Capitolo 3

Le nuvole scorrono come un interminabile campo di cotone grigio. Impiegano poco, però, a diventare una passerella buia, e le stelle si accendono come se un pittore stesse punteggiando il cielo con una tintura splendente. Anche nella stanza cala l'oscurità, e dopo alcuni minuti di attesa, capiamo che nessuno provvederà a illuminarla. Cerco un tasto che possa accendere una luce, ma l'ambiente è esiguo e finisco presto. Dovremo rimanere così.

«Caden, basta agitarti» mi dice Jena. «Non servirà a niente.»

Mi risiedo accanto a lei, sulla comoda panca che ci hanno indicato non appena entrati. Dentro di me rimbomba ancora la promessa di mio padre. Non riesco a zittire i miei pensieri, che si inoltrano in sentieri inaccessibili e alimentano i miei dubbi.

«Sei forse preoccupato per qualcosa?» mi chiede. Mi prende una mano e io mi sforzo di sorriderle. «Puoi dirmi tutto, lo sai.»

Ridacchio. Solo dopo averlo fatto, mi accorgo che la tristezza che tentavo di nascondere era un po' più manifesta di quanto sperassi.

«Ti ho mai deluso?»

«Non è questo il punto...»

Abbasso lo sguardo e continuo a tacere. Lei mi stringe le mani con più forza, quasi costringendomi a girarmi di nuovo. Sta sorridendo. I suoi sorrisi sono sempre molto, troppo belli. E rassicuranti. Ma non è così che mi convincerà.

«Cosa ti ha detto tuo padre?»

Non le rispondo. Sfuggo delicatamente alla sua presa e mi rialzo, per poi tornare alla finestra da cui guardavo il panorama. Ora non si vede più nulla. Solo dei fulmini lontani che animano le nuvole, e il chiarore della luna, sebbene non riesca a individuarla. Il rumore dei tuoni, smorzato dalle spesse pareti metalliche, assomiglia a un roco gorgoglio.

«Sai» dice Jena, affiancandomi, «quando prima sei venuto a raccontarmi quello che ti era successo, ho pensato che stessi iniziano a capire. Che ti fossi reso conto dell'inutilità del tuo respingere le persone. Ma evidentemente mi sono sbagliata.»

«Io...» Non so cosa dire. «In quel momento mi è parsa la cosa più naturale da fare.»

Mi tocca una spalla e io mi giro verso di lei. «Caden, siamo nella stessa situazione! Se tuo padre ti ha riferito qualcosa d'importante, voglio saperlo anch'io. Non puoi semplicemente escludermi...»

«Mi dispiace» la interrompo. «Non ti riguarda.»

Jena tace. I nostri sguardi si incontrano e si dividono più volte, come se entrambi stessimo per fare qualcosa ma infine desistessimo. Per me, almeno, è così. Vorrei chiederle scusa, ringraziarla per non farmi pesare il fatto di averle legato una palla di piombo alla caviglia e di starla trascinando a fondo. Ma non ci riesco. Chissà perché prima, quando Nile è uscito dalla mia camera, mi sono catapultato da lei. Non le ho mentito: mi sembrava naturale quanto evitare la gente. Forse perché la interessava direttamente e sarebbe stato da stupidi, oltre che ingiusto, non condividere quello che era accaduto.

Va a sedersi. Rimaniamo in silenzio per molto tempo, forse trenta minuti. Io cerco di metabolizzare la faccenda, e credo che anche Jena ci stia provando. Non pensa mai tanto prima di agire, o in generale, ma immagino che ora si stia chiedendo cosa succederà alla sua famiglia, se tutto sarà esattamente come quando lei era con loro, e come sarà la vita ad Amburgo. Cosa ci ha riservato mio padre?

Non appena mi stendo sulla panca fissata all'altro lato della stanza, sento il bisogno di parlare. «Staranno bene.»

«Eh?»

Mi volto verso di lei: mi sta guardando. «La tua famiglia, Jena. Shay e Viorica staranno bene. Capiranno. Shay conosce gli inconvenienti della vita di un agente.»

Lei ridacchia. È molto simile alla risata che ho fatto poco fa. Piena di rassegnazione, di frustrazione. Non è da lei. «Smettila, Caden. Non sai come consolare la gente.»

