CAPITOLO 9

Marlene entrò in casa chiudendosi la porta alla spalle come un tornado. Con una furia inaudita lanciò le chiavi dell'appartamento davanti a sé prorompendo in un grido rabbioso.

«Vaffanculo!» urlò dando un calcio al mobiletto vicino all'entrata.

Peanut badò bene dal non farsi trovare nel raggio della sua ira.

La ragazza camminò furiosamente per la stanza, gli occhi le diventarono di un blu brillante sintomo di un cedimento nella schermatura. Fece un respiro profondo artigliando lo schienale del divano. Doveva calmarsi.

Non capiva perché quello che aveva visto la faceva arrabbiare così tanto eppure si sentiva incendiare di rabbia.

Amos White, il suo paziente, stava bellamente copulando con una non-so-chi nel privè del suo locale preferito.

Vederlo in quegli atteggiamenti intimi con una bellissima donna le fece crollare tutti i castelli che si era fatta quella mattinata su di lui. Si morse nervosamente il labbro e scosse la testa. Che sciocca che era stata, lo aveva visto per qualche minuto nell'ospedale e aveva dato per scontato che fosse single e disponibile. Forse era stato il suo atteggiamento ad averla fuorviata, forse la sua voce dannatamente sensuale e allusiva.

Che cosa sei?

Quella domanda l'aveva tormentata tutto il giorno. Stupidamente aveva pensato che magari lui potesse capirla, senza giudicarla o peggio sbranarla. Aveva pensato che visto che era riuscito a sentire la sua diversità magari avrebbe potuto gettare la maschera, almeno con lui.

Aveva così bisogno di essere semplicemente se stessa.

Gli occhi le tornarono nuovamente blu scintillante. «Vaffanculo!»

Non poteva credere di essersi fatta tutti quei viaggi su una persona che non solo non conosceva ma che aveva visto per qualche minuto al massimo.

Improvvisamente scoppiò a ridere da sola.

Rideva di se stessa. Cosa le passava per la mente?

Dalla borsa un fischiettio le comunicò l'arrivo di una notifica. Marlene si ricordò solo in quel momento che aveva abbandonato Victoria nel mezzo della serata. Subito si apprestò a risponderle con un messaggio di scuse e si inventò un finto malessere.

Amos White. Ecco qual'era stato il suo malessere.

Ma che le era preso? Era stato giusto un attimo di follia, ora si sentiva meglio. Si sentiva più lucida e cosciente, ma soprattutto comprendeva che il precedente comportamento era a dir poco assurdo.

Rise ancora.

Aver una crisi isterica per uno sconosciuto non rientrava nelle cose che si sarebbe aspettata di fare. Anche se... si trattava di uno sconosciuto per niente male.

Si strofinò il viso con esasperazione. Era stata una giornata stressante, a partire dal turno di lavoro a finire con la cena con Nick che era andata un vero schifo.

Non si biasimava se aveva fatto qualche vaneggiamento su quel gran fico di Amos White, insomma... erano anni che non aveva una relazione e non rivelava la propria natura. Era seccante.

Una volta che la stanchezza prese il sopravvento, Marlene cercò con lo sguardo Peanut e dopo averla recuperata si stese sul divano. «Scusa se ti ho fatto spaventare.» Le posò un delicato bacio sulla testa e la gatta si accoccolò tra le sue braccia iniziando a far le fusa.

Socchiuse gli occhi lasciandosi sfuggire un sorrisetto divertito. Certo che quel Amos l'aveva colpita parecchio per farla sclerare in quella maniera. Ridacchiò ancora.

Stava per crollare in un profondo sonno ristoratore quando il cellulare prese a squillare con insistenza.

Allungò una mano cercandolo a tastoni. «Che palle.» Quando lo strinse tra le dita rispose prima ancora di mettere a fuoco il numero. «Pronto? Chi è?»

«Marlene Powell?»

La voce di una collega la svegliò completamente. Si tirò su a sedere sul divano e imprecò mentalmente. Sapeva già cosa le aspettava. «Sì, sì... sono io, Leni. Che succede?»

«Ti ho svegliato, vero?»

«Circa.»

«Cavolo, mi dispiace Marr... è solo che qua siamo un po' incasinati e il Dottor Hatcher ha detto di convocarti per un turno extra.»

