Capitolo 7
La recinzione è elettrificata e sorvegliata da agenti di polizia sparsi all'esterno del perimetro. Ci sono due entrate: quella verso cui ci dirigeremo e un'altra meno usata che si trova nella posizione diametralmente opposta. Nile è quasi sicuro che la ragione di tanto disturbo sia nel tendone a forma di padiglione che c'è sulla sommità della collina. Finito di raccontarci quello che ha scoperto, ci dà due completi neri coi bottoni rossi. Uniformi da poliziotto.
«Queste servono a diversificare un agente di grado più alto da uno di grado più basso. Noi siamo Ispettori. Proveniamo da Riga. Siamo qui per esaminare il caso e farne un resoconto completo.» Congiunge le mani a mo' conca e ci soffia sopra. «Parlate un inglese stretto e mangiucchiato e nessuno vi chiederà nulla.»
Me la metto. Sia la mia che quella di Jena ci calzano perfettamente. Ovvio. Nile è di certo un professionista, e se aveva già pensato a dei distintivi, deve essersi informato anche sulle nostre taglie. Eppure mi trasmette una strana sensazione. Nel suo comportamento c'è qualcosa che non afferro. È come... se mi stesse dicendo la verità e nel contempo stesse mentendo.
Quando mi riprendo dall'attimo di smarrimento, Nile indossa un'uniforme del nostro stesso tipo. Io e Jena ricarichiamo le armi e ci avviamo verso la recinzione. Le luci che illuminano l'area protetta sbucano in lontananza non appena svoltiamo dietro a delle case a schiera, e guardando il viavai di persone all'interno, tremo all'idea di cosa possa motivare un tale trambusto. Deglutisco. Mi accorgo di avere rallentato, e Jena ha fatto la stessa cosa.
Mentre Nile continua a camminare in capo al gruppo, lei mi si avvicina e mi dice: «Ho un brutto presentimento.»
«Non sei l'unica.»
Poi spalanca gli occhi. «Aspetta» bisbiglia. «Ma Alban e Sahara sono nella polizia, no?»
«E da quando?»
«Dovrebbero avermelo detto quando tu sei andato via. Potrebbero aiutarci...»
Potrebbero veramente aiutarci. Sarebbe un segno del destino. Se il suo piano dovesse avere una minuscola falla che è passata inosservata, potremmo contare sul soccorso di due poliziotti. Anzi, di un Ispettore. Sul W32, ora che ci penso, Alban era vestito come noi. Avevo notato i suoi indumenti quando, dopo la turbolenza, aveva trascorso un intero minuto a stirare le pieghe causate dal movimento brusco. Nera e coi bottoni rossi. Proprio come la nostra. Ma... a che età si diventa Ispettori? Non sono mai stato un amante dei film polizieschi e quindi non sono molto esperto per quello che riguarda la gerarchia dei dipartimenti di polizia, anche se so che peso e nome delle cariche nella Fratellanza differiscono da quelle delle UN; eppure credo che per raggiungere il nostro stesso traguardo ci vogliano molti anni. E noi non ne dimostriamo abbastanza.
«Sicuro che nessuno ci chiederà nulla?» domando a Nile.
Si ferma. Per un attimo mi dà le spalle, le sue mostruosamente larghe spalle. Ma solo per un attimo, perché poi si gira e mi guarda di sbieco. «Cosa intendi?»
«Primo: potrebbero già essere arrivati degli Ispettori da Riga. Secondo: noi siamo troppo giovani per ricoprire questa carica. Non ci crederebbero neppure se riproducessimo alla perfezione il dialetto della città.»
Ridacchia. «Sbagli» ribatte. «La recente situazione delle regioni baltiche volge a nostro favore. A Riga hanno dato molti posti importanti a giovani promettenti, ma al contempo li tengono fuori dall'azione, preferendo che imparino a svolgere il proprio lavoro in coppia con un collega più vecchio mentre rimangono all'interno di confini... circoscritti. Magari hai ragione, potrebbe già essere arrivato qualcuno da Riga. Ma è molto improbabile, e lo sarà ancora di più se diciamo che ci hanno inviati i servizi speciali. Hai capito ora?»
Né io né Jena controbattiamo. Non ce n'è bisogno. Il suo ragionamento fila che è uno splendore. Allora riprendiamo a camminare.