Di solito mi scaglierei contro di lei con una sfilza di ragionamenti astrusi arricchiti da qualche insulto tradizionale, ma stavolta non faccio nulla. Abbiamo i nervi a pezzi e io non ho voglia di incominciare una predica che non potrei finire. E inoltre... come darle torto? Quando si passa l'adolescenza chiusi in un bozzolo, non si può di certo imparare a consolare qualcuno. Impari a consolare te stesso, e ti basta.

Decido di stare zitto, e la porta da cui siamo entrati si riapre con un sibilo metallico, gettando un cono di luce all'interno. Io mi schermo gli occhi prima di scattare in piedi e avvicinarmi a Jena come un bravo soldato messo in riga dal proprio generale. Entra un uomo pelato, sulla cinquantina, con mostruose borse sotto agli occhi. Ha l'aria spenta di chi non dorme da giorni, e non gli dona affatto.

«Benissimo...» dice, controllando un palmare che tiene fra le grasse mani. «Sapete già che stiamo ad Amburgo, vero?»

Jena annuisce. Io rimango immobile. «Ma non capisco come facciate a saperlo voi. Noi...»

«Tuo padre» mi anticipa. «Sì, Duncan Moothart, quel pezzo di coglione. Ce l'ha detto con un trasmettitore. Quanto odio quell'uomo... Però mi ha salvato la vita venticinque anni fa, e gli devo un favore. O meglio, gli dovevo. Grazie a voi.»

Ci fa segno di ammutolire, e noi lo accontentiamo. Poi ci accompagna attraverso una lunga serie di corridoi illuminati da tubi al neon che si diramano ovunque come serpenti a più teste. A parte due individui che noto di sfuggita, non vedo nessuno. Sono vuoti, quasi il velivolo fosse governato da un equipaggio di fantasmi.

Ci fermiamo davanti a un'altra porta, e quando l'uomo si appresta a dirci qualcos'altro, una turbolenza ci fa perdere l'equilibrio. Io e Jena ci rimettiamo velocemente in ordine, ma lui trascorre un minuto intero ad assicurarsi che la sua uniforme nera coi bottoni rossi sia perfetta. Finito, torna a rivolgersi a noi.

«Allora... Mi presento» esordisce. «Mi chiamo Alban Weiss e sarò il vostro "protettore" ad Amburgo. Ovvero, io non intralcerò le vostre vite, così come voi non intralcerete la mia, ma se doveste trovarvi in guai seri, chiamatemi. Sono la vostra ultima chance, insomma. Quando avrete un problema e avrete esaurito le opzioni a vostra disposizione, entrerò in gioco io. Tutto chiaro?»

Annuisco.

«Bravissimi... Allora continuiamo.» Si gira e ci indica l'ingresso di fronte a noi. «Qui dietro c'è lo staff che è stato preparato per voi. Non pensate che sia qualcosa di incredibile, perché Duncan ci ha avvisati con cinque ore di anticipo e noi abbiamo dovuto raggruppare un insieme di esperti in un'ora. A dirla tutta, sono i primi che ho trovato. Mia nipote,», punta un dito contro il mio petto, «che non puoi e non potrai mai farti; mio cugino Ryker, alcuni vecchi commilitoni che si sono specializzati nel ramo delle falsificazioni, e altre loro conoscenze.»

«Scherza, no?» gli chiedo.

«Oh, vorrei, caro mio» risponde. «Ma non su mia nipote. In quel caso, primo: non scherzo; e secondo: non avrei scherzato comunque. Scordatela, ok?»

«Ma se non l'ho nemmeno vista!» ribatto.

Lui sogghigna. Sembra che la mia affermazione lo diverta veramente. «Dicono tutti così.» Si avvicina al pannello di apertura posto a destra. «Ah, un'ultima cosa» dice prima di soddisfare qualsiasi modalità di riconoscimento usino a bordo. «Vi posso capire se non vi fidate del team che ho riunito... Quindi, se voleste sentirvi più al sicuro, potremmo anche ucciderli a lavoro concluso. Ovviamente escludendo mia nipote e mio cugino. Di loro potete fidarvi, garantisco io.»