Marlene si morse il labbro. Se da una parte aveva dannatamente bisogno di straordinari, dall'altra si sentiva esausta. «Datemi un'oretta e sono lì.»

«Lo sapevo che eri un amore, Marr. Abbiamo la sala d'attesa piena, baci.» Chiuse la chiamata senza darle tempo di ribattere.

Ancora Marlene doveva capire con che criterio i piani alti avessero deciso di tagliare il personale. Già così erano in difficoltà, se avessero licenziato altri dipendenti i pazienti si sarebbero dovuti curare da soli.

Con la coda dell'occhio fissò l'orologio a muro. Erano le tre e mezza di notte. L'attività nel St. John Hospital & Medical Center, non mancava mai. Era sempre un via vai di pazienti dai più disparati casi clinici.

Allungò le braccia sulla testa e fissò Peanut. «Tu sì che hai capito tutto dalla vita.» La gatta in tutta risposta miagolò stendendosi a pancia in su.

Svogliatamente si alzò dal divano e si diresse al bagno. Con le mani a coppa si lavò il viso con dell'acqua fresca. Aveva bisogno di essere al cento per cento sveglia per guidare fino all'ospedale.

Se l'avevano chiamata per un supporto extra, sarebbe stata una nottata da urlo.

Afferrò svogliatamente la borsa e ricordandosi di aver lanciato le chiavi di casa chissà dove le iniziò a cercare tra uno sbuffo e un altro. Quando le trovò sotto la televisione tirò un sospiro di sollievo.

Era ora di andare. «Cerca di fare la brava, eh!» disse a Peanut che era saltata sullo schienale del divano quasi volesse salutarla.

Prima che ci ripensasse, Marlene uscì di casa chiudendosi la porta alle spalle e scese di fretta i tre piani di scale.

Quando montò in macchina si concesse una lunga occhiata nello specchietto retrovisore. Aveva una faccia stravolta e le occhiaie. Questo era il quarto straordinario che le chiedevano di fare quella settimana. Si sentiva a pezzi.

Ingranando la marcia si immerse nel tenue traffico di Webb Street, la via in cui abitava, per poi svoltare sulla destra imboccando la Hamilton Avenue. Casa sua distava dall'ospedale giusto una trentina di minuti. Senza traffico, ovviamente.

Per evitare un colpo di sonno, afferrò un chewingum dalla borsa e infilandoselo in bocca lo iniziò a masticare energicamente. La botta di menta fresca le diede un'ulteriore scossa. Ora era completamente sveglia.

Era arrivata nei pressi del Chandler Park quando un movimento ai margini della strada attirò la sua attenzione. C'era qualcosa che si muoveva velocemente nel parco. Marlene rallentò allungandosi contro il finestrino per cercare di veder meglio. Il buio era così fitto che a malapena scorgeva le linee definite degli alberi.

La carreggiata nel quale guidava era completamente vuota, non provenivano macchine né dalla sua parte né dalla direzione opposta.

Improvvisamente un'enorme bestione sbucò dal fitto buio del parco. I fanali dell'auto della fata lo abbagliarono e l'essere si immobilizzò in mezzo alla strada. Un muso ricoperto di una folta pelliccia marrone sormontato da un solo occhio sano la stava fissando ferocemente.

Il gigantesco orso proruppe in un grugnito terrificante. Marlene lanciò un grido terrorizzata e per paura di investirlo inchiodò, l'auto si fermò dopo uno sbandamento nel mezzo della corsia opposta.

Con il cuore che le batteva a mille e il respiro veloce, la giovane si guardò attorno alla ricerca della bestia. Dell'orso non ce n'era l'ombra.

Tremava dalla testa ai piedi. Non aveva mai visto un orso prima d'ora. Non stava vaneggiando. Era sicura di averlo visto.

Un brivido le attraversò rapido la schiena quando posò la mano sulla maniglia della portiera. Voleva uscire giusto un attimo per assicurarsi che l'auto fosse a posto poi sarebbe risalita e se la sarebbe data a gambe levate.

Quella bestia poteva essere ancora là fuori, incazzata e in agguato. Non era sicura che stava facendo la scelta giusta.

Non appena aprì lo sportello, il vento gelido della notte le schiaffeggiò il viso. Marlene si strofinò le braccia prima di scendere dall'auto.

