Capitolo 8

Il raggio colpisce un'area industriale e provoca una deflagrazione che la devasta. Le fiamme si innalzano come un insieme di cupole intrecciate l'una con l'altra. Nessuno di noi quattro dice niente. Rimaniamo in silenzio di fronte alla barriera di fuoco che continua a rimpicciolirsi e a ingrandirsi alternatamente. La sua potenza investe altri edifici, che esplodono a loro volta e contribuiscono a ingigantire il finimondo. Il fragore è insopportabile.

Non appena l'esplosione smette di propagarsi, il mio cervello torna a funzionare. Perché? Perché la Fratellanza dovrebbe fare una strage ad Amburgo? Soprattutto perché dovrebbe farne una così apertamente senza prima aver dichiarato guerra? Il gigantesco simbolo sulle fiancate dei velivoli che rimangono in cielo è indubbiamente l'Aquila Nera dei militari, quella racchiusa all'interno di un ovale. Questo attacco è voluto, premeditato. La Fratellanza vuole che le UN vedano l'Aquila Nera e capiscano contro chi stanno combattendo.

Io... non capisco. Quattro giorni fa ero ancora a San Diego e sono sicuro che, se fosse stato in atto un piano simile, lo avrei saputo. Non si può preparare un'operazione di questa portata, un'operazione che implichi dodici velivoli di ultima generazione e i numerosi equipaggi che li governano, in poco meno di una settimana. O almeno non lo si può fare senza informare le Divisioni.

«Tu ne sapevi qualcosa?» chiedo a Jena.

Sento che il fucile d'assalto di Nile mi servirà e allora me lo assicuro dietro alla schiena, proprio come aveva fatto anche Sahara nel W32.

«Assolutamente no» mi risponde. «E mi sembra strano... Cioè, insomma, da quanto ce ne siamo andati? Tre giorni? Come hanno fatto a organizzare un'offensiva del genere?»

Assento. «La stessa cosa che ho pensato io.»

«Ascoltatemi» interviene Sahara, zittendoci. «Non mi interessano i vostri dubbi, i vostri "non è possibile". Dobbiamo andarcene. Ora. Se riusciamo a lasciare la città prima che venga invasa dai soldati, magari non verremo coinvolti nello scontro. Sarà un massacro. Lo sapete, no?»

Si gira verso la foresta, pronta a scattare come un'antilope, ma suo zio Alban le afferra un polso e la costringe a rimanere ferma. «Calmiamoci» esordisce. «Sono spaventato quanto voi, eh. Ma dobbiamo pensare bene a cosa fare.»

Sahara strabuzza gli occhi. «Se ci mettiamo a pensare, moriamo.»

«No...»

Ci chiama a raccolta. Prima di unirmi a Sahara e Jena, già radunatesi attorno a lui, do un'occhiata al cadavere di Nile. Chissà se stava dicendo la verità. Ma questo vorrebbe dire che Jena mente, e non è plausibile. Non mi ha mai mentito.

«Conosco abbastanza gli strateghi della Fratellanza da credere che le truppe di terra si disporranno in un cerchio attorno ad Amburgo e in seguito lo restringeranno avvicinandosi. Se ho ragione, scappare potrebbe essere la soluzione peggiore: potremmo consegnarci direttamente nelle loro mani.» Mi guarda. «Confermate?» chiede, spostando lo sguardo anche su Jena.

«Non ha tutti i torti» dico. «In effetti, ricordo che il mio professore di strategia ci ripeteva che, se dobbiamo conquistare un centro urbano dotato di poche armi e di cui controlliamo già le vie aeree, bisogna accerchiarlo con un'unica ondata e rinchiudere gli abitanti in una trappola.»

«Dipende dagli armamenti di Amburgo» termina Jena.

«Siamo in tempo di pace» afferma Sahara. «Cioè, eravamo. Quindi abbiamo qualche cannone meccanico nascosto sotto le piazze, ma non di più. Tra l'altro, il distaccamento dell'esercito più vicino dista settanta chilometri.»

«Allora dobbiamo trovare un'alternativa» dice Alban. «Qualcuno ha un'idea?»

Ammutoliamo. Mio padre ha sempre un'illuminazione. Sarebbe utile averlo qui con noi ora. Di sicuro troverebbe un modo per sopravvivere.

«Aspettate» se ne esce Sahara. «Io ne ho una. Nella Niendorfer Gehege c'è quel vecchio ristorante distrutto che da bambina usavo come rifugio. L'ho attrezzato con un po' di roba e credo che potrebbe fare al caso nostro. Possiamo stare lì finché i soldati non saranno passati. Poi, dato che è vicino alla periferia, ce ne andremo indisturbati.»