Io e Jena ci scambiamo un'occhiata. Ha visto – e compiuto – più omicidi di me, ma credo che pure in lei si accenda una miccia quando qualcuno tratta con tanta superficialità un tema simile. Infatti, mentre Alban passa una mano davanti al pannello, noi due indietreggiamo e, quando tocchiamo il muro, lei mi sussurra: «Non preoccuparti, non dovrebbe essere serio.»

«Ok. Cercherò di crederti.»

La porta si apre rapida su una stanza quasi identica a quella in cui stavamo io e Jena poco fa, rivelando i tizi di cui parlava Alban. Agghindati tutti in maniera differente, ci stavano aspettando composti, in fila indiana, e così facendo, occupano tutto lo spazio disponibile. I primi due, un uomo e una donna, avanzano e ci stringono le mani. Dicono di chiamarsi Ryker e Gill. Poi sfilano gli altri. Prima è il turno di due uomini malridotti, ricoperti di cicatrici su ogni centimetro di pelle nuda – Denver e Camden, – e poi di altri due che hanno un aspetto più decoroso di quelli che li hanno preceduti, sebbene anche loro non siano il massimo. Quando guardo le ultime due persone, però, perdo un battito. Deglutisco, ma è come se il gozzo si fosse trasformato in un pesante e graffiante frammento di roccia. La guardo mentre mi viene incontro e per un attimo mi scordo che sto per cominciare un nuovo capitolo della mia esistenza e che nel mio paese ora sono un ricercato. Ci siamo solo io e lei. I suoi capelli castani, i suoi occhi grigi, il suo corpo. Non ho mai desiderato tanto una ragazza. Eccetto Jena. Ma lei è stata chiarissima riguardo ai suoi sentimenti.

Mi allunga una mano e io la afferro, tentando di contenere l'imbarazzo. Mi sembra di essere tornato a scuola, quando mi sentivo inferiore a ogni ragazza reputata carina. Anche se lei sfora di molto il concetto di "carina".

«Mi chiamo Sahara» dice compassata, e poi passa a presentarsi a Jena.

Non riesco nemmeno a pronunciare "Piacere" quando l'altro, l'ennesimo uomo dall'aria losca, viene a conoscermi, e i maschi del gruppo erompono in una fragorosa risata. Ryker – se non sbaglio, il cugino di Alban – mi si avvicina, mi dà una pacca sulla schiena e dice: «Stai tranquillo, ragazzo. Tutti i tuoi coetanei hanno la stessa espressione che hai tu ora quando la vedono. Ma dovresti stare attento alla tua, di ragazza. Non sembra molto felice di come la stai guardando.»

Lo stavo ascoltando solo parzialmente, e non appena riesco a ricomporre le parti del suo discorso, capisco che stava parlando di Jena. Mi riprendo e incrocio i suoi occhi. Mi fissa con uno sguardo assassino, proprio come quello che avrei dovuto fare un'oretta fa quando Nile mi ha immobilizzato a terra. Sono sicuro che, se mi fosse venuto bene come il suo, sarebbe scappato subito. E lo sono perché è la prima cosa che vorrei fare.

«Non sono la sua ragazza» puntualizza, senza togliermi di dosso per un secondo le sue pupille. «Ma gradirei comunque un po' più di rispetto.»

Alban ci interrompe intrufolandosi all'interno della mischia creatasi. Ci fa segno di calmarci, poi dà una ripassata a quello che è scritto sul suo dispositivo e trae un lungo respiro. «Benissimo... Senza dilungarci in inutili convenevoli, procedo con l'illustrarvi il compito dei vari componenti del team. Partiamo da Sahara. Lei sarà il mio vice, ovvero provvederà ai vostri bisogni una volta che sarete ad Amburgo, dunque converrete con me che la sua presenza durante i primi mesi è fondamentale. Denver e Camden sono coloro che si occuperanno dei contratti di possedimento di una proprietà, di darvi un'occupazione regolare, eccetera. Insomma, di far sì che ogni aspetto della vostra nuova vita sia legale, o almeno che lo sembri tanto da non destare sospetti. Ryker vi preparerà i vostri nuovi documenti, invece. Poi... Ecco, Gill. Lei conosce molto bene gli UN. La moda, l'economia, le tendenze, e roba simile. Lei vi aiuterà nella scelta del vestiario, dei nomi, della zona in cui stabilirvi.»

«Quindi ci darete dei nuovi vestiti?» chiede Jena.

