CAPITOLO 30 - BACIO INATTESO

Era così buio che a malapena si vedevano i contorni degli oggetti, salvo i suoi.

Lei era come sempre illuminata da quella luce pura che ai miei occhi la rendeva quasi inavvicinabile.

Il ritaglio della finestra le riversava addosso il bagliore della luna.

Era un po' che la fissavo, appoggiata con la fronte contro il vetro, a guardare la tempesta fuori e forse dentro di sé.

Riusciva a spaventarmi, anche in quel corpo minuto e delicato, anche con quel viso angelico e sincero.

Forse era proprio la sua sincerità a spaventarmi.

Appoggiò la mano sul vetro e allargò le dita, la sentii sospirare. C'era qualcosa di nostalgico nel suo sguardo, qualcosa che rendeva anche me nostalgico.

Mi avvicinai piano, non volevo metterla sulla difensiva. Non volevo mettere me, sulla difensiva.

Era sempre così tra noi. Una vicinanza fatta di distanze. Presi un respiro e appoggiai la mano sulla sua.

Il suo corpo si tese e nel riflesso della lastra la vidi sgranare gli occhi poi si rilassò, espirò rumorosamente e si abbandonò contro il mio petto. «Piove» bisbigliò, piano.

Una parte di me crollò al suono della sua voce. La mia parte cedevole e sbagliata, immorale e disgustosa.

Abbandonai il viso nell'incavo della sua spalla, respirai il suo profumo che mi ricordava sempre con indecenza quando da piccoli facevamo il bagno insieme.

La sentii rabbrividire. Ero certo che non fosse per il freddo. Ero io la causa. Sempre io. Sempre la mia vicinanza.

«Devi farla finita, Bröna» la rimproverai, parlandole quasi nell'orecchio. S'irrigidì ancora e il viso pallido prese colore.

Mi piaceva chiamarla per nome.

Mi piaceva il suo nome, in fondo lo avevo scelto io.

Ma non potevo allentare le difese. Usare il termine sorella era l'unico modo per ricordare a entrambi i propri ruoli.

Eravamo fratelli, punto.

Era bene che lo ricordassi anche io, costantemente.

«Ci stavo provando, infatti» mi rispose con quel suo solito sarcasmo pungente. Da chi lo aveva preso? Da nostro padre? Nostra madre è sempre stata molto più sottomessa. Bröna non lo è mai stata.

L'avevo vista in tanti modi ma mai sottomessa.

Schiva, infelice, arrabbiata, capricciosa, coraggiosa... ma mai sottomessa.

Gridava con forza ciò che voleva. A volte lo pretendeva come se le spettasse di diritto.

Strinsi con rabbia la presa sulla sua mano, intrecciando le sue dita alle mie, spingendola contro quella finestra quasi a volermi fondere con lei. Come se il mio corpo la volesse mangiare.

E forse era proprio così.

Piegò la testa di lato, costretta ad appoggiare una guancia sulla lastra, ansimò finchè il vetro non divenne opaco, strappandomi un brivido.

«Non sto scherzando, Bröna. Devi smettere di fare queste sciocchezze.» Ero arrabbiato. A malapena riuscivo a mantenere il distacco che mi ero imposto.

Quando si feriva, quando arrivava a questi gesti estremi, quando si faceva vincere dal dolore... qualcosa dentro di me si spezzava.

Era un male che mi scavava dentro, che prendeva a grosse manate pezzi del mio cuore.

«Arthur, mi fai male.» Quelle parole basse e cariche di supplica mi pizzicarono la nuca, scivolandomi sulla schiena come un cubetto di ghiaccio. Chiusi gli occhi, li strinsi, cercando di ricordarmi il perché ero lì. A volte lo dimenticavo. A volte la sua presenza sovrastava tutto e mi perdevo.

Giusto un attimo. Giusto un istante. Poi tornavo in me e ricordavo.

Fratelli. Siamo fratelli. Nulla di più.

La mia mano si chiuse ancor più sulla sua, affondando le unghie nel suo palmo. La sentii tremare e fu come se quella scossa mi venisse trasmessa perché mi ritrovai a mia volta tremante.

«È ironico che ora te ne lamenti, no?» la voce mi uscì bassa, ruvida, crudele. Un tono che a volte le riservavo senza preoccuparmi del turbamento che riusciva a causarle. Era così tra noi, un ferirsi e un leccarsi le ferite continuo. In realtà non ero quasi mai arrabbiato con lei. Più con me stesso e i miei pensieri osceni, che non mi davano tregua, che mi tormentavano. «Non è quello che vuoi? Non è il dolore che cerchi?» Smaniò contro di me, sotto di me. Così premuta contro quella finestra che sembrava me la stessi scopando.

