Capitolo 9
Mentre Gill va da Denver e si assicura che lui stia bene, io mi adagio sul letto che ho scelto. La osservo prendersi cura di lui, e Jena si siede vicino a me, l'asciugamano ancora in mano e i capelli umidi.
«E ora?» le chiedo.
«E ora aspettiamo. Se ne dovranno andare prima o poi.»
All'improvviso Sahara scatta verso Gill. Le afferra un braccio e la obbliga a girarsi verso di lei. Lo sguardo di Gill esprime paura mista a confusione, come se un proiettile avesse infranto un'atmosfera di vetro. Sahara, invece, ha assottigliato gli occhi e la fissa di traverso.
«Quindi in questo momento sono sopra di noi?» le domanda in tono imperioso.
Gill ammutolisce per un attimo. «Sì...» mormora. Si schiarisce la voce. «Li ho intravisti dalla finestra mentre stavo calando Denver. In loro c'era qualcosa... di strano. Come se li avessero privati dell'anima. E i loro occhi... No, non sono umani. O almeno non lo sono per me.»
Sahara si stacca e le dà un'occhiata. «Non sono umani... Parli sempre a sproposito, Gill.» Schizza verso un basso monitor spento accanto alla dispensa. «Visione» sussurra, inginocchiandosi, e lo schermo si anima, rivelando l'intrico di alberi da cui siamo passati per raggiungere il ristorante.
Mi avvicino. «Fammi spazio» le dico.
«Col cazzo» mi risponde, e allora mi accovaccio appena dietro di lei, probabilmente coprendo la parte di schermo che poteva essere vista dagli altri. Infatti Alban si lamenta, e Sahara lo zittisce dicendogli che, se vuole assistere, deve "alzare il suo culo da quasi-cinquantenne e smettere di frignare".
«Che cosa saranno stati quegli spari?» faccio. «C'è possibilità che ci sia qualcun altro nei dintorni oltre a noi? E il boato?»
Lei si gira per un secondo verso di me. «Se lo sapessi, non sarei qui, genio.»
Non fa una piega. Sto in silenzio e intanto continuo a scandagliare lo scenario rilucente di neve che fra poco gli uomini della Fratellanza dovrebbero attraversare. Cosa è successo due minuti fa?
D'un tratto sullo sfondo appaiono dei piedi avvolti in una strana tuta dall'aspetto molto leggero. L'inquadratura immobile, spuntano le caviglie, poi le gambe, infine la schiena, e i soggetti si moltiplicano, diventando una barriera che marcia come un macchinario ben costruito. Ciascuno di loro imbraccia un lungo fucile d'assalto dalla canna stretta, la cui forma mi ricorda la lingua di un formichiere, e nessuno porta il casco, nonostante il regolamento lo renda obbligatorio per i militari in servizio.
Nello scorrere ogni loro dettaglio mi accorgo di una cosa. Capelli castani, una linea sbilanciata verso sinistra che li divide in due frange laterali. Hanno tutti la stessa capigliatura. Ed è come se anche i loro crani fossero uguali, della stessa identica misura, contraddistinti dai medesimi particolari. Il mio sangue si gela nelle vene mentre continuo a esaminarli. L'ampiezza delle spalle, la circonferenza delle gambe, persino la loro altezza – sebbene il terreno sia irregolare. Anche se Gill probabilmente li ha definiti come "non umani" in uno slancio poetico, forse non aveva poi così torto.
Quando l'ondata si ferma davanti agli alberi e il rumore della loro camminata cessa, dai recessi della mia mente riemerge qualcosa. «Jena» la chiamo. Aspetto che mi raggiunga. «Nella tua classe, il professor Moore ha mai parlato di rinnovare gli organi militari eliminando i soldati umani?»
«Intendi con gli androidi?» mi chiede lei, chiaramente perplessa dalla complessità della mia frase.
Sì, in effetti, sarei potuto essere meno enigmatico. «Esattamente.»
«Sì; ma se non sbaglio, la sua idea era irrealizzabile perché rimpiazzare l'esercito attuale con uno formato da androidi avrebbe un costo troppo alto da sostenere al momento. Cioè, qualche progetto dovrebbe esserci, però solo cose che potrebbero avere successo fra una decina di anni.»
Seguo il contorno dei loro corpi facendo scivolare un dito sullo schermo. Sento lo sguardo spaesato di Sahara pesare su di me, uno sguardo che intravedo grazie all'esiguo campo visivo di ciò che mi circonda.
«Guardali» affermo. Faccio una pausa. Attendo che il respiro di Jena si avvicini alla mia testa, segno che si è sporta per avere una visuale migliore. «Non ti sembrano strani?»