Alban annuisce.

«Proprio così, dolcezza» aggiunge Gill. «Tutti quelli che vuoi, ma ricordati che non possiamo eccedere troppo, perché il vostro look dovrà prima di tutto rispecchiare la vostra situazione finanziaria e non essere appariscente. Siete fuggitivi, giusto? Non posso farvi vedere a tutto il mondo.» Ci accosta e sorride. «Anche se lo vorrei, ragazzi. Siete tanto belli che è uno spreco.»

Incurante del suo commento, richiamo l'attenzione di Alban e accenno ai tre componenti rimasti. «A che cosa servono loro?»

«Allora... Praticamente sono delle guardie del corpo. I primi giorni saranno le vostre ombre. Quando sapremo che non c'è nulla da temere, loro se ne andranno per la loro strada. Ma fino ad allora – ripeto – saranno le vostre ombre. Ne ho scelti tre perché so che siete agenti di una Divisione della Fratellanza e che non devo prendervi sottogamba.» Clicca qualcosa sullo schermo e assente fra sé e sé. «Non voglio che Duncan mi rinfacci che ho ancora un debito con lui. E se voi morite, credo che dovrò saldarne più di uno.»

«Personalmente, penso che avreste potuto farne pure a meno» affermo. «Siamo in grado di badare a noi stessi. Non abbiamo bisogno di questi...»

Non riesco a concludere la frase, che Sahara ha dispiegato un fucile d'assalto contro di me. Dovrebbe averlo preso da dietro la schiena, la fascia che penzola nel vuoto mi dà ragione. Io sollevo le braccia e mi fermo. Allora con la coda dell'occhio intravedo uno degli uomini di cui parlavamo estrarre una pistola elettromagnetica e puntarla nella sua direzione, avvicinandosi a piccoli passi.

«Cosa fai, Sahara?» dice Alban. «Vuoi veramente vanificare tutti i miei sforzi?»

«Credi di non aver bisogno di loro?» ripete lei.

Io cerco di non far trasparire la paura. «Sì, ne sono convinto.»

«A me sembra il contrario, dato che l'unico che si è mobilitato quando ho minacciato di ucciderti è stato uno di loro.»

«Non mi hanno dato armi per completare la mia missione. Cioè, in realtà me le hanno date, ma avrei dovuto sbarazzarmene. Quindi non vedo come avrei potuto reagire degnamente.»

Sul volto di Sahara spunta un mezzo sorriso di scherno. «Sì, certo. Intanto se, invece di guardarmi le tette, ti fossi accorto della fascia che avevo premuta contro il petto, ora non saresti così sorpreso nel vedermi con un fucile d'assalto.»

Sento il sangue ribollire. Vorrei sputarle una selva di improperi e rassicurare Alban del fatto che, se sua nipote è così, non ha da temere che io ci provi. Stringo un pugno finché non percepisco le unghie mangiucchiate seghettarmi la carne come enormi seghe elettriche lasciate secoli a consumarsi in un capannone. Poi inquadro Jena di sfuggita. Tiene una mano sul calcio di una pistola che sbuca dai suoi pantaloni e mi guarda come se volesse lanciarmela. Non so dove l'abbia presa – anche se probabilmente ce l'ha perché ha disobbedito ai nostri superiori della Divisione. Acconsento al suo piano sbattendo una volta le palpebre. Quindi rotolo verso destra e agguanto l'arma al volo, per poi indirizzarla verso Sahara, presa in contropiede.

«Di solito mi piace infarcire la testa della gente con una marea di cagate, ma credo che i fatti talvolta siano più incisivi. Cosa dici? Smettiamo di fare i bambini e continuiamo a progettare questa cosa?»

Sahara digrigna i denti e aggrotta la fronte. Sembra rafforzare la presa sul fucile, ma alla fine lo ripone com'era prima e annuisce. «Come vuoi» soggiunge, tornando a ignorarmi.

«Be'» dice Alban, «bisogna ammettere che siete una squadra ben assortita, voi due. Spero invece che tu, Sahara, farai meno brutte figure mentre svolgerai il tuo incarico.»

Sahara non gli risponde. Inizia a fissarmi con gli occhi ridotti a due feritoie, quasi non si fidasse di me. Che si faccia passare l'arrabbiatura, non è di certo colpa mia se agisce senza considerare i pro e i contro.

