Capitolo 5

Mi pietrifico. Vedere Nile e il suo sorrisetto più finto delle tette di una cinquantenne dell'alta società è un trauma. Deglutisco, ma il mio gozzo è tornato a essere lo stesso pesante frammento di roccia che mi ha graffiato la gola quando ho conosciuto Sahara. Non capisco come abbia fatto a trovarmi. Non capisco come possa essere già ad Amburgo.

«Come puoi essere qui?»

«Ascoltami, Caden» comincia, ma la melodiosa voce di Persia lo interrompe.

Mi sta chiamando. O meglio, sta chiamando Oan. Mi giro. Lei sorride distratta, non mi sorprenderei se le sue pupille diventassero due cuoricini. Immagino che sia colpa di Nile. Comprensibile. Può risultare abbastanza attraente, e dato che lei è alta e formosa, il suo tipo ideale dovrebbe corrispondere circa a lui: imponente, muscoloso e sguardo imperscrutabile. Che se lo tenga. Se sapesse quello che so io su di lui, non ne sarebbe così ammaliata.

«Non mi presenti il tuo amico, Oan?»

«Primo: lui non è mio amico» puntualizzo. «Secondo: lui è Nile. Nile, lei è Persia. Ora posso andare?»

Lei annuisce senza neppure considerarmi. Non so se Nile abbia intenzione di rimanere al bar finché io non tornerò dal mio impegno, ma adesso non riesco a gestire tutto, e allora lo affido a Persia. Mentre mi dirigo verso la porta dietro a cui era sparita, mi rendo conto che potrei utilizzare i prossimi minuti a mio vantaggio. Nile potrebbe non volersi accollare l'attesa e andarsene. Magari lo farà non appena avrò varcato quella porta. Troncherà scortesemente una frase di Persia e si avvierà verso... verso dovunque voglia andare, non è un mio problema. Ma probabilmente non lo farà. Rimarrà marmoreo ad aspettarmi nei pressi dell'entrata e, quando avrò finito, dovrò seguirlo in un vicolo oscuro. Solo pensarlo mi fa rabbrividire. Perciò devo approfittarmi della conversazione che avrò con il mio futuro capo e pianificare qualcosa per liberarmi di lui.

Quando entro, odoro immediatamente l'aria dell'ufficio. Attestati appesi alle pareti, scrivania ingombra di fogli, foto di famiglia ovunque. Karl è un ometto sulla quarantina, stempiato, di carnagione olivastra. Si vede che non indossava vestiti eleganti da un po': la sua camicia grigia a righe bianca è spiegazzata e non sa fare il nodo alla cravatta. Ha degli occhiali tondi che gli ingrandiscono gli occhi e li fanno assomigliare a quelli di un inquisitore.

«Tu devi essere Hildebrand.» Faccio per rispondere, ma mi precede: «Be', immagino di sì. La descrizione che mi ha fatto Persia è discretamente fedele alla realtà.» Estrae una sigaretta elettronica da un cassetto. La accende e inizia a fumare. «Mi dica, Hildebrand, mi piacerebbe sapere come mai le interessa diventare il gestore di un bar. Insomma, confesso che è un impiego gratificante: orari flessibili, posto di lavoro a tua discrezione se certificato, un vice che si fa in quattro in tua vece. Tuttavia, quando ero giovane, sognavo di fare lo scrittore. Oh, sì. Ho scritto migliaia e migliaia di parole, ma alla fine, dopo che la casa editrice più famosa di Amburgo ha rifiutato il mio libro, mi sono arreso e mi sono concentrato su un futuro più accessibile per qualcuno uscito da Economia e Marketing.» Si ferma. «Dunque... come mai a vent'anni ha pensato di fare questa esperienza?»

Ammetto di uscirne turbato quando realizzo che il nostro non sarà un semplice dialogo, ma un colloquio in piena regola. Mi siedo in silenzio su una delle due sedie davanti alla scrivania e accavallo le gambe sperando di trasmettergli un'aria pregna di determinazione. «Be', signor...»

«Scholz.»

«Scholz.» Provo a immaginare cosa potrebbe piacergli sentirsi dire. «Come ha detto lei, nel gestire un bar ci sono molti più vantaggi di quanti possa vederne... un qualsiasi ventenne illuso dalle promesse di un futuro roseo dove i propri sogni si realizzano incondizionatamente. Finché sarò vice dovrò faticare, è vero; ma quando la sostituirò, toccherà a me riposarmi e allora potrò dire di aver preso la decisione giusta.»