«Eccetto la loro compostezza, non vedo nulla di insolito. Al massimo è strano il fatto che non stiano ridendo come gli idioti che sono. Ma magari è perché hanno scelto una squadra estremamente qualificata per l'attacco a una delle città chiave delle UN» ribatte lei, continuando a muoversi, immagino per trovare la posizione perfetta da cui osservare la scena.
La sua ipotesi è plausibile, dopotutto. Ma ne sono sicuro. Non so come abbiano fatto a replicare con tanta fedeltà l'aspetto di un essere umano, così come non riesco a concepire come siano riusciti a velocizzare tanto la loro produzione. Gill ha ragione, però. Sono degli androidi. Devono esserlo. Forse potrei provarlo se si girassero...
Un tonfo. Ci voltiamo tutti verso destra, in direzione del complesso di letti su cui dormiremo io e Jena finché la situazione non si sarà sistemata. Allora il pavimento inizia a tremare e io mi aggrappo a una maniglia che sbuca nella parete a qualche centimetro da me, aprendo senza volerlo una piccola cella frigorifera da cui fuoriesce un vapore biancastro. Barcolliamo per alcuni secondi mentre le truppe della Fratellanza rimangono ferme, con i visi rivolti al cielo grigio come letterati in cerca d'ispirazione per un nuovo romanzo. Sento qualcosa che procede verso di noi. Deve essere molto grosso e pesante, perché ogni istante che passa il fremito della terra aumenta in concomitanza a un assurdo groviglio di rumori diversi, schianti, schiocchi, e qualsiasi altra cosa l'udito di una persona normale possa riconoscere.
«Cosa succede?» domanda Gill, stringendosi a Denver.
Richiudo la cella frigorifera e cerco di raggiungere il suo letto, alla cui sbarra si sono appigliate anche Jena e Sahara. Quando l'afferro e mi stabilizzo, scrollo la testa.
«Guardate!» esclama Alban, e nel frattempo tenta di non far cascare le armi ammucchiate sul tavolino.
Addita indiscutibilmente il monitor, che ho perso di vista nel provare a reggermi in piedi. Un'occhiata, e faccio in tempo a scorgerli mentre si girano, che la trasmissione si interrompe, cedendo il posto a un campo di chicchi di differenti sfumature di grigio e a un indistinto ronzio che si aggiunge al baccano preesistente. Rimaniamo zitti mentre il tutto raggiunge il suo apice e poi si affievolisce progressivamente fino a sparire. A un certo punto, il silenzio è opprimente. Ovviamente tutti vogliamo sapere cosa è successo. E anche se mi stessi sbagliando, non lo faccio per quanto mi riguarda: io voglio saperlo, perché non ha senso.
«Ascoltatemi» dice Sahara.
Pronto a intervenire, mi cucio la bocca e assento, quasi dandole il consenso di proseguire.
Lei, che mi sta guardando, torna subito a rivolgersi all'intero gruppo. «Il peggio dovrebbe essere passato. Ora consiglio questo: dato che c'è una dispensa zeppa di cibo in scatola, noi mangiamo e poi ci mettiamo d'accordo su cosa fare.»
«E se fossero ancora qui?» chiede Gill. «Come facciamo a stare tranquilli?»
«Se fossero ancora qui» dico io, «ci avrebbero già scoperti. Invece siamo ancora vivi. Quindi credo che farò come ha detto Sahara.» Mi alzo, facendo qualche movimento scattante e pestando il pavimento per testarne la stabilità. «Sai, non mangio da due o tre giorni, e avrei un po' di fame arretrata.»
Non appena Gill si convince della logica negli intenti di Sahara, lei comincia a dare le direttive come il buon capo che è. Io vado da Alban e insieme riordiniamo le armi e le riponiamo all'interno di una cassapanca laterale che nasconde un vero e proprio arsenale – bombe sonore, fumogeni, capsule contenenti varie sostanze chimiche, fucili e pistole laser, eccetera. Jena e Gill, invece, scelgono le pietanze con cui pranzeremo fra poco, e Sahara cerca di ristabilire il contatto con l'esterno maneggiando un intreccio di fili.
Quando finalmente capisce che ormai il suo modo per sapere cosa succede in superficie è perduto, prendiamo il tavolino e lo mettiamo al centro del bunker. Poi recuperiamo le sedie che ci sono in giro – circa sei – e le posizioniamo. Gill si accomoda accanto a Denver, che non si è voluto alzare dal letto e ha appena fatto lo sforzo di sedersi. Così sulle sedie ci siamo io, Jena, Sahara e Alban, che immergiamo i cucchiai e le forchette nella sbobba che abbiamo rimediato. Dopo averle raccolte, abbiamo messo e pescato le varie scatolette da sotto le coperte di Sahara in modo da attribuire al caso la decisione di chi avrebbe mangiato cosa, e fortunatamente a me è uscito un considerevole repertorio di frutta secca, che mi permetterà di integrare quanti più sali minerali e vitamine possibili.