Scorgo alcuni che ci guardano di traverso da punti più o meno oscuri come le presenze che infestano i resti di un castello. Ma li ignoro. Raggiungiamo la recinzione e lasciamo che una macchina simile a quella di Nile esca. Poi degli uomini ci sottopongono a un'ispezione. Nile non ci scomoda, risponde a ogni domanda che ci porgono. Ci lascia dire solo i nostri nomi. Loro si segnano ogni particolare su una sorta di braccialetto cellulare, un braccialetto di un modello diverso da quelli che si possono comprare in ogni negozio d'elettronica: il loro sembra quasi una parte aggiuntiva del corpo, come se fosse incollato o si fosse fuso con la cute.
Entriamo. Una via maestra che coincide con la strada asfaltata suddivide il campo in due parti. È così vasto che non riesco a vederne la fine ed è stato persino liberato dalla neve. Non c'è neppure un po' di ghiaccio.
«E adesso?» gli mormora Jena.
Il vociare della gente complica ogni tipo di comunicazione, e infatti la sento a malapena mentre glielo dice.
«Adesso fate fare a me. Voi guardate e ascoltate. Dobbiamo sbrigarci, fra un'oretta dovrebbero spostare quello che custodiscono qui dentro.»
Annuiamo e lo seguiamo. Lui entra in un tendone collegato a un tunnel che sfocia in un ambiente a padiglione sulla cima della collina. All'interno, un uomo in una tuta protettiva ci ferma, ci scannerizza e, quando l'aggeggio che tiene in mano produce un bip, richiede i nostri distintivi.
«Siete molto giovani per essere degli Ispettori» commenta, la voce modificata dal casco. «Dove lavorate?»
«A Riga» dice Nile. «Siamo venuti qua per controllare gli effetti dell'incidente. Dobbiamo redigere un rapporto da consegnare ai servizi speciali. Ci puoi aiutare?»
Il tizio sogghigna. Preme un minuscolo pulsante sul suo casco e ordina a qualcuno di portare tre tute isolanti – così si chiamano. Quando arrivano, ce le mettiamo di fretta. Il mio fisico è l'unico adatto: Jena è troppo piccola perché le vada bene, mentre il problema di Nile è l'esatto contrario. Mi scappa una risata nel vederli muoversi nel tentativo di trovare un momento di comodità.
«Sì, scusateci» dice quello che ce le ha portate. «Le tute per gli ospiti sono di misure predefinite per uomo e donna, non siamo dotati di quelle elastiche che hanno in Cina.»
Nile è troppo impegnato a imprecare sottovoce, e quindi Jena lo sostituisce e ringrazia l'uomo, che se ne va solo dopo essere stato dispensato dall'altro. Poi entriamo. Il tipo che ci ha ricevuti blocca uno che sta tornando dal tunnel e gli dice di presidiare l'entrata del tendone al suo posto. Dunque ci incoraggia a seguirlo.
«Come mai tutta questa protezione?» chiede Nile.
«Oh, adesso lo vedrà, signor Rosenberg.»
Cosa può incuriosirli tanto? I rottami non dovrebbero avere un valore scientifico abbastanza alto da attirare una folla simile di ricercatori. Infatti, quando la salita inizia a farsi più ripida, capisco che all'interno non ci sono i resti del W32. Dal basso vedo la luminosità aumentare e sbattere una fascia di luce sul telo della galleria. Brilla a intermittenza come se scaturisse da un cuore che pulsa, come se degli imbianchini ci avessero passato una vernice bianca fluorescente. I dilemmi che girano attorno a Nile, a Persia e ai giubbotti con l'Aquila Nera svaniscono di fronte a quei raggi che potrebbero essere radioattivi. Secondo dopo secondo, il vocio proveniente da lì dentro si intensifica e prendo a sudare freddo.
Prima di entrare, un uomo armato si piazza davanti a noi ed esige i nostri documenti. Li tiriamo fuori e li diamo a Nile, che a sua volta glieli passa. Lui controlla, ma proprio mentre ce li sta per restituire, il cupo suono altalenante di una sirena mi fa sussultare. Io, Jena e Nile ci guardiamo a vicenda.
«Cosa succede?» domanda Nile, immagino senza un preciso interlocutore.
«L'allarme!» risponde quello armato. «Qualcuno si è infiltrato nella base!»