Pensarlo mi fece trasalire.

Indegno. Indecente. Disgustoso. È tua sorella. Tua sorella.

La voce della mia coscienza mi sciorinò la solita manfrina che mi ripetevo tutti i giorni.

È mia sorella. Mia sorella.

Mia... ma anche sorella. Niente più.

Il viso le si era completamente tinto di rosso, l'espressione angelica svanita, la bocca schiusa in un respiro pesante.

Era così bella da far male. Così delicata da potersi rompere da un momento all'altro.

La dovevo preservare. La dovevo trattare con cura. La dovevo... bé, la volevo...

E questo vile pensiero mi avrebbe accompagnato fino alla tomba, non mi avrebbe abbandonato.

Le cinsi la vita con il braccio libero, nascondendo il viso nei suoi capelli. Era un castigo, una costante angoscia questo nostro rapporto che non andava né avanti né indietro ma restava incagliato lì, a ferirci, a distruggerci. «Sono stanco di preoccuparmi, stanco di fare incubi, stanco di soffrire e tormentarmi. Devi imparare a volerti più bene.» Lasciai la presa, afferrandole il viso con rabbia, obbligandola a guardarmi in faccia.

Doveva capire. Doveva capire come mi sentivo, se non completamente, almeno in parte. «Perché? Perché non riesci a capire quanto sei importante per me, eh?» quanto... quanto ti amo.

Ma quello non glielo dissi, rimase incastrato in gola, come un boccone troppo grosso per essere digerito. Eppure restava lì, in eterno, come se aspettasse il momento buono per uscire o soffocarmi definitivamente.

Mi rivolse uno dei suoi sguardi arrabbiati, si tirò indietro finchè non sfuggì alla mia presa e posò la fronte al vetro. I capelli le calarono sul viso a nasconderla. «Sono – sono stanca, Arthur. Va' in camera tua e lasciami riposare.»

Liquidato. Liquidato come se fossi uno qualsiasi.

Sentii il sangue ribollirmi nelle vene.

Sapeva farmi incazzare come nessun altro. Aveva questa capacità innata di farmi perdere completamente le staffe, di accendere la miccia della mia impulsività, di smuovere la mia bestia.

Perché?

Perché mi cacciava con così tanta facilità?

Perché quando pensavo di fare un passo avanti ne facevamo uno indietro e in direzioni opposte?

L'afferrai per i polsi, bloccandola tra me e la finestra, lasciando che si ribellasse con debolezza e che ricordasse a entrambi cosa suscitava quella vicinanza. Io lo sentivo, almeno. E cresceva, cresceva indecentemente e senza permesso tra le mie gambe.

E questa parte di me, così riprovevole e oscena mi faceva sentire sporco, peccatore. E più me ne allontanavo, più la rifiutavo, più mi piombava addosso schiacciandomi con quel peso che sembrava non darmi scampo.

«Lasciami, Arthur! Ti ho detto di lasciarmi.»

Non volevo. Perché se lo avessi fatto si sarebbe tutto chiuso lì, ancora. E saremmo di nuovo tornati noi, e avremmo ancora posato il coperchio su quel pentolone ormai tracimante di sentimenti.

«No. Anzi, adesso ti giri e mi guardi. Adesso parliamo. Parliamo di tutto e per bene.»

«E per dirci che cosa? Che mi vuoi bene ma non mi ami? Che la mia condizione ti addolora come fratello? Che vorresti il meglio per me?»

Digrignai i denti e l'aria mi uscii in un sibilo doloroso.

Perché? Perché mi faceva questo?

Perché le sue domande riuscivano a graffiarmi il cuore?

Avrei voluto dirle molto altro, prostrarmi ai suoi piedi e chiederle perdono per tutte le volte che l'avevo ferita, perdono per tutte quelle volte in cui l'avevo allontanata. Ma non potevo.

Non potevo lasciare che questa barriera tra noi cedesse. Non potevo permettere che i miei sentimenti venissero a galla, che rivelassero quella parte di me che tanto rigettavo.

Non potevamo essere nulla più che fratelli. Continuavo a ripetermelo, come un mantra, un ritornello, una regola ferrea e imprescindibile.

Che vita poteva avere il nostro amore? Quanta umanità ci avrebbe tolto? Sì, certo... era accettato dal nostro popolo ma non dalla società umana. Per gli umani l'incesto era un abominio. E per quanto cercassi di non vederci nulla di male, una parte di me, quella che voleva essere solo un comune umano come tanti, rifiutava il sentimento struggente che provavo per lei.

Dannato! Peccatore!