«Geniale» commenta Alban. «Siamo proprio una bella squadra.»

«Sì, certo» mi intrometto. «Ma ascoltate. Io non so quanto sia lontana questa Niendorfer Gehege, ma se lo è, come la raggiungiamo prima dell'arrivo delle truppe di terra?»

Jena indica l'intrico di alberi. «Per arrivare qua siamo passati da un'ampia strada provinciale, no? Ora deve essere sommersa dalle macchine. Noi siamo armati... Ci basterà individuarne una, magari la più bella e veloce, e rubarla. Non credo che alla polizia importerà più di tanto di alcuni ladri d'auto, mentre attaccano la città.»

«Allora andiamocene» ripete frenetica Sahara.

Nessuno la contraddice e quindi lei, Jena e Alban iniziano a risalire la foresta. Io li guardo andarsene e, prima di farlo a mia volta, prendo l'asciugamano di Nile e glielo adagio sul volto. «Non so se hai avuto quello che meritavi» dico. «Ma lo scoprirò.»

Parto. Mantengo la direzione che hanno preso gli altri e in poco sbuco su una larga strada oltre cui ci sono dei campi coltivati. Il rumore di clacson causato dal traffico è atroce. Le automobili sono ferme nella corsia per uscire da Amburgo. Ogni dieci secondi avanzano di qualche metro, ma si arrestano subito, e allora i conducenti strombazzano come degli ossessi, costringendomi a tapparmi le orecchie. Jena, Alban e Sahara sono alla mia destra. Hanno spianato le armi contro le macchine soltanto adesso, e infatti il baccano diminuisce considerevolmente.

Li affianco. «Ne avete vista una?»

Jena addita la vettura gialla verso cui si sta dirigendo Sahara. «Ti piace?»

Ammiro i propulsori antigravitazionali a basso getto rifiniti con un metallo argenteo, il profilo longilineo e slanciato. «Con quella ci mettiamo un attimo.»

«Abbiamo avuto fortuna.»

Non appena Jena pronuncia l'ultima parola, Sahara scaraventa a terra un ragazzo magro e pallido. Poi ci fa segno di raggiungerla. Noi corriamo verso di lei. Ci disponiamo senza dare troppa importanza ai posti. Il suo possessore – o meglio, ex possessore, – prima di scappare, ha impostato la Niendorfer Gehege come meta, ma il guidatore automatico non riesce a liberarsi dell'automobile che ci precede e di quella che ci segue, e allora Sahara si improvvisa pilota e fa una manovra strettissima. Quando siamo nell'altra corsia, non riusciamo nemmeno a metterci comodi, che ripartiamo a razzo.

Siamo velocissimi: mentre guardo il paesaggio ridursi a una serie di immagini indistinte, riesco solo a pensare che mi immagino così viaggiare all'interno di un acceleratore di particelle. I campi coltivati capitolano presto di fronte alla metropoli. Gli edifici diventano sempre più frequenti e alla fine entriamo in città. I marciapiedi sono gremiti, le vie intasate. Siamo gli unici a percorrere la strada in questo verso.

Ci fermiamo nei pressi di una curva a gomito. La frenata è improvvisa, drastica, e veniamo proiettati in avanti. Ma ci riprendiamo immediatamente e, usciti dalla macchina, risaliamo un sentiero il cui lato destro è occupato da alberi in gran parte spogli e ricoperti di neve. L'ennesima foresta. Dovevo aspettarmelo. In effetti, però, è un buon posto: se il vecchio rifugio di Sahara è abbastanza imboscato, l'aspetto sinistro degli alberi potrebbe farlo passare inosservato.

Facciamo trecento metri e arriviamo a una struttura in legno abbandonata da molti anni e la cui copertura consiste in una specie di manto erboso ora imbiancato. Le panche a contornare i tavolini, l'insegna spaccata su cui si legge ancora "WAL", si tratta decisamente di un ristorante. Chissà a che sorte sono andati incontro i gestori...

Mentre Sahara usa la pistola laser per aprire una porta, la gelida aria di inizio novembre viene sconquassata da una sequenza di botti. Alziamo gli occhi al cielo quasi in simultanea.

«I sistemi di difesa» dice Alban. «Non pensavo che disponessimo di tanti cannoni.»