Le operazioni di falsificazione cominciano subito dopo. Dato che ho detto a Gill di non avere grandi preferenze per i vestiti, lei prende Jena e io seguo Denver, Camden e Ryker per supervisionarli mentre redigono le varie carte che dovrebbero consegnarci una nuova vita. Raggiungiamo una camera dove ci sono due letti e un tavolo. L'unica illuminazione è una lampada da scrivania a luce bianca impostata sulla massima luminosità. Denver e Camden recuperano tre borse a tracolla da cui tirano fuori pile di fogli che sbattono sul tavolo. Poi iniziamo.

Consultando gli appunti di Gill, che ha calcolato ogni variabile, e utilizzando un computer olografico da parete, scorriamo le varie abitazioni ritenute adeguate. Jena mi ha detto che posso fare come voglio per tutto eccetto i nuovi nomi, e allora io scelgo una casa con una visuale spettacolare sull'Elba. Loro mi consigliano di sceglierne un'altra perché questa è troppo vecchia – sebbene abbia appena cinquant'anni, – ma io e Jena amiamo questo genere di posti. Tutto ciò che resta procede normalmente: dopo aver fatto chiarezza sui nostri nuovi impieghi – o almeno, il mio come gestore di un bar, perché li convinco a iscrivere Jena al primo anno di scienze politiche, - ci concentriamo sul mio albero genealogico, definendo ogni dettaglio dei miei nuovi antenati. Poi facciamo la stessa cosa con quello di Jena. Alla mia richiesta di avere potere decisionale anche per quanto riguarda i cognomi e le nostre storie fino a questo momento, i tre falsificatori mi ridono in faccia e mi informano che potremo scegliere solamente i nomi.

Loro stanno revisionano il prodotto dell'ultima ora, quando Gill e Jena ci raggiungono. Jena indossa una camicia bianca di flanella molto professionale, degli occhiali e ha i capelli raccolti in un alto chignon. Anche i pantaloni e le scarpe sono eleganti, seppur Gill si lamenti di non averla persuasa a mettersi i tacchi. È buffa, ma penso che sia soltanto perché sono abituato a vederla con abiti del tutto differenti.

Mi scappa una risatina. «Buongiorno, signorina. Gradisce qualcosa in particolare?» le chiedo.

«Non sapevo che sapessi scherzare», è la sua frecciatina di risposta.

«Be', sai, fa parte del mio nuovo personaggio. In un modo o nell'altro dovrò pur incominciare da qualcosa.»

Nel menzionare le nostre identità, il suo sguardo si ravviva. Mi fiancheggia e mi dice di raccontarle quello che abbiamo deciso. Elenco tutto ciò che so, o almeno in cui mi hanno lasciato una minima scelta, e la osservo mentre la sua espressione passa da curiosa a entusiasta. Mi abbraccia energica, stritolandomi proprio come ha fatto quando qualche ora fa sono rientrato al Buco di Fogna, ma stavolta mi libera in fretta per correre dai documenti. Denver e Camden hanno appena finito una parte del loro compito, invece Ryker aspetta il nostro intervento per stilare le carte di riconoscimento. Dunque, mentre loro ci affidano i fascicoli che dovremo studiare prima dell'atterraggio – stimato entro due ore, – lui ci sprona a muoverci.

«Io mi chiamerò Ren» asserisce Jena. «È un bel nome e suona bene assieme ad Achterberg. Inoltre Gill mi ha detto che è abbastanza comune, quindi non attirerà troppa attenzione.»

«Brava. Ti ho detto immediatamente che mi sembravi una ragazza saggia» dice Gill, applaudendo con moderazione.

Non so quanti anni abbia, anche se credo sulla trentina, ma mi pare una sedicenne che va a fare shopping con la migliore amica. Temo che abbia influenzato pure Jena, e la cosa mi dispiacerebbe decisamente.

«Tu?» mi domanda Ryker mentre si segna quello di Jena.

«Io...»