Ci hanno scoperti. La confusione sale velocemente e vedo molti fuggire. Ci travolgono come un fiume durante un'alluvione e in poco ho perso ogni punto di riferimento. In mezzo a quell'insieme scomposto di tute isolanti, Jena e Nile non sono più se stessi: sono parte della ressa come un liquido diluito in un altro. Non li vedo. E quando il flusso scema, mi accorgo di essere rimasto da solo. Ma certo: devono essersi mischiati fra quelli che scappavano. Sono stato uno stupido.
Poi sento uno sparo. Il suo rumore è stato attenuato dal casco, ma sono certo che fosse uno sparo. Porto una mano al calcio della pistola e comprendo che non potrò utilizzarla finché avrò questa robaccia addosso. Ma togliermela è sicuro? Allora lascio che le dita indugino su quel punto e avanzo.
Qualcuno sussurra in una lingua che non conosco. Non in tedesco, perché lo riconoscerei, ma forse in polacco o una cosa del genere. È una litania. Quasi... una preghiera. In effetti, si ripete all'infinito come in un loop e trasuda sofferenza e pietà. E intanto la luce continua ad accrescere, è sempre più abbagliante. Finalmente salgo tutta la collina e mi ritrovo davanti a una porta in vetro. Un mare sfolgorante che dissolve le ombre mi impedisce di distinguere cosa c'è al di là. Prima era più debole, e ora invece sembra capace di accecare i ciechi stessi.
È come guardare troppo a lungo il sole, e infatti chiudo gli occhi, imbriglio il mio coraggio e irrompo. Mi basta uno sguardo per avere una visuale decentemente chiara di cosa succede: uno studioso inginocchiato vicino a una fiala rotta, un altro che lo minaccia con una pistola e un oggetto circolare, un globo confinato in una teca cilindrica, che rotea all'impazzata, irradiando l'intero ambiente. I miei occhi cominciano subito a bruciare, eppure riesco a tenerli aperti abbastanza da identificare il viso di quello che minaccia: è una delle mie guardie del corpo, quella che Alban aveva ipotizzato si fosse salvata. Cosa ci fa qui?
Lo sento urlarmi qualcosa. Ma il rivestimento del suo casco smorza le sue parole e le fa assomigliare a farneticamenti, come se in realtà stesse muovendo le labbra senza una logica. Estese macchie livide appaiono non appena serro le palpebre, e riesco quasi a percepire l'energia irraggiata dal globo bruciare il tessuto che mi isola e la pelle bollire. Ritorno a guardare. Inspiegabilmente la luce non ha più effetto su di me. Un'improvvisa voglia di toccare la sfera rimbomba al mio interno, e allora faccio un passo in avanti, e un altro ancora, e senza volerlo mi sono frapposto tra i due uomini. Sono inarrestabile: procedo barcollando, come se le mie gambe stessero per cedere, ma non mi fermo, sono come uno tsunami. Quando mi trovo a un metro da essa, si trasforma in una palla oscura, e calano delle tenebre così dense da piegarmi.
Ogni suono scompare. La sirena, i due tizi che mi hanno osservato mentre mi avvicinavo. Quiete. Sono leggero, mi pare di librarmi in volo su una piuma. Allungo una mano.
*****
Sciabordio di onde contro la riva. Mi sveglio. Il sole mi alita addosso un tenue calore, una leggera brezza arriva dalla mia sinistra, stormire di fronde. Sollevo il busto. Sono una sponda dell'Elba, su un piccolo spiazzo sabbioso che precede una foresta. Oltre i pochi residui di neve sulla sabbia grigia, un ampio asciugamano da uomo, una canna da pesca con l'amo che sfiora l'acqua e uno zaino. Più in là, seminascosto da un cespuglio, un fucile d'assalto con fascia.
Dove sono? Provo a pensare a l'ultima cosa che ricordo... Il globo. La sensazione della sua luce incandescente sulla pelle sembra perdurare come un'eterna condanna. Mi provoca un lieve prurito alle braccia. Cos'è successo dopo che l'ho toccato? Che fine hanno fatto gli uomini che erano nel tendone con me?
Mi alzo. Sono vestito come quando sono uscito per andare a fare la spesa. Stessa felpa, stessi pantaloni, stesse scarpe. Quindi chiunque mi abbia portato qui deve avermi anche cambiato. Allento la cintura. Almeno le mutande non sono diverse. Ma tutto ciò mi allarma. Inquadro nuovamente il fucile d'assalto e mi dirigo verso di esso sorpassando l'asciugamano.