Karl Scholz mi dà l'impressione di essere realista, una di quelle persone che preferiscono ascoltare una verità poco piacevole a una rassicurante bugia. Avrei potuto dirgli che da bambino sognavo di gestire un bar e che ho modellato la mia infanzia e la mia adolescenza in funzione di quel desiderio, ma... gli dovrei mentire, e credo se ne accorgerebbe facilmente. Capisco di aver preso la decisione giusta quando nella sua espressione vedo il barlume di una nascente stima nei miei confronti.

«Mi piace chi sa cosa vuole» afferma. Estrae un proiettore olografico da un altro cassetto, lo collega alla corrente e lo accende. È un computer. Clicca su una cartella e in seguito su un'altra fra le tante che contiene. Si apre un documento. Leggo velocemente. Si tratta di un curriculum. Del mio curriculum. Evidentemente devono averglielo mandato Denver, Camden e Ryker una volta rifiniti i dettagli. Da una boccata. «Come può ben vedere» dice, indicando le informazioni in cima, «lei sa ben cinque lingue, proviene da uno scientifico e si è laureato in Economia con ben due anni di anticipo sui suoi compagni di corso del primo anno. Inoltre, però, possiede una padronanza assoluta di molte tecniche di combattimento e una vasta conoscenza riguardo armi e strategia militare, nonostante non siano caratteristiche attinenti al compito che dovrà svolgere. È... un insolito bagaglio culturale. Escludendo per un attimo la coerenza, mi viene spontaneo chiedermi come abbia fatto a conciliare il tempo per studiare abbastanza da laurearsi così presto, per approfondire argomenti come l'evoluzione dell'offensiva militare e per esercitarsi nel pugilato, nella capoeira, nel kung fu, nel taekwondo, nel karate, nel krav maga, eccetera. E in tutto ciò, lei è riuscito persino a imparare quattro lingue estranee alla sua lingua madre. Mi vuole spiegare il suo segreto?»

Mi sento un topo di fogna, ma non riesco a reprimere il pensiero che Ryker e Camden fossero due incompetenti. Alban mi ha avvertito del fatto che era una squadra reclutata nell'arco di un'ora e preparata in poco più ma, essendo stati richiesti da mio padre, credevo che fossero più capaci di quello che poi si sono rivelati essere.

Intanto Karl Scholz mi guarda di traverso, in un modo tutto suo. Credo sia il suo sguardo da "vorrei che facessi o dicessi qualcosa, e nel frattempo ti metto a disagio". Be', ci sta riuscendo. Deve aver sviluppato questo metodo durante gli anni e averlo affinato a tal punto da saper cogliere la parte più sensibile di ciascuno.

«Allora?» mi incalza.

Sorrido. Ma sorridere non servirà a salvarmi da questa situazione penosa. «Signor Scholz...» Un intervallo. Confida nelle tue doti oratorie, Caden. Puoi farcela. Non è come insultare o zittire qualcuno, ma la modalità è circa la stessa. «Deve considerare l'ambiente familiare in cui sono cresciuto. Mia madre Emilia e mio padre Lech», spero di avere ricordato i nomi, «mi hanno instillato fin da piccolo la convinzione che, se si è sufficientemente motivati, se si è disposti a fracassare macigni con il cranio pur di tagliare un traguardo, nulla è al di fuori della propria portata. Probabilmente la loro era una cosa come: "Non preoccuparti: anche se dovessi fallire, puoi rialzarti e ricominciare daccapo". Ma, vede, io l'ho presa alla lettera e mi sono impegnato per fare quello che un normale essere umano non riuscirebbe a fare. E a quanto pare, ho avuto successo. Ho imparato quello che volevo imparare, mi sono posto degli obiettivi e li ho soddisfatti quando tutti pensavano che avrei mollato dopo neppure un anno. Ed eccomi qui, pronto a incominciare una nuova avventura, a faticare per l'ultima volta e a conquistare il meritato riposo. Ho inserito tutto ciò per dimostrarle dove posso arrivare con la sola forza di volontà.»

Nella stanza cala il silenzio. Nessuno dei due parla. Karl Scholz, però, ora tiene il collo dritto e l'accenno di un sorriso spunta sul burbero viso. Mentre il brusio della gente nel bar e il ticchettare dell'orologio olografico sul muro si acutizzano, mi ricordo che Nile mi aspetta e io non ho ancora progettato nulla per aggirarlo.

