Capitolo 2
Quando passiamo davanti al proprietario, sedimentato dietro al bancone con una lattina di birra in mano, appoggio la valigia sul pavimento per cercare i soldi. Ma mio padre non me ne dà il tempo. Dopo avermi detto di abbandonare la valigia, estrae una pistola elettromagnetica e lo fredda, perforandogli il cranio con uno sparo. Per un attimo, mentre lui e Jena mi esortano a sbrigarmi, fisso impietrito il corpo sanguinante dell'ubriacone che appena due giorni fa mi ha consegnato le chiavi della mia camera. L'associazione a Oliver Lowell e il suo cadavere tempestato dall'acqua è immediata. I suoi occhi sgranati si ripresentano in un flash come se un professore mi stesse costringendo a guardare delle velocissime diapositive che lo ritraggono. Perché mio padre lo ha ucciso? Dopotutto, cosa avrebbe potuto dire di noi? Scuoto la testa con vigore, provando a riacquistare la ragione. Ovvio, sarebbe bastato andare a parlargli per ottenere informazioni sul nostro conto, e poi ha visto il mio vecchio mentre ci accompagnava. Una sua descrizione basterebbe almeno a far sospettare qualcuno che lo conosca.
Dunque li seguo. Usciamo svelti dalla locanda. Il freddo si trasforma in un tremito lungo tutto il mio corpo. All'esterno ora è calmo, ma il terribile odore della pioggia contro l'asfalto aleggia nell'aria e gli preferirei il maltempo. Il cielo inizia a rabbuiarsi, e intanto io, Jena e mio padre ci incamminiamo verso il retro dell'edificio, dove una bassa e lunga automobile di un nero lucido ci attende. Saliamo, e il conducente, un magro uomo di mezz'età con i capelli grigiastri, parte non appena richiudo la portiera. Non mi sono nemmeno seduto, e infatti vado a finire contro Jena, che senza volerlo intercetta la mia caduta. Mio padre si è messo sul sedile anteriore e ci guarda dallo specchietto mentre ci ricomponiamo. Solo ora ricordo la valigia. Tanto avrei dovuto separarmene comunque, e sembra che lo abbia fatto anche Jena.
«Perché non mi hai detto che stavi svolgendo una missione della Divisione di San Diego?» mi chiede.
«Sai, Duncan, c'è un motivo se si chiamano "segrete". Non posso parlarne neppure con te, e non è che noi due parliamo molto.»
«Be', questa volta avresti dovuto farlo» ribatte lui. Sussurra qualcosa al conducente e controlla un quadernino, o forse un'agenda. «Ieri l'Assemblea ti ha convocato. Non vedendoti arrivare, abbiamo dovuto segnare un'assenza ingiustificata. Non ho fatto in tempo a cercarti che Lloyd mi ha riferito la tua posizione. Quando ho sentito che eri qui, e soprattutto cosa eri venuto a fare, ho tirato un pugno contro il tavolo.» Impreca sottovoce, nella sua costante compostezza. «Ma ti informi mai sugli obiettivi delle tue missioni? Oliver Lowell è un protetto della Divisione... Come avrebbero potuto dirti di ammazzarlo?»
«Un protetto della Divisione?» ripete frastornata Jena.
«Proprio così» dice mio padre. «Lavora... cioè, lavorava ai Laboratori Colton ed era immerso in una questione molto importante per l'intera Fratellanza. La sua morte porterà la tua, di morte.»
Lo sapevo. Nile non stava mentendo. Era veramente venuto ad avvertirmi.
«Quindi dobbiamo...» comincia Jena.
«Scappare, sì» termino. «O almeno credo. Cosa dici, Duncan?»
Mio padre ci osserva per qualche secondo, poi annuisce. «C'è un velivolo che ci aspetta a cinque chilometri da qui. A bordo ci sono degli esperti di falsificazioni: identità, carte per il possesso di un'abitazione, e tutto quello che serve per iniziare una nuova vita. Potete scegliere qualsiasi città, a patto che si trovi nelle UN. Alcuni amici in Germania mi devono un favore, quindi sarebbe meglio che sceglieste un luogo di quella regione, ma l'importante ora è che vi decidiate. Vi lascio parlare. Avete due, tre minuti.»
Mi giro verso Jena. Ha le mani congiunte e la testa abbassata. Le palpebre socchiuse, le sue labbra si muovono rapide e brevi, tacite. «E mio fratello?» dice ignorandomi. «E mia madre? Come si guadagneranno da vivere? Io... Io devo rimanere qui.»
«Non sia sciocca, Foss» la apostrofa mio padre, torcendo il busto e guardandoci direttamente. Sì, Nile ha il suo stesso sguardo. Gli assomiglia di più di quanto gli assomigli io. «Non servi alla tua famiglia da morta. E poi ci ho già pensato io. Tuo fratello Shay ha fatto domanda per lavorare ai Laboratori Moothart, e anche se avevo intenzione di non assumerlo, lo farò. Ti prometto, inoltre, che sapranno della tua fuga. Ma per questioni di sicurezza non sapranno né del mio coinvolgimento né la tua meta. Anche il tuo nuove nome rimarrà segreto.»