Quando arrivò davanti ai fanali notò che tutto attorno era deserto e dell'orso non c'era traccia. Meglio così a dire il vero. Non lo aveva colpito e sicuramente era scappato.

Si voltò verso l'auto per risalire quando un urlo agghiacciante ruppe il silenzio della notte. Un urlo umano. La giovane si portò le mani al petto per evitare che il cuore le esplodesse dallo spavento poi si fissò attorno cercando di capire la direzione da cui era provenuto il grido. Subito altri lamenti si susseguirono uno dietro all'altro. Ringhi e bramiti le fecero accapponar la pelle. Forse era meglio andare.

Corse all'auto e si chiuse dentro, accese il motore e partì a tutta velocità diretta all'ospedale. Non si voltò nemmeno una volta, tanto che era sconvolta.

Arrivò al St. John Hospital qualche minuto più tardi. Si precipitò dentro lo stabile con ancora il cuore che le pompava a mille in petto e non appena si accorse che era in un luogo sicuro e familiare, si lasciò sfuggire un sospiro tremulo e si rilassò. Sentiva le gambe molli e gelatinose. Non sapeva com'era riuscita a guidar fin lì.

«Per fortuna che sei arrivata, Powell.»

Marlene si voltò per sorridere alla collega che l'aveva chiamata poco prima. «Ehi, Leni... sei ancora qui?»

La donna fece una breve alzata di spalle. «Staccherò più tardi. Non c'è nessuno che ci dà il cambio e c'è veramente bisogno di noi stasera.»

Marlene non poté far a meno di sollevare gli occhi al cielo. Nemmeno quella notte avrebbe dormito. Si sentiva così stanca che temeva di non riuscire a mantener la schermatura al cento per cento attiva. Sarebbe stato un grosso problema nel caso qualcuno l'avesse vista per com'era realmente. «Mi vado a mettere il camice.»

La collega le diede una delicata pacca sulla spalla e le due si divisero.

Al St. John Hospital i turni di notte erano i più pesanti e affollati. I pazienti sembravano un fiume in piena. A volte le infermiere erano costrette a lasciare barelle occupate nei corridoi. I medici non erano mai abbastanza.

Marlene si cambiò di fretta e quando uscì dagli spogliatoi, la routine del lavoro la sopraffece. Correva da una postazione all'altra, cercando di dar sollievo ad ogni paziente e trovando una parola di conforto per ognuno di loro.

Non sapeva come riusciva ad aver tanta positività da regalare, eppure le veniva spontaneo.

Il telefono squillò e subito Leni rispose. La donna si appuntò velocemente su una cartella alcune informazioni poi voltandosi verso gli altri li ragguagliò sulla chiamata. «Ragazzi, prepariamoci. Codice rosso. Uomo gravemente ferito. Arriveranno in cinque minuti.»

Subito il medico fece liberare una camera e insieme iniziarono a preparare tutto il necessario per accogliere l'emergenza.

Con il codice rosso si indicava un paziente molto critico che aveva bisogno di cure immediate. Non c'era tempo per pensare, bisognava agire velocemente in questi casi.

Le porte del Pronto Soccorso si aprirono con uno schianto e i paramedici entrarono trascinando una barella. Il medico si affrettò ad indicargli la stanza libera e trasportarono il ferito lì.

Marlene li raggiunse cercando di non interferire con le azioni del Dottor Hatcher.

«Cosa abbiamo qui?» domandò il medico osservando allarmato le ferite del paziente.

Uno dei paramedici rispose: «L'uomo ci ha detto di essere stato attaccato da un orso.»

Alla giovane tremarono le gambe e poco mancò che crollasse in terra. L'uomo che lottava tra vita e morte su quel lettino con ogni probabilità era lo stesso che aveva sentito gridare nel Chandler Park.

Cercando di mettere da parte il suo sgomento, si avvicinò per osservare meglio il paziente e rendersi utile al dottore come meglio poteva.

Il corpo dell'uomo era irriconoscibile. Aveva lunghe lacerazioni su tutta la lunghezza del torace che lasciavano in bella mostra gli organi interni. Un morso gli aveva tranciato la trachea e il gorgogliare del sangue era un chiaro sintomo che l'uomo stava soffocando.

Il medico afferrò delle garze cercando di comprimere i vari punti di emorragia. Aveva così tante ferite che era in un lago di sangue. Gli somministrò una massiccia dose di morfina e si voltò verso Marlene. «Powell, dobbiamo intubarlo.»