Con un colpo di reni riuscì a liberarsi, la sentii sgusciare via e quando mi voltai verso di lei mi fissò con gli occhi colmi di lacrime, i pugni stretti e il corpo tremante.

Così fragile e forte. Così bella e così estremamente spaventosa. Mi distruggeva. Mi piegava.

Peccatore! Peccatore! Peccatore!

«Me le hai già dette queste cose. Me le hai dette per una vita intera, Arthur. Basta! Ora basta! Lo so. Lo so che non mi vuoi, okay?» Allargò le mani, esasperata. «Lasciami qui dove sono e va' a... a vivere la tua vita senza pensare a me.»

No, no, no. Non capiva.

Perché non lo capiva questo mio amore? Perché non capiva il tormento che provavo a starle a fianco senza poterla avere?

Era come restare a digiuno di fronte a un banchetto. Restare immobili a vedere tutto ciò che avresti potuto prendere ma senza poterlo fare.

Mi sentivo così: messo costantemente a dura prova, tormentato dai sensi di colpa, provocato affinché cedessi.

Così stanco, così al limite, sempre.

«E ora vattene!» gridò. «Fuori! Non – non voglio più vederti! Non per oggi per lo meno.»

No. No, Bröna. Non te lo permetto. Io non te lo permetto.

Qualcosa dentro di me collassò, cedette. Una catena, un argine, un muro... tutta quella merda di barriera tra noi. Si sgretolò fino a lasciarmi nudo di fronte alle mie emozioni. E vederla lì, con quella passione, quel furore, quella fragile forza; fece capitolare ogni mio buon proposito per essere il buon fratello che sarei dovuto essere.

Fu come gettare benzina sul fuoco, come alimentare una fiamma o prendersi a pieno petto una tempesta.

Con una sola falcata colmai la distanza che ci separava, afferrandole il viso tra le mani. Senza rendermene conto, come se il mio corpo seguisse un istinto naturale, le mie labbra si scontrarono fameliche contro le sue. Le aprii con forza la bocca, con la lingua, senza darle scelta, senza darle scampo.

Questo inferno avrebbe mangiato entrambi come io stavo mangiando lei.

Mi presi ciò contro cui avevo lottato e combattuto una vita intera, ciò contro cui mi ero sentito sbagliato e immorale. Fu estasi pura, fu tormento e passione. Le nostre lingue avide, le nostre bocche così perfettamente incastrate, i nostri respiri fusi in qualcosa di solo nostro; tutto così intenso e così sbagliato.

Quel bacio mi esplose dentro. Una bomba atomica che mi devastò senza lasciare brandello di razionalità, uno tsunami che travolge tutto senza eccezione alcuna. Mi devastò il cuore.

Barcollammo avvinghiati, mentre mi tirava la maglia, mentre le sue dita mi sfioravano la pelle lasciando una scia incandescente e io volevo sempre di più, sempre di più.

La spinsi contro il muro, tirandole i capelli, inclinandole la testa per affondare la mia lingua più dentro, più a fondo. Sentivo il bisogno di consumarci, fonderci e distruggerci. Lo sentivo crescere, corrodermi l'anima.

I brandelli del fratello corretto, ligio e a modo sembrarono cadermi ai piedi corrosi dalla mia colpa.

Si staccò per respirare e mi spinse via, barcollò di lato fissandomi stravolta. «Ma che diavolo ti prende, eh?» gridò, con il viso rosso e le labbra gonfie del mio peccato.

Ancora. Ancora.

Non ce la facevo più.

Ancora. Ne volevo ancora.

«Non lo vuoi più? Deciditi, Bröna. Decidi una buona volta, cazzo!» urlai, sentendo il corpo bruciare.

«Io? Decidermi, io? Ma se l'ho già fatto una vita intera fa. Quante altre volte te lo devo dire che ti amo per farti capire cosa provo?» Gridava. Si ravviò i capelli con entrambe le mani. Era un gesto che faceva spesso quando era agitata. Conoscere queste sue piccole abitudini, riconoscerle, saperle associare ai suoi stati d'animo mi faceva capire quanto a lungo l'avessi osservata. «Non sono mica un giocattolo che prendi e lasci quando non ti va. Ora sei scosso per quello che mi è successo. Sei – sei solo confuso.» Mi diede le spalle. Mi tagliò fuori. Ancora.

Ma questa volta era troppo tardi, ero caduto giù, divorato dalla mia stessa passione, scivolato in quel peccato che mi ero ripromesso di tenere a bada.

La afferrai per un polso obbligandola a girarsi verso di me. Aveva gli occhi spalancati e colmi di lacrime. Sentii una stretta al cuore. Avrei voluto essere i suoi sorrisi, i suoi momenti di gioia, le sue risa. E invece, sapevo solo darle questo.