Jena assente, ma sembra non sentire sul serio quello che le sta dicendo mio padre. È come se fosse intrappolata in un'altra dimensione e tentasse di uscirne... inutilmente. Infatti non provo nemmeno a discutere con lei per la scelta della città in cui stabilirsi. Io so dove andare, e lo sa anche lei. Perché interpellarla? Se non lo dico ora, mio padre decreterà un posto a caso in Germania, e probabilmente non sarà Amburgo.
«Ho deciso, Duncan.»
Lui ridacchia. «Strano, di solito ci metti anni a decidere qualcosa.»
Cerco di sorvolare sulla sua ultima affermazione. «Voglio andare a...»
Proprio mentre sto per comunicare a mio padre su quale luogo è ricaduta la mia scelta, l'automobile si arresta bruscamente, facendomi sbattere la fronte contro lo schienale davanti a me, rumore di gomme che raschiano sulla strada. Mi massaggio la testa, e intanto il mio vecchio rimprovera il conducente per l'improvvisa frenata. Lui, però, sembra non ascoltarlo. Lo guardo: è terrorizzato e tiene un dito sollevato verso un punto nel cielo. Non riesco a scorgere cosa indica. Presumibilmente perché, qualsiasi cosa sia, è ancora nascosta dietro alla cresta montuosa alla mia destra. Jena non si è neanche accorta di quello che sta succedendo, si sta solamente lamentando della botta che ha dato al finestrino.
«Non mi importa di cosa hai visto, idiota!» urla mio padre. «Riparti, manca un chilometro.»
Ma il tizio è muto e le sue mani, ancora posate sul volante di pelle, tremano. Quando ciò che lo atterrisce sbuca dal crinale, il battito del mio cuore si ferma per un istante. È un velivolo militare della Fratellanza, uno di quei nuovi modelli resistenti e muniti di vari armamenti: lo riconosco grazie al simbolo nero sulla fiancata.
«Non è quello che doveva venirci a prendere» commenta Jena, passandosi una mano su una spalla. «Ci hanno detto che sarebbe stato un veicolo ad uso civile.»
«E invece è venuto qui per voi, Foss» afferma mio padre. Si gira e ci dice di spostarci. Lo facciamo, poi mi giro a mia volta e cerco di capire cosa stia guardando. Dietro di noi, immersa in una crescente oscurità, c'è la figura della sperduta cittadina che abbiamo appena lasciato. «Ma non voleva riportarvi a casa.»
Mentre tutti siamo zitti e osserviamo la schiera di vecchie case di legno, pietra o calcestruzzo, che sono sopravvissute a più di un secolo di distruzione, il velivolo si dirige verso di esse. Poi si arresta e i propulsori antigravitazionali si attivano facendo in modo che rimanga immobile in volo. Dalla sua facciata frontale si protende un lungo e largo cannone meccanico. Trascorre tanto tempo che sembra temano di sbagliare. Ma è impossibile. Infatti, quando il cannone spara, il colpo si abbatte sul paese, annientandolo. Il boato è assordante e lo spostamento d'aria causato dall'esplosione fa dondolare leggermente l'automobile. Dove prima c'erano gli edifici, ora divampa un inferno di fiamme, di un arancione acceso che si mescola al giallo.
«Ahmose, cerca un nascondiglio!» urla mio padre.
Ahmose – che secondo logica dovrebbe essere il nome del conducente – si riprende dallo spavento e avvia la macchina. Faccio in tempo a voltarmi, che devo gettare le braccia in avanti per non impattare ancora contro lo schienale del sedile. Ci siamo fermati sotto alla lieve montagna, dove l'ombra potrebbe essere tale da non farci individuare. L'attesa non è lunga: il velivolo militare della Fratellanza non si premura nemmeno di perlustrare i dintorni alla ricerca di ipotetici superstiti. Lo osservo mentre si allontana e scompare all'orizzonte. Deglutisco. Anche se mio padre non avesse sparato al proprietario del Buco di Fogna, lui sarebbe morto comunque. Non potrà più cambiare nome alla sua locanda, non potrà più ambire al successo, e come lui, pure gli altri abitanti. Non erano molti, è vero... Ma erano vivi, e ora non lo sono più. Sento un peso gravarmi sulle budella, e per un attimo non riesco a respirare.
«Non fare il bambino, Caden» tuona mio padre. «E tu, Ahmose, riparti. Non vorrai farti trovare qui quando torneranno?»
Ahmose scuote la testa con risolutezza e parte a razzo. In pochi secondi l'automobile viaggia già a più di cento chilometri orari, e non appena svoltiamo oltre il crinale, scorgo la sagoma di ciò di cui parlava mio padre. Di un grigio brillante, che luccica per via della luce rosata del tramonto, è di grandi dimensioni e ha una forma allungata che termina in una punta così affilata da poter fendere l'acciaio. Mi chiedo come la Fratellanza non sia riuscita a vederlo. Io l'ho visto persino con una serie di ostacoli. Loro, che erano in cielo e sono dotati di strumenti sofisticati, perché se la sono dimenticata?