«Volevo metterla alla prova. Ma dopo questa... "arringa", ho capito che lei, a dispetto che tutto quello che ha scritto sia vero o falso, è la persona adatta a questo incarico. Quindi confermo la sua assunzione come mio vice. Può andare.»

Ah, è già finito? Mi alzo, gli stringo la mano e mi dirigo verso l'uscita. È stato... semplice. Più di quanto pensassi. Ma sbarazzarsi di Nile non sarà altrettanto semplice. In questi dieci minuti non ho fatto altro che ragionare sulle risposte da dare a Karl, e ora mi ritrovo senza un modo per evitarlo. Pensa, Caden. Come ingannarlo? Realizzo di non essere ispirato. Sento le ante strisciare con il loro sibilo metallico e chiudo gli occhi. Quando sono fuori dell'ufficio di Karl, il mio cervello si rifiuta di aprirli. Il mio cuore pulsa. Ho bisogno di tempo. Adesso non posso sostenere una discussione con lui. Devo valutare le circostanze, convincermi che possa parlare con lui senza temere per la mia vita. Do un'occhiata.

Mi immobilizzo. Sia Persia che Nile sono scomparsi. Scandaglio l'intero bar: non li vedo da nessuna parte. È l'opportunità che aspettavo. Avanzo tra i presenti con l'intento di defilarmi. Probabilmente non servirà a dissuadere Nile dal tornare al New Age Lounge, ma per ora potrò considerarmi salvo.

Uno strano fischio penetra nella mia testa e mi provoca una tremenda emicrania. Le mie mani scattano dirette verso le tempie, le palpebre socchiuse, il grigiore mattutino che sorpassa appena le ciglia. Appoggio la schiena al primo muro che trovo. Provo a scacciare il dolore, ma non se ne va. È come se un batterista stesse suonando le mie meningi.

Poi, però, succede qualcosa. La voce di Persia mi raggiunge e l'emicrania evapora. Riapro gli occhi. Lei mi fissa disorientata. Tiene in mano un giubbotto imbottito. «Oan, stai bene?»

Annuisco. Cioè, tento. «Sì... È passato.»

«Bene», sorride. «Io me ne vado.»

Ma sono le nove e mezza! «Il tuo turno è già terminato?»

«Sì. Ieri notte c'è stata una festa e quei maledetti hanno ballato fino alle sei e mezza. Io e una mia collega abbiamo dovuto servirli dalle undici di sera in poi... Ci pensi? E considera che la musica era semplicemente orrenda. Mai passata una nottata peggiore. Ma finalmente ora vado a casa e dormo.» Infila le braccia nelle maniche e si avvicina la pelliccia che le orla il cappuccio. «Tu cosa fai, invece?»

Come fa a non mostrare nemmeno l'accenno di un'occhiaia? . «Io... be'...» Dovrei tornare da Denver e Jena e assicurarmi che... lui stia bene. Sento che se mi soffermerò un altro quarto d'ora, incontrerò nuovamente Nile. «Faccio lo stesso. Anch'io ho avuto una nottata complicata.»

Lei ride. Una risata raffinata, poco rumorosa o stridula, ma nel contempo insolita, mielata, suadente, resa quasi sensuale dallo sguardo che mi rivolge. Come spinto da una forza ignota, appena lei si gira a guardare qualcosa in strada, sbircio nella sua scollatura. Non posso lasciarmi allettare. Non posso dimenticarmi di Jena. E poi sono così stanco che non reggerei.

«Se vuoi...» comincia.

«Scusa, eh» mi intrometto. «Sai, dovrei prendere l'autobus e non posso star qua a parlare con te.»

Sorride e annuisce, anche se sul suo viso traspare una macchia di delusione. Mi saluta. Io recupero la giacca che ho lasciato sulla poltroncina ed esco. La differenza fra l'ambiente riscaldato del New Age Lounge e il gelo esterno è notevole, e infatti sento un brivido lungo la schiena e mi stringo nelle spalle.

Prende a nevicare e allora mi riparo sotto la tettoia della più vicina fermata dell'autobus. Mi guardo una mano: un fiocco si è depositato su una delle linee del palmo e si sta sciogliendo. Quando vidi la mia prima e unica nevicata avevo sette anni. Ero sul mio lettino d'ospedale e mi era sembrata la cosa più sensazionale del mondo. La ammiravo incantato, come se quelle bianche scaglie di cielo che planavano come piccoli paracadute avesse potuto guarirmi per magia. Ma guardarla qui, all'esterno, dove posso sentire le voci elettrizzate della gente e vedere i bambini piroettare con le braccia aperte... è diverso. È più vero.