«Hai ragione, sono scosso. Sono scosso perché ho paura di perderti, perché non so cosa fare con questi sentimenti che mi uccidono.» Aprì la bocca per parlare ma gliela tappai. «Sono scosso perché ti desidero con ogni fibra del mio corpo... in un modo così intenso e passionale da spaventarmi... con una brama così dirompente e distruttiva da spazzare via tutto ciò che ci sta attorno, compreso il buonsenso. È qualcosa che non ho mai provato per nessuna. Lo provo solo con te. Solo stando vicino a te. Però... però...» Scossi il capo, tormentandomi il labbro. «Questo amore... questo amore è sbagliato, Bröna... è inumano, animale... è la nostra parte mannara a spingerci a volerci così fortemente.»

Si strappò la mia mano dalla bocca e mi rivolse uno sguardo duro e carico di rimprovero nonostante il viso tinto di rosso per quella mia confessione. «Stai forse dicendo che non siamo in grado di discernere le nostre nature? Vuoi veramente sminuire così il mio amore per te?»

No, non volevo. E sapevo che aveva ragione.

Essere un leone, essere un mannaro... non aveva nulla a che fare con i miei sentimenti per lei, sbagliati o meno che fossero.

Mi devastavano, destabilizzavano; eppure, sapevo che erano veri, sinceri.

Abbandonai la fronte contro la sua spalla. Mi sentivo morire. Temevo che il mio cuore prima o poi non avrebbe retto il peso di quell'amore crudele. «Cosa devo fare, Bröna? Come posso essere un buon fratello se ogni volta che ti sto vicino non penso ad altro che a farti mia?»

«Sei crudele... perché sai la mia risposta.»

Sì, la sapevo. E forse era proprio per quello che glielo stavo chiedendo. Una sorta di tacito consenso, il permesso a lasciarmi andare, a prendermi una tregua, a peccare insieme.

Volevo cadere in tentazione. Volevo macchiarmi di questo peccato.

Volevo macchiarmi di lei. Macchiare lei di me.

Spostai il viso dalla sua spalla e senza resistere lasciai scivolare la lingua su una sua clavicola, sul suo collo, risalendo per la mandibola, baciandole e mordendole il mento. Sussultò, stringendo la maglia a lato dei miei fianchi, chiudendo gli occhi e respirando sempre più forte.

Devastante. Intenso. Stupefacente. Eppure corrotto.

«Fermami, Bröna... ti prego, fermami.» Le mie mani si muovevano incontrollate sul suo corpo mentre la mia bocca tornava sulla sua come la giusta combinazione di tutti i nostri problemi. Combaciavamo alla perfezione, come se fossimo nati per non essere d'altri che di noi. «Bröna... Dio, fermami.»

«Dopo tutte quelle cose che mi hai detto? E come potrei? È una vita che ti aspetto, Arthur» bisbigliò labbra contro labbra, in un respiro che diventava mio.

Dalla gola mi uscì un ruggito bestiale, un bisogno primitivo e sessuale di farla mia.

La afferrai per le natiche sollevandola di peso.

Si lasciò sfuggire uno strillo, allacciandomi le braccia al collo. Sentirla premere così a lungo e tenacemente contro il mio corpo spense anche l'ultimo bagliore di incertezza, spense tutto.

Ma dentro... dentro mi si accese un fuoco impossibile da estinguere.

La spinsi sul letto e rimasi immobile per un attimo a guardarla, a bere ogni dettaglio, a divorarla con gli occhi.

Era perfetta.

Tutto era perfetto e perfettamente sbagliato.

E io tremavo come un ragazzino alla sua prima volta.

Avevo la salivazione assente, il respiro affannoso, il cuore che batteva a un ritmo incontrollato e i palmi sudati.

Senza contare l'erezione che mi tormentava, che non mi dava pace, che cresceva e spingeva stretta nei boxer fino a farmi male, fino a togliermi il respiro.

Quell'uccello indecente e osceno che diventava duro al solo pensiero di scoparsi sua sorella, che fremeva con perversione alla sola idea di affondare dentro di lei, di farla sua.

Dannato! Peccatore!

Bröna accennò un sorriso timido, era imbarazzata. Eccitata e imbarazzata. Perfetta e pura. E io la stavo per macchiare, stavo per riversarle addosso quegli anni di assillo e tormento, di voglia e brama incontrollata.

«Se mi guardi così mi fai arrossire» disse e come in ascolto di quelle parole le sue gote presero colore.

«È che...» Sentii il viso andare in fiamme.

Dannazione! Stavo perdendo il coraggio?

Sì e no.