Non lo so, in effetti. Il mio nome mi piace. E poi non ho molta fantasia, non riuscirei a trovarne uno adatto come ha fatto Jena. Ren... Sarà strano chiamarla Ren, e mi chiedo come lei faccia a conviverci serenamente. Mi vado a sedere sul letto, nessuno mi ferma. Sto in silenzio per un minuto buono, e all'improvviso odo un forte tuono riecheggiare per il velivolo. Deve essere stato veramente vicino, perché tutti spalancano le palpebre e si scambiano bisbiglii turbati. Gill è l'unica a sorvolare su di esso. Si accomoda accanto a me e mi sorride. Io mi allontano di mezzo metro e sfodero lo sguardo più diffidente che ho nel mio repertorio.

«Ascoltami... Probabilmente hai realizzato che cambiare identità è difficile. È vero: per esempio, i primi tempi faticherai a rispondere quando qualcuno ti chiamerà con il tuo nome. Anche la tua amica era molto indecisa. Aveva sottovalutato la faccenda, e allora ho dovuto tranquillizzarla io.» Riprova ad avvicinarsi. Stavolta non mi muovo, aspetto di vedere cosa farà. «È necessario, però. E, per giunta, potrebbe non essere per sempre. Potresti ottenere un'amnistia, o qualcosa di simile – non so cosa abbiate fatto, scusami, – e tornare in patria. Ma per il momento ti servirà.»

Tutti attendono una mia reazione. Nel frattempo, Gill dice a Jena di darle la borsa che ha lasciato accanto all'ingresso – e che io non ho neppure notato – e, una volta che ce l'ha tra le mani, ne estrae un palmare simile a quello che usava Alban, che è sparito da un po'. Dunque mi elenca una serie di nomi, condendoli con significato, origine e importanti personalità storiche che li hanno avuti. Ma ce n'è uno che mi gira in testa. A un certo punto mi ricordo che mio padre mi aveva parlato di uno zio morto prima che io nascessi. Della descrizione che mi aveva fatto non è rimasto granché. Eccetto una cosa.

«Io sarò Oan» affermo. «Non mi importa se è troppo pacchiano, raro, o qualsiasi altro aggettivo vi venga in mente. Io sarò Oan Hildebrand. E non si discute.»

Quando mi alzo, Ryker si sta già appuntando le mie parole. Gill pretende delle spiegazioni, ma io esco dalla stanza, le dita artigliate sul fascicolo redatto da Denver e Camden. Cammino senza una meta precisa, raggiungendo un corridoio panoramico da cui si vedono le nuvole lacerate dalle saette.

D'un tratto sento dei passi di corsa. Mi giro: è Jena. Mi guarda nello stesso modo in cui lo stava facendo Gill. Di solito, seppur non condivida le mie maniere, comprende il mio atteggiamento. Ma adesso pare che voglia una giustificazione. Nessuno dei due parla, però. Ci fissiamo muti, solo la luna a rischiarare l'ambiente. Il velivolo perde quota e si infila tra le nuvole più basse, consentendo alla pioggia di abbattersi sui vetri con un chiassoso picchiettio. Nessuno si degna di accendere l'illuminazione al neon degli altri corridoi, e allora si fa largo un manto oscuro intervallato da i lampi, gli unici sprazzi di luce che ci permettono di vederci a intermittenza.

«Cosa ti prende?» mi chiede. «Non pensavo che lo avrei mai detto, ma ti comporti in maniera più strana del normale.» Silenzio. «Cioè, Caden! È un nome, uno stupidissimo nome! Perché deciderne un altro è stato tanto faticoso?» Sono pronto a risponderle, ma Jena ricomincia e la mia difesa muore prima di uscire dalle labbra: «E perché quella scenata? Perché qualcuno dovrebbe avere qualcosa contro Oan? Solo Gill avrebbe tentato di farti cambiare opinione, ma ti sarebbe bastato ignorarla.»

«Non è questo, Jena...»

Lei tira un pugno contro il vetro. «E cosa, Caden? Dimmelo, per favore, perché oggi non ne azzecco una.»

«È...» Sospiro. «È che finché rimangono discorsi, va tutto bene. Ma questo fascicolo» dico, sventolando il mucchio di fogli che stringo, «e le certificazioni false che stanno completando sono reali. Io... Guarda, non so esprimermi quando si tratta di me, quindi finiamo qui questa discussione.»

Jena impreca sottovoce e si incammina nella direzione da cui è venuta. La osservo durante ogni secondo in cui le sue gambe si muovono veloci, quasi nervose. Poi, quando svolta a destra e scompare, riprendo a passeggiare. Ho intenzione di perlustrare tutto il velivolo, e spero che questo mi aiuterà a pensare.