«Ehi!»

Chissà perché non mi stupisco quando, girandomi, noto Persia che corre verso di me. Traggo un lungo respiro, inalando lo stesso gelo che ha portato la neve. «Cosa c'è?»

Si ferma davanti a me, è munita anche di guanti e un berretto rosso. «Mi dispiace per il disturbo» dice. «In ogni modo, dato che tu sei l'unico che conosco nelle vicinanze eccetto Karl, potresti prestarmi un po' di denaro? Dovrei andare a comprare una cosa per mia madre, ma mi sono resa conto di avere due dollari in meno. Me li daresti tu?»

Stai calmo, Caden. Calmo. «Ma non c'è proprio nessun altro che può farlo? Ho visto che c'era qualcuno dietro al bancone assieme a te. Perché non chiedi a lei?»

Lei aggrotta le sopracciglia e strabuzza gli occhi come se le avessi chiesto di prostituirsi. No, forse in quel caso mi avrebbe schiaffeggiato. «No, la odio. Non le chiederei un favore nemmeno se fossimo le ultime due persone sulla Terra e lei avesse tutte le riserve d'acqua.»

Sospiro. «Non ho denaro con me.»

«N-no?»

«No.»

Ammutolisce. Sembra che la mia risposta l'abbia... intontita. Come se avesse perso la facoltà di parola. «Ma non devi prendere l'autobus?»

Annuisco. «E questo cosa c'entra?»

«Be', allora ho fatto bene a fermarti.» E perché? «A quanto pare tu non lo sai, ma negli scorsi sei mesi la maggioranza di Amburgo ha snobbato i biglietti e ora circolano centinaia di controllori al giorno. Se non ne hai beccato uno mentre arrivavi, ne hai avuta, di fortuna.»

Non ho soldi. Nemmeno un dollaro. Ammetto di non aver controllato se qualcuno della squadra mi abbia dato qualcosa per pagare ma, se lo avesse fatto, non avrei dovuto trovarlo insieme alla carta di riconoscimento nel bagaglio? Mi meraviglio di mio padre. Lui, ossessionato dai particolari dei suoi stessi progetti, come può aver permesso che un lavoro importante come questo venisse svolto in maniera tanto approssimativa?

«Oh...», non riesco a dire nient'altro. «Niente mezzi pubblici, quindi?»

Persia fa spallucce. «Tu puoi fare come meglio credi, ma non sarebbe molto intelligente.»

A malincuore, devo darle ragione. «Ok, cosa mi consigli di fare?»

«Be', prima stavo per domandarti se volevi prendere un caffè da me... La proposta è ancora valida, se vuoi. Così posso prestarti qualcosa. Sennò ti restano due alternative: o rischiare di montare su un autobus o camminare.»

La sua logica è ineccepibile. «Va bene. Ma un caffè e basta.»

«Non ti costringerò a fare nulla che tu non voglia» risponde lei, e mi fa un occhiolino.

La seguo. Durante il breve tragitto parliamo solo di Nile. Io le chiedo dov'è andato e lei mi risponde che all'improvviso è sparito. Arrivati al suo condominio, apre il portone e un ascensore in vetro ci accoglie puntuale. Il suo appartamento si trova al sesto piano. Prima di entrare, smuovo i capelli per non farli assomigliare a una torta ricoperta di zucchero a velo, mi tolgo e scuoto la giacca, e pulisco la suola delle mie scarpe sul tappetino di fronte all'ingresso. Lei passa la chiave a controllo remoto davanti alla porta. Vive in un moderno bilocale. Illuminato da una vasta finestra, spoglio – o meglio, arredato solo con l'essenziale, – con un robot domestico a caricare in un angolo, un divano, un tavolo e un proiettore olografico sul pavimento in metallo.

Persia appende giubbotto e berretto ai pioli di un appendiabiti prima celato dalla porta e si sfila i guanti, lanciandoli in seguito sul tavolo. Quasi si teletrasporta in un'altra stanza, e nel frattempo io mi accomodo sul divano, metto la giacca su un bracciolo e strappo il telecomando allo spazio vuoto creato dal cuscino posizionato male. Quando torna, ha nelle mani due tazzine da cui si levano altrettante sottili strisce di fumo. Me ne porge una e si siede accanto a me.

«Cosa guardi?»

«Niente» rispondo. Cambio canale. «Cercavo il notiziario, ma non mi ricordo su che numero è.»