«Si mimetizza, vero?» dice Jena, come se mi avesse letto nella mente. «Sennò non riesco a capire come siano usciti intatti da quello che abbiamo appena vissuto.» Si toglie la giacca e ci appoggia la fronte, sorreggendosi il capo con le braccia sorrette a loro volta dalle gambe. «Inizio a sentire caldo» aggiunge.
«Hai un buon spirito di osservazione, Foss» risponde mio padre. «Ti servirà, ad Amburgo.»
Mi allungo in avanti di scatto, tenendomi allo schienale di mio padre per mantenere la posizione anche mentre Ahmose guida come un pazzo. «Amburgo? Ma io...»
«Ci hai messo troppo per decidere e allora l'ho fatto io. Non ti va bene? Non me ne frega. Ormai la scelta è fatta.»
Non che non sia d'accordo, ovviamente, ma mi sembra strano. Perché la mia destinazione e quella pescata da mio padre coincidono? La Germania delle UN è molto popolata, se non sbaglio; è improbabile che abbia selezionato Amburgo affidandosi al caso. Quindi... significa che ci sono motivi per cui vuole mandarci laggiù. È inquietante. Da un certo punto di vista, non posso nemmeno affermare che io e lui fossimo sintonizzati sulla stessa frequenza, perché ci ha comunicato il risultato dei suoi pensieri solo ora, e invece io ero pronto a farlo anche due minuti fa. Mi avrebbe veramente lasciato scegliere?
«Come desidera, signor Moothart» dice Jena. «Io non mi opporrò.»
«Neanch'io» asserisco.
«Bravo» commenta lui, mentre Ahmose interrompe la sua folle corsa con una derapata che ci fa volare verso destra. Prima di impattare contro il finestrino, riesco a frapporre una mano. Anche Jena e mio padre sono riusciti a uscirne tutti interi. «Finalmente hai capito che i capricci di un bambino non servono a niente.»
Ignoro il suo insulto velato, o rimprovero, o qualsiasi cosa fosse. Tanto fra una trentina minuti non lo vedrò più per... quanto tempo? Tanto, spero. Da quando è morta mia madre, non lo sopporto più. Sempre a rimbrottare, a ordinare, a pretendere. Non è mai stato un agnellino, ma negli ultimi anni è peggiorato più di quanto pensavo potesse fare.
Scendiamo dalla macchina e ci dirigiamo verso la scala mobile che sta per attraccare. Prima che possa salire, sento qualcuno strattonarmi verso di sé. Mi giro. È mio padre. Non avevo notato quanto fosse elegante, probabilmente più tardi ha un incontro importante e deve essere impeccabile. Lui mi guarda, muto. Poi mi abbraccia. Rimango immobile per una manciata di secondi. È in questi momenti che mi avvicino a comprendere perché mia madre si era messa con lui. È un uomo gelido, quasi scolpito in un blocco di ghiaccio, ma quando vuole, può produrre più calore di un vulcano. Mi ricordo che dopo la morte di mia madre lui mi abbracciò nello stesso modo. E, in un certo senso, mi sembra di tornare ai miei quattordici anni, poco prima che lei se ne andasse... Quando stavo per entrare nell'Istituto e credevo che un oceano di opportunità mi aspettasse alla fine del mio percorso. Quando la mia esistenza era felice e ogni mattina mia madre mi salutava consegnandomi le mie medicine.
«Mi mancherai, Caden. Quando tutta questa storia si concluderà, se si concluderà, sarò un padre migliore, te lo giuro.»
Sussurra – di sicuro non vuole farsi sentire dalle persone che stanno scendendo dal velivolo, – ma è sufficiente per innescare qualcosa dentro di me. Sento una lacrima bagnarmi il viso. No, non posso piangere. Non piango da sei anni, e questo non è il momento per ricominciare. Allora mi pulisco con il dorso di una mano e mi stacco da lui, ricomponendomi.
Mi volto. Jena sta già salendo, mentre dei tizi la incitano da sopra l'apparecchio. No, un attimo. Incitano me. Mi dicono di affrettarmi, e allora io inalo quanta più aria posso e li ascolto. Salgo uno scalino alla volta, quasi fosse comparsa una nuova forza gravitazionale a impormi di rimanere a San Diego. Ma questa non è San Diego. Questo è il grigio deserto che circonda un paese riarso. E se non me ne vado subito, morirò. Quindi stringo i denti e accelero. Mentre faccio il mio primo passo all'interno del velivolo, e lo sportello con le scale si richiude dietro di me, ripenso alle parole di mio padre. "Quando tutta questa storia si concluderà". Questa frase, che prima mi era parsa tanto sensata, ora evoca strane riflessioni. L'uccisione di un protetto della Divisione, per giunta giustificata da una missione apparentemente assegnata dalla Divisione stessa, è un reato che ti preclude qualsiasi eventuale ritorno in patria. Cosa intendeva mio padre con concludersi?
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