi con la stessa velocità con cui un fulmine quarciava il cielo in un giorno di pioggia incessante e si posizionò nel punto esatto in cui si trovava Vanya, fino a pochi istanti prima.

La sentivo urlare, la sentivo piangere con la stessa disperazione che mi stava attanagliando l'anima.

Anche lei le stava dicendo di non morire, di non lasciarsi andare?

Anche lei le stava urlando con tutto il fiato che aveva in corpo di continuare a combattere?

In tutta onestà, non lo sapevo.

La mia mente era interamente concentrata sulla ragazza stretta le mie braccia.

«Astraea» pronunciai il suo nome nella speranza che lei potesse udirmi.

Ancora una volta, nessuna risposta.

Allora ci riprovai.

«Astraea?»

Fissava il vuoto e, ad un tratto, quei suoi occhi pieni di vita divennero un contenitore vuoto al cui interno non vi era assolutamente nulla.

Tutto si spense.

Tutto smise d'esistere.

Le sue palpebre pesanti crollarono come se fossero state dei macigni dal peso troppo grande da sostenere e un'ultima lacrima scese giù dal suo viso.

Non sentii più il battito del suo cuore.

Non la sentii più respirare.

Era come se tutto si fosse fossilizzato, spento in quel preciso istante.

La fissai e invocai più e più volte il suo nome, accarezzandole le guance fredde e stringendola sempre con più forza a me, come se non volessi lasciarla andare per nessuna ragione al mondo, come se volessi tenermela stretta fino a che la morte non sarebbe giunta anche per me.

"Morte..."

Astraea era...?

Lei era...?

No...

No...

No...

NO!

«ASTRAEA!» urlai, svegliandomi di soprassalto da quell'incubo spaventosamente reale che mi accompagnava quasi ogni notte.

Mi misi seduto di scatto sul pavimento sul quale mi ero addormentato chissà quanto tempo prima.

I miei occhi perlustrarono ogni centimetro di quella stanza avvolta nell'oscurità e cercai di far adattare in fretta la mia vista leggermente offuscata e di placare i battiti impazziti del mio cuore pulsante.

"Vel, vieni a dormire con me", sentii pronunciare la voce di Astraea nella mia testa e, di scatto, mi voltai nella direzione in cui si trovava la sua camera comunicante con la mia.

La porta era chiusa e non mi permetteva di vedere all'interno di essa.

"Astraea, sei ancora sveglia?", le chiesi in risposta.

La sua risata divertita e gioiosa risuonò nella mia mente e mi parve la melodia più bella e più dolce che le mie orecchie avessero mai udito in tutta la loro vita.

"Si, amore mio. Sto aspettando te per andare a dormire."

Le mie labbra si incurvarono istantaneamente verso l'alto e, senza pensarci su due volte, mi misi in piedi - anche se la testa mi girava pericolosamente, rischiando di farmi crollare al suolo da un momento all'altro - e andai spedito, seppur con passo incerto, in direzione della porta chiusa della camera della ragazza che amavo.

"Arrivo, piccola".

Aprii immediatamente la porta in legno di quella stanza che aveva visto esplodere il nostro amore ma, quando lo feci, il sorriso sulle mie labbra morì: la camera era vuota e le tende strappate permettevano alla luce della luna piena di entrarvi all'interno e illuminarla con la sua fredda e nitida luce bianca.

«Astraea?» pronunciai il suo nome che se fosse una supplica.

Non vi fu alcuna risposta.

Il silenzio regnava sovrano in quella camera completamente distrutta come, del resto, lo era quella nel quale mi ero appena svegliato.

Il mio sguardo ispezionò ogni angolo di quelle mura e, quando mi resi conto che non vi era nessuno e che la voce e la risata di Astraea non erano altro che frutto della mia immaginazione, sentii una fitta dolorosa all'altezza del petto che rischiava quasi di spezzarmi in due.

Serrai le labbra e avvertii un'insopportabile bruciore agli occhi.