«Sul centododici» fa lei. «Quello che guardo sempre io, almeno. Si dice che gli altri siano pilotati dai proprietari delle rispettive reti televisive. Non so se sia vero, eh, ma non vorrei essere infarcita di roba spazzatura.»

Assento e intanto sorseggio il mio caffè, che mi scende per la gola assiderata come un balsamo. Nell'ologramma, un uomo racconta lo straziante caso di un cagnolino abbandonato e salvato da una famiglia volenterosa. Non danno più nulla sull'incendio di ieri. Ora che posso riflettere meglio, mi sfiorano altri pensieri. Ad esempio, cosa ne è stato dei rottami? Il velivolo era molto grosso, stento a credere che neppure un pezzo sia precipitato su un edificio nei paraggi. E tutto il suo equipaggio? Un esercito di uomini carbonizzati che, comunque, non possono essersi disintegrati. Sperando che il sonno non sia tale da indurre il mio cervello ad accantonare questi nuovi fatti, mi appunto di andare a visitare la vecchia... sì, Blankenese, non appena il tempo me lo permetterà.

«Ti piace?» mi chiede Persia.

Rinvengo dalla trance. «Oh... Tanto.»

Neanche bado al sapore: potrebbe avere il gusto di una vecchia scarpa in plastica e continuerei a berlo senza preoccuparmi. No, anzi, forse ho esagerato.

«Ne sono molto felice. È una ricetta di mia nonna, sai.»

Mi volto, all'esterno la nevicata si è infittita. «Davvero ti importa tanto del caffè?»

Lei ride. La stessa risata che ha fatto al bar. «Ma veramente non lo capisci?» Mi si avvicina. Ora siamo a un centimetro l'uno dall'altra. Percepisco il suo calore corporeo. «Non è importante che piaccia» mi sussurra in un orecchio. «Ma che piaccia a te.»

I nostri visi sono così vicini da sentire l'aroma del caffè contenuto nel suo fiato. Il mio corpo si irrigidisce. Jena ti ha rifiutato, Caden. Per lei tu sei un amico, niente di più. Cogli l'occasione. Non farti scappare questa bellissima ragazza.

Persia è immobile, mi scruta con i suoi occhioni verdi da cerbiatto. L'energia che gli avvenimenti di ieri mi hanno prosciugato torna a scalpitare come una mandria di cavalli imbizzarriti. Si sbarazza della stanchezza, delle paure e delle incertezze, e quasi trasportato da una volontà non mia, le accarezzo una guancia e la bacio di getto. Le nostre labbra si saggiano per alcuni secondi. Nella mia mente, però, si forma l'immagine di Jena che mi insegna il metodo per copiare durante gli esami di cinese. Mi blocco. Sicuramente lei non mi vedrà mai come più di un amico, ma non sono ancora pronto a soffocare quello che provo per lei.

Mi stacco e mormoro: «No.»

«No?» Si alza e poggia con violenza la tazzina sul tavolo. «Prima mi fai credere che ci stai e poi ti ritiri?»

«Non posso» dico, e non ha bisogno di sapere altro.

«Sai che c'è?» riprende. Si incammina prorompente verso quella che credo sia la sua camera e si ripresenta con il portafogli tra le mani. «Non mi meriti» continua mentre rimedia una banconota di cui non conosco il valore. «E pensare che ero disposta a fare sesso. Capisci? Ti ho appena conosciuto e volevo portarti a letto. Non è il mio solito comportamento, assolutamente. Mah, e dovremmo essere noi donne a fare le preziose.»

Mi dà i soldi e si allontana.

«Grazie.»

«Sì, certo» ribatte spiccia. «Ricordati solo di non farci l'abitudine.»

Lei se ne va e io rimango da solo in soggiorno. È il momento di lasciare questo posto. Prendo la giacca, la abbottono e mi sgranchisco. Sembra che il caffè – o forse il bacio di poco fa – stia agendo, donandomi una forza sempre maggiore. Devo approfittarmene finché non sarò a casa. Mi accingo a uscire, però scorgo un oggetto nero e argento sotto all'appendiabiti. Mi chino per guardare meglio e, quando comprendo di cosa si tratta, il mio respiro si solidifica ostruendomi la gola.

È l'Aquila Nera. Ma non è un disegno. È uno dei distintivi tascabili che danno alla consegna dei diplomi. Faccio per inginocchiarmi, ma dei passi diretti verso di me mi fanno trasalire. Allora scappo.

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