I missili sparati devono essere circa una cinquantina. Si dirigono verso la flotta della Fratellanza che, però, resta immobile. Cosa fanno? Cinquanta colpi come quelli la danneggeranno notevolmente. Poi capisco perché i velivoli non si muovono. Quando i missili li sfiorano, un campo di forza li inghiotte, facendoli sparire. Deglutisco. Persino Sahara è rimasta di stucco nel vedere come gran parte dell'armamentario di Amburgo sia scomparsa come se fosse stata risucchiata da un invisibile buco nero.

«Cosa significa?» chiedo.

Non mi sto rivolgendo a Jena, ma probabilmente lei si sente coinvolta proprio come me, e allora mi risponde: «Non lo so. Inizia a diventare sempre più strana questa faccenda.»

«Su, entriamo» dice Sahara, che intanto è riuscita a sbarazzarsi della porta.

La ascoltiamo. Oltrepassiamo due ambienti prima di soffermarci in uno più grande il cui tetto è diviso di in dodici. È tutto distrutto. Escluso un tavolo che resiste stoicamente al centro, il pavimento è allagato dalla polvere e da schegge di vetro e pezzi di legno marci. Sahara ci dice di spostare il tavolo e nel frattempo lei va a recuperare un piede di porco appoggiato a un muro.

«Fatemi spazio» dice.

Poi infila l'arnese in una specie di millimetrica fessura comparsa solo adesso e spinge con tutte le sue forze. Una botola si solleva all'improvviso, facendomi scattare all'indietro. Sahara salta al suo interno. Mi sporgo: nel buio, riesco solo a capire che è una camera sotterranea. Ho sentito che durante l'inverno nucleare chi se lo poteva permettere ordinava la costruzione di bunker dotati di riscaldamento autonomo e riempiti con i cibi più svariati. Deve essere uno di quelli; e quando finalmente Sahara accende la luce, mi accorgo che non mi sbagliavo: vedo un frigorifero con congelatore, due letti a castello, una dispensa che spero sia rifornita, quello che credo sia un bagno e un piccolo televisore di quelli che usavano una centinaia di anni fa. Scendiamo tutti, anche se Alban fatica un po'. No, ci sono quattro letti a castello.

Sto per tirare la cordicella che serve a richiudere la botola, ma Sahara mi interrompe con un'esclamazione. «Non farlo» aggiunge. «Devono arrivare Gill e Denver. Ho mandato un messaggio a Gill e lei mi ha detto che sono quasi qua.»

Assento. Riponiamo le armi su un tavolino su cui c'è ancora un portacenere in ceramica e scegliamo dove dormiremo. Io e Jena prendiamo lo stesso complesso, e io finisco nella postazione inferiore.

Mentre aspettiamo Gill e Denver, decidiamo di andare a fare una doccia. Inizialmente va Jena, che prima di entrare in bagno, mi dice per scherzo di non abbassare la guardia. Gli interrogativi di queste ultime tre giornate ritornano a martellarmi con violenza la mente, e allora mi alzo e mi metto a gironzolare per il bunker. Alban è seduto al tavolino e cerca una cosa su internet con il suo braccialetto cellulare. Non so se attivare la rete possa farci localizzare, ma Sahara non se ne preoccupa. E poi... ancora non è sopraggiunto l'esercito, anche se deve mancare poco.

«Sai, Caden» dice Sahara ridacchiando. È stesa sul suo letto a martoriarsi un'unghia. «Così non te la darà mai.»

Mi fermo. «Come?»

«Sì. Jena. Se continui a comportarti così, non te la darà mai.»

Mi avvicino a lei. «E cosa te lo dice?»

Sogghigna, il rumore della doccia in funzione. «Potrò pure essere burbera come un uomo, ma sono una donna anch'io. So cosa ci piace e cosa non ci piace.»

«E...»

«E penso che, se farai sempre il bamboccio bisognoso di protezione, otterrai solo una madre aggiuntiva. Non una tizia con cui fartela.»

Non capisco. «Cosa intendi?»

Sospira. «Vedi, ho notato che sei una persona molto ansiosa... o meglio, mai certa di qualcosa. Hai sempre bisogno di qualcuno che ti rassicuri, diciamo. Che ti supporti. Non sei autonomo. Lei, invece, lo è, ed essendo una brava ragazza, sente il dovere di coprirti le spalle.» Si interrompe. Scocca un'occhiata verso un impegnatissimo Alban e scuote la testa con rassegnazione. «Forse quando eravate piccoli lei era il braccio della situazione e tu dipendevi da lei. Ma... porca puttana, sei un uomo ora! Non puoi pensare che, continuando a usarla per proteggerti, potrai conquistarla. Anche se non sembra volerlo, credo che a lei piacerebbe avere qualcuno da cui dipendere. È vero: è indipendente. Ma anche fragile. Conosco il tipo, fidati.»