Non appena mi sento abbastanza "sazio" – seppure sia difficile parlare di sazietà quando dopo due giorni di digiuno ti devi accontentare di un po' di frutta secca, – dico quello che credo ciascuno di noi stia reprimendo: «Cos'era quella cosa?»
«Una vettura?» ipotizza Alban, anticipando Sahara, le cui labbra restano aperte come se qualcuno avesse frapposto un martinetto fra le due. «Non vedo altra spiegazione.»
«Non credo» interviene Jena, appoggiando sul tavolino quello che il destino le ha fatto sorteggiare. «Ogni veicolo militare moderno è dotato di propulsori antigravitazionali, e in tal caso non avrebbe potuto provocare un terremoto simile. Non pensate?»
Sto per dire la mia, ma Sahara sbotta un: «Silenzio!»
Tutti ci giriamo verso di lei. È rossa in viso e tiene le palpebre abbassate come per calmarsi.
«Cosa ti prende, Sahara?» le domanda Alban, allungano una mano su una delle sue.
Sahara si ritrae e riapre gli occhi. «Volevo solo mangiare in pace, porca puttana. Ma qui non sapete stare zitti.»
Mah. Dov'è finita la ragazza risoluta che si è caricata addosso ogni problema da un'ora a questa parte? «Non possiamo aspettare» le dico. «Se l'esercito è avanzato, forse ora non c'è nessuno che sorveglia la periferia. E per saperlo, dobbiamo chiarire cosa abbia causato quel gran fracasso.»
«No, invece» replica lei fulminea. «Con quello che ho visto oggi – i presunti androidi, i nostri missili che venivano inghiottiti dal nulla – potrebbe essere accaduto di tutto. Potrebbe essere stata un'illusione, un suono creato solo per farci venire allo scoperto.»
Dirige le pupille verso il basso, come se avesse individuato una macchia sul legno e stesse tentando di capire di cosa si tratti. Sta pensando a qualcos'altro. Non è questo ciò che le ha fatto evitare l'argomento.
«Ma non è quello che ti preoccupa di più, vero?»
Lei mi guarda. Sospira. Per la prima volta da quando la conosco, la vedo incerta, quasi vulnerabile. «Ok» sussurra. Prende un lungo respiro e dice: «Nessuno di voi si è chiesto come mai, anche dopo la dichiarazione di guerra, i nostri uomini, gli uomini delle UN, non siano intervenuti?»
Ammutoliamo. Non mi è proprio passato per il cervello. E non è da me. Io penso a tutto.
«Ecco... Non trovo una motivazione valida che spieghi tutto ciò. Il nostro velivolo più veloce copre una distanza di settanta chilometri in pochi minuti, dovrebbero già essere qua. E... be', ho paura del perché non siano arrivati.»
Stavolta Alban riesce a stringerle una mano. «Forse sono qui e non lo sappiamo.»
«No... Purtroppo siamo molto rumorosi. Di sicuro li avremmo almeno avvertiti. E non erano quelli nello schermo, lo sai anche tu.»
Alban si zittisce. Vedere Sahara, una ragazza così determinata, senza ripensamenti, tremolare come una barra di metallo colpita da una mazza robusta è destabilizzante. Nessuno sa cosa dire. O almeno io non so cosa dire. Non sono mai stato bravo a consolare, come è solita ripetermi Jena; e anche se sapessi farlo, di sicuro non ci riuscirei con lei.
«Ma tu non avevi detto che il pericolo era passato?» se ne esce Gill.
«Ovviamente!» sbraita Sahara, alzandosi di scatto. «Pensavi forse che ti avrei detto di incominciare a piangere come una bambina perché sopra di noi potrebbero esserci degli individui con i fucili spianti contro la nostra botola?» dice senza prendere fiato, sciorinando tutto quello che ha contenuto finora. «Anche io ho paura, sai? E alcune volte la tua ingenuità non aiuta. Quindi stai zitta e segui gli ordini di chi ha una minima idea di come comportarsi in questi momenti.»
Gill apre bocca ma non replica, tornando a parlottare con Denver, che le risponde a gesti ed espressioni. Il viso di Sahara è adombrato, teme veramente che a breve possa succedere qualcosa. A quanto pare, più di quanto lo temiamo noi. Dopo che quel baccano incredibile è scomparso, io mi sono sentito sollevato, quasi sereno, perché avevamo superato indenni il peggio e, dopo esserci rifocillati, avremmo percorso la periferia di Amburgo sapendo che la maggior parte dei soldati della Fratellanza non era più in circolazione. Ora, invece... non so cosa pensare. E se Sahara avesse ragione? Se di fuori fosse rimasta una pattuglia?