Il fatto era che non avevo idea da dove partire. Come se fossi alle prime armi o un amante alla sua prima scopata.

Mi girava perfino la testa.

Bröna mi allungò la mano e quando gliela strinsi mi tirò sul letto.

Le crollai quasi addosso ma sgusciò via dalle mie braccia e con una spinta mi obbligò a mettermi giù, steso comodo a pancia all'aria.

La tensione che mi travolse crepitò nell'aria con uno schiocco di potere non trattenuto a dovere. Bröna accennò un sorriso e con le dita iniziò a disegnarmi un percorso sulla camicia, con deliberata lentezza, slacciando ogni bottone che incontrava lungo quel cammino che sembrava più una tortura. Quando raggiunse i pantaloni li toccò piano, esitò giusto un attimo e infine lasciò correre tutta la mano sulla cerniera. A palmo aperto, stringendo debolmente la mia erezione che si contrasse nella sua mano.

Mi inarcai istintivamente e dalla bocca mi uscii un gemito che si perse in un respiro rumoroso.

Piacere e dolore. Paradiso e inferno. La salvezza e la rovina. Riuscivamo a essere questo l'uno per l'altra.

La guardai mentre armeggiava con la zip e il bottone, aprendo prima uno e abbassando subito dopo l'altra.

Non c'era più via di scampo. Non c'era più dietrofront.

Ero spacciato.

Quell'amore aveva vinto. Mi aveva sconfitto.

Senza darmi tempo per prepararmi psicologicamente Bröna infilò una mano nei boxer e per la prima volta in tutta la mia vita temetti che sarei venuto molto prima dei tempi canonici.

La sua morbida e delicata mano lo accarezzò e lo cinse interamente, scoprendolo dall'ingombro dell'intimo e mostrando quanto spudoratamente fossi attratto da lei.

«Oh, caspita...» borbottò facendomi arrossire. Abbandonai la testa sul letto, godendo di quel tocco, di quella mano che si muoveva piano e stringeva forte.

Peccatore! Peccatore!

Eppure, non c'era colpa che avrei preso più volentieri, che avrei commesso con più passione e devozione.

«Sai, ho visto dei porno...» disse, spiazzandomi.

Mi sollevai sui gomiti fissandola sorpreso. In realtà una parte di me era sordamente gelosa che guardasse altri uomini.

A tutti gli appuntamenti a cui l'avevo spedita perché "andava fatto" facevo in modo di farmi trovare nei paraggi. Patetico.

Davo la colpa al fatto che ero un fratello apprensivo per via della sua salute cagionevole. La interrogavo fino a sviscerare il minimo dettaglio di quegli appuntamenti.

In realtà, ero solo geloso. Geloso che altri potessero vivere qualcosa che io non avrei mai potuto vivere.

Si abbassò piano, incastrando gli occhi nei miei e quando tirò fuori la lingua leccando la punta per poco non schizzai via come una molla.

La contrazione che mi scosse mi fece quasi piegare in avanti. Dalla bocca mi uscì un ringhio animale e affondai la mano nei suoi capelli, trattenendola con un pizzico di prepotenza.

I nostri occhi si legarono di nuovo, connessi fin dentro l'anima.

La mia Dea. La mia distruzione. Il mio peccato. La mia passione devastante.

«Posso, vero?» una richiesta così genuina da strapparmi un ansito. Lasciò muovere la lingua tutta attorno alla punta, più e più volte fin quanto non mi vide tremare e poi lo prese tutto in bocca.

Lentamente, come se gustasse ogni centimetro del mio corpo, come se mi mangiasse.

«Sì, di più» mi ritrovai ad ansimare, mentre prendeva ritmo, mentre le sue labbra si chiudevano attorno al mio uccello e la stanza si riempiva del suo succhiare.

Annientato. Distrutto. Spezzato. Perso.

Le lasciai i capelli, attanagliai il lenzuolo, ringhiai affannosamente mentre lo prendeva con un trasporto che riusciva a ridurmi a brandelli, a farmi scendere nell'inferno e farmi tornare su.

Qualcosa di paradisiaco, di infernale, che mi strappava dalla realtà, che mi gettava in un altro spazio e universo dove potevamo amarci senza sentirci sbagliati, che mi piegava e sottometteva a questo piacere.

La mia Dea. La mia distruzione. Il mio peccato. La mia passione devastante.

«Oh, Bröna... Bröna... Bröna...» Sembrava un canto, una supplica, una preghiera. Mi contorcevo sotto di lei, mi perdevo, mi sgretolavo nella sua bocca.

Continua. Ti prego, continua. Di più.

Il mio cervello non pensava ad altro.