Strinsi le mani a pugno lungo i fianchi e il desiderio di distruggere qualunque cosa si presentasse dinanzi a me si fece impellente.

Afferrai il vaso di fiori secchi rimasto in piedi sul comodino, al fianco del grande letto completamente stravolto e ridotto a brandelli dalla mia furia, e lo scagliai sul pavimento con una forza tale che avrei potuto creare delle crepe persino nel marmo bianco.

Afferrai altri oggetti che, senza pensarci due volte, vennero lanciati contro il muro di fronte a me.

Altri, al contrario, finirono per varcare la soglia della porta nel quale ero entrato e frantumarsi sul pavimento di quel salottino che io ed Astraea avevamo condiviso per un paio di mesi prima che lei...

Un nodo alla gola mi impediva quasi di pensare e completare quella frase nella mia mente.

Deglutii a fatica e chiusi gli occhi, stringendoli forte per evitare che altre lacrime potessero uscirvi fuori.
Ancora mi sorprendevo del fatto di averne ancora in corpo.

Lei, l'unica ragione del mio sorriso e delle mie lacrime, era...

Il suono della porta che si apriva di scatto mi costrinse a riaprire gli occhi per vedere chi vi fosse entrato dentro quelle stanze affollate da ricordi indelebili che bruciavano sulla mia pelle come se fossero stati marchi freschi.

«Ma che succede qui?» domandò la voce di Inara mentre perlustava nel buio le conseguenze di tutto il dolore che rischiava di farmi affogare al suo interno.

Le mie iridi fiammeggianti si concentrarono immediatamente sulla figura snella in camicia da notte dell'Eterna che padroneggiava le anime dei defunti.

I suoi lunghi capelli arancio le ricadevano disordinati sulla schiena e le sue ciocche bianco latte si confondevano perfettamente con la camicia da notte smanicata che aveva deciso di indossare per quella notte di inizio Stella Primaverile 5'504.

Da quando era avvenuto il grande scontro per sconfiggere e debellare definitivamente il male che lei aveva contribuito a risvegliare, Hipnôse e Aedyon, nonostante il dolore per la perdita subita, avevano deciso di accoglierla in questo palazzo reale.

Secondo loro, l'Eterna non aveva alcuna colpa se Zōira e Velisy le avevano riempito la testa di menzogne.

Loro l'avevano in qualche modo perdonata, io ancora non riuscivo a compiere completamente questo gesto seppur comprendessi appieno che non era colpa sua se Astraea era...

Interruppi quel pensiero prima che potesse crearmi l'ennesima ferita sul mio cuore ridotto in brandelli.

«Cosa vuoi?» domandai burbero all'intrusa che aveva invaso un luogo sacro per i miei ricordi felici.

I suoi occhi, dalle iridi bianche, incolore, si voltarono istantaneamente nella mia direzione e mi guardarono dritto in volto.

Le sue labbra si assortigliarono. «La vera domanda che dovresti porti non è cosa ci faccio io qui, ma cosa ci stai facendo tu dato che ogni notte si sentono strani rumori provenienti da questa camera.»

«Non sono affari che ti riguardano» ribattei con tono secco mentre cercavo di mandare giù quel nodo opprimente che mi serrava la gola.

Inara sbuffò e incrociò le braccia al petto, continuando a fissarmi con aria di rimprovero. «Non hai una bella cera, Dio della manipolazione. Sembri il fantasma di te stesso.»

«L'unico fantasma che vorrei vedere non è il mio.»

Con quella semplice frase fui in grado di farle distogliere lo sguardo dal mio viso e di farglielo puntare sui cocci di quelli che erano stati vasi sparsi sul pavimento in marmo.

Sapevo benissimo il perché lo avesse fatto: se avesse continuanto a mantenere lo sguardo su di me, io sarei stato in grado di vedere il suo senso di inadeguatezza e il suo rimorso per quanto fosse accaduto ben quarantasette giorni prima.

Quarantasette giorni...

Quarantasette giorni che Astraea non era al mio fianco...

Quarantasette giorni che lei era...

(Continua...)

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