Rido. È come se un macchinario proiettasse davanti a me l'incontro con Nile. Lo rivedo trattarmi come un pupazzo con cui gioca quando si annoia. Rivisito gli attimi in cui mi spiattella la verità sulla mia missione. Non mi ricordo bene cosa ho pensato, le sue affermazioni mi hanno scombussolato troppo perché ci riesca; ma so con certezza che volevo andarmene. Quando lui mi ha suggerito di scappare, io mi sono rifiutato di farlo, eppure nel profondo volevo abbandonare mio padre, Jena, i miei "amici", il tizio che serve le bevande nel bar in cui vado – o meglio, andavo – sempre. Tutti, insomma. Per un istante ho assaporato una vita alleggerita dall'assenza di vincoli, di catene che mi trattengano a terra.

Ora è totalmente differente. Non so se è colpa dell'inaspettato abbraccio di mio padre, della rapidità con cui si sono susseguiti gli eventi o di qualcos'altro. Forse è proprio perché è stata un'operazione chirurgica, pianificata nell'arco di poche ore e messa in atto in maniera esemplare. Forse è perché, nonostante il tiepido clima in cui sono immerso ora, percepisco ancora il caldo vento di San Diego frangersi sulla mia pelle. Oppure si tratta della mia vigliaccheria. Non mi importa più neanche di Nile e del suo stile di combattimento.

Arrivo in una zona in cui ricominciano i tubi al neon. Sulla parete di destra c'è un cartello su cui viene indicata la posizione della sala comandi, degli alloggi e della sala macchine. Ma ormai non ho più voglia di girovagare, e allora mi soffermo qui. Lascio che le mie ginocchia cedano, sedendomi sul pavimento, e apro il fascicolo. Sulla prima pagina vedo un grande titolo segnato in rosso. Storia. Do una lettura veloce a tutto, tentando di fissare le tappe fondamentali che hanno contraddistinto il percorso di Oan Hildebrand; quasi non mi capacito di quanto siano riusciti a scrivere in così poco tempo.

All'improvviso, mentre mi sto informando su coloro che lavoreranno con me, esplode il fragoroso suono di un altoparlante che ci avvisa dell'imminente atterraggio. Mi alzo di scatto e mi avvio verso la stanza in cui mi dovrebbero stare aspettando Jena e gli altri. Fortunatamente la ritrovo senza difficoltà, e anche loro non si sono spostati. Camden, Denver e Ryker discutono vivacemente su qualcosa che si trova sul tavolo e che nascondono con le loro schiene. Gill, invece, conversa con Jena, che si è cambiata con un maglione e dei pantaloni elastici, e intanto Sahara, Alban e le tre guardie del corpo assistono taciturni. Alban è il primo a scorgermi, e non appena lo fa, schizza verso di me come un missile. Mi confessa di aver temuto di dover mandare qualcuno a cercarmi e di essersi presi la briga di preparami una valigia riempita con tutto ciò che mi potrà tornare utile. Inoltre, hanno redatte altre carte che hanno messi in due nuove borse a tracolla verde chiaro. Li ringrazio senza troppo slancio e la prendo. Non pesa molto, chissà quanta roba c'è.

Dieci minuti dopo siamo a terra e il velivolo, che è appena ripartito, si è già mimetizzato nella notte. Siamo scesi senza armi, su una collina su cui sorgeva un quartiere chiamato Blankenese – così mi dice Alban – e dove ora c'è un'ampia radura circondata da alberi. La gelida corrente della Germania settentrionale si insinua al mio interno e mi provoca intensi brividi. Qui non piove, mi chiedevo infatti quanto potesse essere estesa la tempesta, anche se sicuramente si trattava di focolai differenti.

Jena mi affianca e mi sussurra delle scuse. Io le passo un braccio attorno alle spalle. Cerco di scordarmi quello che è successo, di comportarmi come se non avessimo litigato affatto. Quindi seguo i tenui bagliori che segnalano la presenza dell'apparecchio da cui sono appena sceso. Ma pochi secondi più tardi un colossale fragore mi frantuma i timpani e una deflagrazione irraggia le vicinanze di Amburgo.

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