"Puoi fidarti solo di una persona: Sahara". Le parole di Nile sono come olio bollente versato sulla pelle, e ricordarle è persino peggio, perché adesso mi pongono davanti a una scelta: fidarmi di lei, e quindi credergli, o lasciare che la mia natura scettica e sospettosa prenda il sopravvento? Ma nel profondo so di non poter ignorare quella vocina che mi mormora di non affidarle la mia vita. So di non poter dubitare di Jena, e credere a Nile comporterebbe questo.
«Non puoi pensarlo sul serio» dico.
Sahara si volta fulminea verso di me. Anche gli altri lo fanno, ma le loro facce non esprimono ciò che riesco a leggere su quella di Sahara: delusione, incredulità, furia. «Cosa cazzo vorresti dire?»
«Non possono nemmeno sapere che noi siamo qua. Se avessero avvistato la botola, non credi che avrebbero già fatto irruzione?» Sahara tace. «Sai cosa ti dico?» Lascio il barattolo di frutta secca sul tavolino e mi dirigo verso la cassapanca in cui io e Alban abbiamo riposto le armi. La apro e prendo la prima cosa che trovo: casualmente o no, mi ritrovo fra le mani il fucile d'assalto con cui minacciavo Nile stamattina. «Ora uscirò a controllare.»
Jena si alza, probabilmente per farmi desistere, ma io sono convinto della mia decisione e, senza aspettare un attimo, mi assicuro il fucile dietro la schiena e vado fin sotto la botola. Salto e, afferrata la cordicella, spingo con tutta la mia forza, usando anche il mio peso. Non fatico molto ad aprirla. Sahara rotola subito sotto al tavolino, facendo cascare tutto quello che c'è sopra. Ma all'esterno non c'è nessuno, eccetto dei flebili spari in lontananza che si amalgamano al fischio del vento. D'un tratto una scaletta scende da un lato della botola diretta su di me, e io la evito, per poi usarla per salire.
Non solo non c'è nessuno. Non c'è niente. Il ristorante abbandonato è due poli opposti ancora integri intervallanti da un centro di tegole spezzate, riversate a terra in un coacervo di schegge, neve e fili d'erba. Qualsiasi cosa sia passata per di qua, deve trattarsi di qualcosa di imponente, perché ha tranciato di netto la struttura. Non ha risparmiato nulla. Come se un mago avesse condotto qui uno tsunami e lo avesse fatto abbattere solo dove voleva lui. Ma la magia non esiste, e allora non riesco a sedare la questione che il mio cervello produce automaticamente: cos'era?
«Perché non c'è più il tetto?» urla Sahara da dentro il bunker.
«Perché lo hanno travolto insieme a metà edificio.»
A questo punto vedo Jena raggiungermi. A seguirla sono prima Alban e poi Sahara, che si guarda attorno come un'ossessa.
«Come puoi ben vedere» esordisco, «non c'è neppure l'anima dei vecchi gestori di questo posto.»
«Dobbiamo perlustrare la foresta» dice. «Dobbiamo accertarci che siano tutti in città, e poi potremo andare.»
Mi pare ragionevole. Annuisco.
«Ci divideremo» continua lei, sedendosi sul bordo del quadrato vuoto lasciato dalla botola aperta. «Ora torno a prendere delle armi per me, Jena e mio zio. Poi io andrò con Jena e Caden andrà con lui. Va bene?»
Io e Jena siamo pronti a ribattere, ma non appena proviamo a parlare, lei salta all'interno del bunker, zittendoci. Credo che mi farà bene starle lontano per un po', dopotutto. Se Sahara non sbaglia nel dire che Jena mi considera alla stregua di un figlioletto, allora dimostrarle che posso cavarmela da solo dovrebbe essere una buona cosa.
Mi avvicino a lei. «Ascolta» le sussurro. «A me sta bene.»
«Come?»
Sembra quasi offesa.
«Sì. Vai pure con Sahara.»
«Ma... Caden, Alban non è utile quanto lei. Se doveste trovare qualcuno, tu saresti in svantaggio.»
Le prendo le mani fra le mie. Sono calde, forse perché poco fa eravamo ancora nel tepore del bunker, ma le mie sono fredde e iniziano ad assorbire calore dalle sue. Eppure lei non si muove. Tiene gli occhi incollati ai miei, e vedo un nuovo sguardo nascere intorno alle sue pupille. Quasi... meraviglia.
«E la stessa cosa succederebbe se andaste tu o Sahara.» Non parla. Una debole esplosione, lontana, troppo per preoccuparci, troppo per infrangere l'incantesimo creatosi in questa teca dove ci siamo solo io e lei. «So cosa pensi. Sono più forte di te. Forse persino più abile. Non sono più il ragazzino che ha bisogno di essere protetto.»
Sorride. «No, non lo sei più.»
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