Lo sfilò di bocca rivolgendomi un sorriso malizioso, così pieno di lussuria che dovetti ricorrere a ogni briciola di autocontrollo per non venirle addosso.

Dannato! Peccatore!

La mia Dea. La mia distruzione.

Si portò due dita alle labbra. «Co – come sto andando? Ecco... è il mio primo... cioè... è la mia prima volta. Tu, sei sempre la mia prima volta.» Divenne rossa.

Il cuore mi trottò in petto come un cavallo imbizzarrito.

L'acciuffai per un braccio, tirandomela addosso, a cavalcioni. «Vieni qui, cazzo!»

Dov'era finito l'Arthur severo? Quello equilibrato? Quello che teneva alto il muro? Quello che metteva distanza tra noi?

Io non lo sapevo più.

Sapevo solo che sotto il suo corpo sentivo di trovare un senso, un posto giusto. Così tanto giusto che nemmeno il peso di quel peccato mi scalfiva.

Si abbassò baciandomi, tirandomi il labbro con i denti e dondolando sulla mia erezione ancora non estinta.

No. Non ero venuto.

La mia mente era bombardata da talmente tanti progetti per quella notte che mi sembrava sprecato venire subito.

«Sei bellissimo» Bisbigliò contro il mio collo, facendomi rabbrividire. «Lo sei sempre stato... ma con questa espressione... Dio, Arthur... non avrei mai pensato potessi fare una espressione così.» Si mosse ancora un po'.

Una tortura. Un tormento. Un piacevole e crudele castigo.

Il mio uccello si contrasse sotto di lei, sotto quei strofinamenti crudi come la brama che ci stava travolgendo. Lo sentii tendersi, smaniare per trovare la strada tra le sue cosce, per entrarle dentro rudemente e senza alcuna cortesia.

La desideravo così tanto da volerla scopare fino a farle male, fino a distruggere entrambi.

La mia Dea. La mia distruzione. Il mio peccato. La mia passione devastante.

Si mandò i capelli indietro e passò la lingua sul mio collo, sul petto, chiudendo tra le labbra prima un capezzolo e poi l'altro. Il mio corpo si tese, tutto di me si tese.

Lasciavo che giocasse con me, che si prendesse tutto. Le permettevo di far ciò che voleva.

Suo. Ogni brandello di me lo era.

Distruggiamoci insieme. Pecchiamo insieme.

«Se vuoi che mi ferm-» Le chiusi la bocca con la mia, la spinsi sul letto borbottando delle scuse che si persero nei nostri baci.

Indossava una vestaglia che le avevo regalato. Era così bianca che si confondeva con la sua pelle.

Le arrivava fino al ginocchio e sul davanti poteva aprirsi completamente grazie a una trafila di bottoni a forma di piccoli cuori rosa.

Era una delle mie preferite e anche delle sue. Non ce lo eravamo mai detti ma lo capivo dalla frequenza con cui la indossava.

Le passai una mano sul collo e la lasciai scivolare nello scavo del colletto, pizzicando il primo bottone. Guardarla mi privava della lucidità che avrei dovuto mantenere almeno in questa occasione visto che era la sua prima esperienza.

Prima.

Rabbrividii. Un feroce istinto di possesso mi attraversò interamente.

Sarei stato la sua prima e unica esperienza. Perché non avrei permesso a nessun altro di toccarla, men che meno possederla.

Mia. Solo mia.

La mia Dea. La mia distruzione. Il mio peccato. La mia salvezza.

Le afferrai il viso e tornai a baciarla. La sua bocca era dolce e morbida come miele, aveva il sapore dolciastro di qualche caramella da poco consumata e un retrogusto selvaggio tipico di noi mannari.

Il primo bottone si aprì, vittima delle mie mani impazienti.

E subito seguì anche il secondo e il terzo.

Mentre la tormentavo con lingua e denti, mordendole le labbra e giocando dentro la sua bocca fino a farla impazzire, l'occhio mi cadde sul lembo di corpo appena scoperto e senza volere mi bloccai.

La vestaglia semi aperta la spogliava fino all'addome. La pelle sembrava porcellana, tranne i capezzoli che erano di un rosa più scuro.

Non aveva il reggiseno.

Fu istintivo. Automatico.

La mano mi scattò a raccoglierle a coppa un seno. Il mio palmo le conteneva perfettamente, quasi fossero nate per stare tra le mie mani, per essere toccate solo da me.

Mi abbassai a baciarle il petto e infine presi un capezzolo in bocca, lo succhiai; mentre l'altro veniva stretto e tormentato dalle mie dita.

Bröna gemette, tappandosi subito dopo la bocca.

«Oh, no... non mi priverai della tua voce che gode» la rimproverai, vedendo che arrossiva.