«Dovresti prima ascoltarmi, non credi?» mi chiede una voce familiare dal labirinto di alberi.
Mi giro: appoggiato con una spalla a un tronco, Nile mi guarda. È stato lui? Ma... come? Se ne era andato assieme a Jena quando è scattato l'allarme. «Come mai siamo qui?» sbotto. Lui non si muove, statuario. «Mi rispondi?»
«Scusami.»
Non aggiunge altro. Si reca dalla canna, la prende e la spezza, gettando un pezzo nel fiume. Seguo il suo corso per qualche momento, incredulo. Cosa starebbe a significare?
«Non mi fido di te, Nile» sputo. Mi chino per poter raccogliere più agevolmente l'arma. Nile non reagisce, è imperturbabile, come se non gli interessasse, come se nulla potesse scalfire la sua corazza. «Dimmi perché non dovrei prendere questo fucile e ucciderti. Sei troppo lontano da me per avere una possibilità di fermarmi, ma sei anche troppo vicino per fuggire. Cos'hai intenzione di fare?»
Le mie mani fremono a pochi centimetri dall'oggetto che potrebbe cancellare gran parte dei miei problemi. Nile si siede sull'asciugamano e ammira l'azzurro cielo assolato. Deve essere mattina, direi circa le dieci.
«Io sospettavo che ci fosse qualcosa... del genere» ammette, e intanto apre lo zaino e recupera una bottiglietta riempita da una bibita gassata. Ingolla qualche sorso. «Pensavo che saresti stato in grado di contenerla, ecco.»
«Di fare cosa?» replico.
Di cosa sta parlando questo imbecille?
«Di contenerla. La sfera, intendo.»
Vacillo. «Tu sapevi che cosa c'era lì?»
Annuisce. «Cioè, lo sospettavo.»
Non resisto. Recupero il fucile e glielo spiano contro, mantenendomi a una distanza tale da poter sparare prima che lui agisca in una qualsiasi maniera. «E come facevi a saperlo?»
Si alza. Io arretro di un passo, forse due, e miro al cranio, tenendomi pronto nel caso la situazione lo richieda. Mi lancia la bottiglietta, che io scanso con un rapido gesto della mano. «Parla!» esclamo. «Se non ti decidi a parlare, non mi lasci altra scelta.»
«Tu e io sappiamo che hai troppa paura di uccidere qualcuno per spararmi» mi dice Nile distendendo i muscoli. «Quindi stai zitto e ascolta.»
Digrigno i denti. Caden, devi superare questo tuo timore. Hai già ucciso... Nel pensare a quell'episodio, il volto di Oliver Lowell si ripresenta nella sua maschera di gelo e immobilità. Il suo sguardo vitreo mi devasterà ogni volta che permetterò alla mia mente di rivangarlo. Lo sento su di me come il graffio di un grande felino. Erano solo due occhi sgranati e ornati di nervi, ma ora sono due zampe con artigli, due strisce di acido corrosivo, due lame affilate. Qualsiasi cosa che possa ferirmi si immedesima in quei due occhi così vivi ma nel contempo così morti.
Quando mi riprendo, noto che Nile è nella stessa posizione di prima. Strano. Avrei scommesso che si sarebbe approfittato del mio momento di debolezza, eppure eccolo lì, in piedi, che scruta le nuvole come faceva poco fa.
«Vedi, Caden» ricomincia. «C'è qualcosa che non ti ho detto.» Intercorre il silenzio. Cinguettio di uccelli. Grida di uomini su una barca. Non credo ci vedano, sennò avrebbero già avvertito le autorità. «Avrei dovuto nasconderlo ancora a lungo, ma ho deciso di smettere di mentirti. Io... non capisco perché tu debba ricevere questo trattamento. Cosa hai fatto per dover affrontare tutto ciò da solo?»
«Da solo?» ripeto. «Jena...»
«Non considerare Jena!» urla, girandosi verso di me. La sua espressione è furia allo stato puro. «Jena non è chi tu pensi che sia.»
Ridacchio. «Ti sbagli, ok?» gli faccio. «Conosco Jena da quando ho sei anni. Andavamo nella stessa scuola... Io e quella ragazza non abbiamo segreti. Cioè, almeno lei...»