Le sue parole mi picchiano dure contro il corpo. Impiego poco a seguire la sua logica. Ho trascorso l'infanzia in un lettino d'ospedale ed è ovvio che Jena, l'unica persona che si sia degnata di considerarmi durante quel periodo, fosse il mio sostegno. Sono cresciuto nella sua ombra, e allo stesso modo ho frequentato l'Istituto. Ma immagino che ora sia il momento di dimenticarsi di quegli attimi e di diventare un uomo, come dice Sahara. Mi ha sbalordito. Non pensavo che fosse capace di certi ragionamenti.

«Dovrei ringraziarti... penso.»

«Non mi interessa» risponde lei. «Mi devi solo dimostrare che non ho perso gli scorsi cinque minuti a dirti una cosa che neanche farai.»

Sto per ribattere, ma Alban ci dice di stare zitti. Lo schermo olografico proiettato dal suo braccialetto cellulare mostra una donna bionda dagli occhi azzurri che pare uscita da una forgia tedesca. Si trova su un grattacielo. Il vento le scompiglia i capelli, che rincorre senza tregua con le mani. Il cielo si è ingrigito, il sole è stato eclissato dalle nuvole.

«È il sito del notiziario» ci informa.

«Vorrei ringraziarvi tutti» dice la giornalista. La sua voce. È familiare. «Vorrei ringraziarvi tutti per questi bellissimi anni in cui ho condotto questo programma. Probabilmente oggi o domani morirò, ma lo farò rendendovi partecipi degli ultimi aggiornamenti sul caso.» Una lacrima le riga una guancia. «Scusatemi. Allora... ricapitoliamo. Esattamente venticinque minuti fa, alle dieci e trentanove, una flotta della Fratellanza è comparsa ad Amburgo e ha raso al suolo un'intera zona deputata alla ricerca scientifica e tecnologica. Non si è avuto il tempo di contare le vittime, ma una stima approssimativa oscilla tra le diecimila e le quindicimila. Dato che la Fratellanza non ha ancora depositato alcuna dichiarazione di guerra, le autorità si sono trovate costrette a dichiarare lo stato d'allerta. Amburgo è ora nelle mani della polizia, che si sta preparando a respingere nuove, eventuali ondate. L'esercito...»

Si ferma. Sussurra qualcosa a chiunque la stia riprendendo e spalanca le palpebre.

«Cos'è?» chiede Jena.

Già vestita, si sta sfregando i capelli in mezzo a un asciugamano rosa.

«Un servizio speciale del notiziario.» Torno a guardare la giornalista: annuisce, le sopracciglia aggrottate. «Stanno parlando dell'attacco.»

«Ci hanno appena riferito che la Fratellanza ha finalmente dichiarato guerra! Ma questo...»

Un improvviso boato calamita la nostra attenzione. Alban spegne il braccialetto cellulare. Spari. Ma nessuna rozza risata. Forse i soldati sono ancora troppo lontani perché li senta ridere, però ho un'insolita sensazione che mi smuove le budella. Le percepisco agitarsi, gorgogliare, e più che il mio stomaco affamato, sembra un segnale, come se il mio organismo avesse avvertito qualcosa che le mie orecchie hanno ignorato.

Qualcuno si cala all'interno del bunker e Alban, il più vicino tra di noi al tavolino su cui abbiamo lasciato le armi, si riappropria della sua pistola elettromagnetica d'ordinanza e la punta contro l'ospite. Ma quando capiamo chi è, non siamo più allarmati: è Denver, si è aggrappato ai margini della botola per poter entrare. Gill deve essere dietro di lui. Dopotutto, lui è ferito. Ha la priorità. Vado ad aiutarlo. Me lo carico sulle spalle e lo porto su uno dei letti. Gill salta giù in un lampo. Atterra come un felino, i fianchi sotto le ginocchia, un palmo ad ammortizzare la caduta. Per un attimo la sua grazia mi stordisce.

«Non crederete mai a quello che c'è di fuori» dice, e chiude la botola. «Quelli non sono... come posso dire...»

«Non sono cosa?» ripete Jena.

«Tesoro, vorrei dirtelo, ma non saprei definirli.» Mi guarda dritto negli occhi e dice: «So solo che non sono umani.»

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