«Ma ci possono sentire.»

«Non me ne frega un cazzo.»

Mi ero smarrito. Avevo smarrito la via. E ora era impossibile per me tornare indietro.

Abbiate pietà di questa anima.

Le aprii altri due bottoni della vestaglia, perdendomi nei baci sul suo ventre piatto. La mano scese giù tra le sue cosce e sentire gli slip completamente bagnati d'eccitazione mi riversò addosso una scarica di desiderio e possesso che mi fece perdere il senno.

Mia. Mia. Solo mia.

Con urgenza le aprii del tutto la vestaglia, sfilandole gli slip quasi con uno strappo.

Volevo scoparla, affondare in lei, sentire il suo orgasmo contrarsi direttamente attorno al mio uccello.

Volevo amarla, consumarla, mostrarle la mia devozione, la mia adorazione.

Le allargai le gambe facendo scorrere due dita in mezzo, piano come se stessi toccando un fiore o del cristallo.

Così bagnata. Così pronta. Così terribilmente pronto anche io.

Sentii un fremito scuotermi da cima a fondo quando le mie dita entrarono in lei.

Calda, bollente, bagnata.

Come si poteva essere così perfetti? Così sensuali?

Come si poteva annichilire un uomo a questa maniera semplicemente essendo se stesse?

«A - Arthur» ansimò con il tono di un gattino, contorcendosi contro la mia mano mentre le lasciavo scivolare dentro e fuori le prime falangi. Si aggrappò alla stoffa della mia camicia, sollevando il bacino. «Arthur, ti prego...» mi supplicò, guardandomi con quegli occhi liquidi e saturi di desiderio, con quelle gote arrossate e il respiro affannato. «... di più.»

Sapeva come mandarmi a tappeto, come distruggermi.

Affondai ancora le dita, completamente. Le mossi fin quando non la vidi tremare. Quando le sfilai me le portai alla bocca, assaporandola in un modo che non avrei mai creduto possibile.

Buona. Perfetta. Assolutamente perfetta.

«Farà male, Bröna... lo sai, vero?» Volevo assicurarmi che sapesse a cosa andava incontro, che fosse preparata.

Non avrei fatto nulla che l'avesse turbata o spaventata. A costo di sbattere la mia libido tra due mattoni.

«Lo so... ma se sei tu... non ho paura.»

Capitolai ancora. Il mio cuore capitolò, la mia anima, la mia morale.

L'afferrai per le cosce posizionandomi in mezzo e lentamente lo strofinai sul suo sesso, finchè non mi agguantò per i fianchi con le gambe, tirandomi verso di sé. E allora, il tatto che stavo cercando di usare andò a farsi fottere e le entrai dentro con una spinta.

Sfuggì un gemito a entrambi.

Stretta. Dannatamente, oscenamente stretta.

D'altronde era la sua prima volta.

Bollente, bagnata. E io già sull'orlo dell'orgasmo. Sentivo l'uccello fremere pronto per venire.

Dannazione! Dannazione, Bröna... cosa riuscivi a farmi! Come riuscivi a ridurmi!

Aspettai un attimo prima di muovermi, per darle tempo di adattarsi a me anche se le sue unghie conficatte nella schiena erano quel silenzioso ma vivo modo per farmi capire che era pronta, che mi voleva.

Quando iniziai a muovermi compresi che con lei era tutto diverso.

Avevo già fatto sesso milioni di volte con le ragazze, ma non così. Non con questa intensità. Non con questo trasporto.

Ogni affondo dentro di lei, ogni volta che mi perdevo tra le sue gambe... sentivo crescere questa consapevolezza, questa connessione.

Eravamo di più. Eravamo terra e cielo. Eravamo bianco e nero. Eravamo salvezza e perdizione. Il paradiso e l'inferno.

Così distanti, così lontani; eppure, ci completavamo. Complementari. Perfetti nella nostra imperfezione.

«Dio, Bröna... Dio.» La baciai, ammutolendola nel mezzo di un gemito. «Ti amo. Dio, quanto ti amo... ti amo, Bröna... ti amo da morire, da impazzire.»

E la prendevo. La prendevo come avrei voluto fare ogni volta vicini. Ogni attimo insieme.

La facevo mia con una tale intensità da sentirmi morire ogni volta che uscivo e rinascere ogni volta che le tornavo dentro.

«Ti amo. Ti amo anche io, Arthur» rispose lei, baciandomi ancora e ancora e ancora; spingendomi ad aumentare il ritmo, piegando il mio controllo, piegandomi al suo controllo.

Ero suo schiavo. Suo prigioniero.

Vittima del suo fascino, della sua purezza, del suo amore.