Nile scuote la testa. «Secondo te perché hanno scelto lei per accompagnarti nella tua missione?» mi chiede. «Lei non è il tipico agente di Divisione. Lei è carina, gentile, simpatica, ma soprattutto una brava attrice. Ed è tua amica, l'unica di cui ti fidi veramente. L'unica a cui affideresti la tua vita.»
Le sue parole stanno iniziando a diventare reali. Scivolano via dalla sua bocca e si trasformano in proiezioni fumose che solo io posso vedere. Jena mi ha seguito. Jena ha accusato il colpo, ma ora sta bene, non sente più la mancanza di casa. Come se questo fosse il suo nuovo castello... o come se sapesse di doverlo lasciare a breve. No... Scrollo il capo. Il fucile casca sull'erba e uno sparo risuona nella fredda aria del mattino. Mi accorgo appena che ha scheggiato il fusto di un albero, perché in questo momento è l'ultima cosa che mi importa. Non posso credere di aver dubitato di Jena anche per un solo secondo. E poi lei come sarebbe implicata?
«Puoi fidarti solo di una persona: Sahara» afferma.
«Aspetta» lo interrompo. «Tu come conosci Sahara? Non eri sul velivolo.»
Nile sta per fare qualcosa, ma si trattiene, argina la rabbia. «Invece c'ero, Caden.»
«Come c'eri? Perciò tu sapevi già della presenza del W32?»
Annuisce. «Ci sono salito poco prima che lo faceste tu e Jena.»
D'un tratto le sue pupille scattano fulminee verso sinistra. È terrorizzato. Non l'avevo mai visto così finora. Vedere tanto sgomento sul suo viso impaurisce anche me.
«Non abbiamo più molto tempo» inizia. «Io voglio confessarti tutto.» Non riesco neppure a realizzare quello che ha detto, che lui prosegue. «Allora, questo è un gigantesco sotterfugio congegnato per farti dimostrare qualcosa. Quella di ieri era la dimostrazione, e credo che, non avendola superata, tu ora sia inutile. Ti uccideranno, ok? Nei prossimi giorni, o mesi, o anni, una notte qualcuno potrebbe infiltrarsi nella tua abitazione e freddarti. Potrebbe farlo persino Jena.»
«Come?» dico.
Annuisce sbrigativo. «Esatto. E il mandante della missione, quello che ha progettato tutto, è...»
Non riesce a finire, perché uno schizzo di sangue fuoriesce dal suo cranio, bagnando la sabbia, e lui stramazza come un albero segato. La scompostezza, le labbra ancora socchiuse, Nile è morto. Qualcuno lo ha ucciso poco prima di svelarmi la verità, ammesso che lo fosse. Mi soffermo a guardare il suo sguardo, che mi ricorda proprio quello di Oliver Lowell, e poi rinvengo dallo shock e raccolgo il fucile d'assalto. Lo punto ovunque, senza un chiaro bersaglio, sperando di trovare l'omicida di Nile prima che uccida anche me.
Ma un ronzio familiare mi sorprende, facendomi girare verso il cielo. Una flotta della Fratellanza si staglia contro le nuvole e scherma parte della luce solare. Sono tutti velivoli da combattimento di ultima generazione, dotati di potenti propulsori antigravitazionali che possono sostenere tonnellate, muniti di armamenti all'avanguardia. Se mi concentro, riesco tuttora a udire il boato dell'attacco lanciato contro la cittadina dove ho compiuto la mia prima, e probabilmente ultima, missione.
Il rumore dei propulsori aumenta e in un minuto diventa un basso e imperterrito fragore. Ne conto dodici. Si sono disposti in corrispondenza della periferia, accerchiando l'intera Amburgo.
«Caden!» strilla Jena.
Mi volto. Mi corre incontro e mi salta addosso, abbracciandomi. Non ricambio la stretta. Non è il momento di protrarsi in effusioni. Allora lei smette e si allontana di qualche passo, gli occhi rivolti al cielo.
«Cosa succede?» chiede Sahara.
Ci sono anche lei e Alban, lei attrezzata con una pistola laser e lui con la sua semplice arma d'ordinanza.
«Guarda tu stessa» le rispondo.
E proprio in quell'attimo, un raggio giallastro nasce da un cannone meccanico e si abbatte su Amburgo.
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