Preda del mio, di amore. Succube del mio desiderio.

«Merda, Bröna... merda.» Lo sfilai e la obbligai a girarsi, a piegarsi in avanti, ad allargare le gambe. Un istante. Un istante ancora e sarei venuto.

Mi posizionai dietro di lei e la presi così, di nuovo, senza pietà.

Attorcigliandomi i suoi lunghi capelli intorno alla mano le tenni la testa tirata indietro mentre affondavo in lei così profondamente da non saper più come potevamo essere capaci, dopo quella notte, di essere ancora due corpi e due anime singole e distanti.

Seppi che stava per venire quando iniziò a tremare, arpionò il lenzuolo e gridò il mio nome più e più volte. Sentirlo uscire da quelle labbra durante un orgasmo era una delle cose più erotiche a cui avevo mai assistito.

Nulla sarebbe più stato lo stesso dopo quella notte. Io, non sarei più stato lo stesso dopo quella notte.

Ora che avevo assaggiato questo piacere, questo totale abbandono, questa perfetta sincronia; non avrei mai più vissuto il sesso in altro modo. Non l'avrei mai più visto con gli stessi occhi... perché ora nei miei occhi c'era solo lei.

Le contrazioni mi spezzarono il fiato, mollai la presa sui capelli afferrandola per i fianchi e mentre sentivo la bestia risalire sprofondai in lei mentre veniva.

Due, tre, quattro volte. E più. E più.

Perdiamoci insieme. Pecchiamo insieme.

Con il respiro che mi usciva dalle labbra quasi in un grugnito.

«Mia. Mia. Mia» gridai, godendo di quel rumore fatto di sesso, fatto di me che la prendevo.

La tirai indietro lasciando che poggiasse la schiena al mio petto, raggiungendole la bocca famelicamente, ansimandole contro come il peggiore animale.

Baci rudi, violenti, fatti di desiderio e rabbia, fatti di possesso e dolore.

E mentre lo sentivo tendersi dentro di lei, mentre lo sentivo contrarsi pronto per venire, la bestia risalì a galla dal profondo dei miei istinti.

«Mia. Tu sei mia. Solo mia» ringhiai, mentre l'orgasmo mi coglieva impreparato e tutte le emozioni traboccavano da me come se non riuscissi più a contenerle. Come se non ci fosse più posto per le bugie. Nudo di fronte alla realtà.

Il denso potere dei King si riversò fuori dal mio corpo sia in senso figurato che letterale, riempiendola, marchiandola.

Il marchio del possesso le si impresse addosso inchiodandola a me mentre l'orgasmo devastò entrambi.

L'avevo marchiata. Mia.

La mia Dea. La mia distruzione. Il mio peccato. La mia passione devastante.

Perché sarei potuto scappare in eterno dalla realtà ma non avrei mai potuto cambiare le cose: Bröna era mia. Solo mia.

E io, ero suo... solo suo.

〰️〰️〰️

Arthur si sollevò di scatto a sedere sul letto. Il corpo madido di sudore, il respiro affannato che usciva rumorosamente, le dita artigliate sul lenzuolo.

Si passò le mani tremanti nei capelli. Fradici, incollati alla nuca.

«Ancora. È successo ancora...» ansimò, sconcertato.

Questo era uno dei sogni che più lo turbavano e gli facevano perdere sonno. In maniere diverse, con scenari e dinamiche diverse ma con lo stesso risultato finale.

Gli capitava con una certa frequenza. Da anni. Da quando Bröna si era dichiarata e lui era scoppiato a ridere istericamente scaricando in quel gesto imbarazzo e tensione.

Succedeva soprattutto in periodi di stress, soprattutto quando dormiva solo, soprattutto quando Bröna stava male o faceva gesti irrazionali come l'ultimo appena fatto.

Sentiva i muscoli un fascio di nervi, brividi a corrergli su e giù per il corpo.

Piegandosi in avanti prese fiato, ravviandosi ancora i capelli.

Solo dopo un attimo di esitazione sollevò il lenzuolo, per controllare sotto. Anche se non ne aveva il coraggio, anche se avrebbe preferito non sapere.

Rimase in silenzio di fronte al suo corpo nudo, di fronte a quella reazione che ogni volta lo spaventava e lo gettava in un limbo fatto di pensieri cupi e tormentati.

«Merda. Merda. Merda.» Si coprì con le mani il volto e ricadde indietro sui cuscini. «Oh, Bröna... Bröna... Bröna.»

Si era venuto addosso, di nuovo.

E lo aveva in erezione, ancora.

Allargò le braccia e fissò il soffitto.

E ora chi sarebbe più riuscito a dormire?

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