La voce del Dottor Hatcher la riportò alla realtà. Subito scattò afferrando tubo endotracheale e laringoscopio. Nonostante fosse sconcertata da quella presa di coscienza, non perse attimo per agire il prima possibile nel bene del paziente. Non c'era tempo. In questi casi, anche un solo secondo poteva fare la differenza.

Non appena li porse al collega, questo si affrettò ad eseguire l'operazione di intubazione dopodiché afferrò la barella per spostarlo. «Andiamo. Dobbiamo assolutamente trasportarlo in chirurgia d'urgenza.» Si voltò verso Leni per impartirle un nuovo ordine. In quei momenti non c'era tempo per convenevoli. «Avvisa l'equipe. Dobbiamo far un intervento.»

Marlene afferrò il lettino e correndo lungo il corridoio si diressero velocemente verso una sala operatoria di chirurgia. Il Dottor Hatcher continuava a comprimere i punti critici delle ferite, cercando di arrestare l'emorragia. «Forza, forza... sta andando in shock ipovolemico. Dobbiamo fargli subito delle trasfusioni.»

Quando approdarono nella sala, l'equipe di chirurghi era già pronta per intervenire.

A Marlene non faceva impazzire l'idea di assistere i chirurghi mentre operavano perché erano scorbutici e a volte frettolosi nel parlare, questo rischiava di farla commettere degli errori fatali. Il tempo lì era tiranno. Se al pronto soccorso le cose succedevano alla velocità della luce, in chirurgia accadeva tutto ancor più velocemente.

La giovane infermiera sudava freddo. Passava strumenti, aspirava il sangue e si impegnava di esser il più reattiva possibile alle richieste dei quattro chirurghi che stavano freneticamente cercando di arrestare le innumerevoli emorragie di quel corpo martoriato.

«Lo stiamo perdendo. I battiti stanno scendendo.»

Le operazioni dei medici si serrarono. Marlene osservava tutte quelle mani che si muovevano frenetiche cercando di arginare le lacerazioni. Quando riuscivano a chiudere una ferita, subito se ne riapriva un'altra. L'elettrocardiogramma lanciò il suo funesto fischio e subito il tracciato divenne piatto.

Uno dei chirurghi si voltò verso la macchina. «Sta avendo un arresto cardiaco.»

«Oh no, cazzo... non te ne andrai.» Il dottor Hatcher afferrò le due manopole degli elettrodi e azionò il defibrillatore. Quando liberarono la scarica elettrica sul petto dell'uomo, questo sobbalzò sulla tavola operatoria.

Hatcher strofinò le due manopole tra loro. «Ancora.» Gli rilasciò l'ennesima scarica elettrica e l'uomo venne nuovamente scosso dai tremiti.

«Ancora.»

Ma più sembrava aumentare il voltaggio, più l'elettrocardiogramma restava tenacemente ancorato su quella linea piatta.

«Dottor Hatcher.» un chirurgo lo afferrò per un braccio. «Dottore, non c'è più nulla da fare.»

Hatcher si voltò furiosamente e scoccò un'occhiata di fuoco al collega che lo aveva fermato. Non voleva darsi per vinto, non era da lui. Eppure i macchinari parlavano chiaro. Dopo un breve attimo di sconforto, fu costretto ad arrendersi all'evidenza. Si apprestò quindi ad accertare il decesso. Controllò sia la mancanza di respiro che di attività cardiaca e neuro-muscolare. Una volta appurato che nessuna di queste era funzionante, era chiaro che il paziente era morto.

La tensione scivolò via sostituendosi ad un'amara consapevolezza. Non erano riusciti a salvare quel paziente. Un lungo brivido freddo attraversò i presenti. Hatcher si tolse i guanti in un moto di stizza e li lanciò nel bidone lasciando la sala operatoria. Perdere un paziente era sempre una grossa sconfitta.

Un chirurgo posò delicatamente una mano sulla spalla di Marlene. «Ottimo lavoro.»

Già, ottimo lavoro. Peccato che ora su quel lettino ci fosse un cadavere.

Leni le si avvicinò con la cartella clinica e la modulistica necessaria per la dichiarazione di decesso. «Marr, ti occuperesti tu dei suoi effetti personali? I paramedici hanno lasciato un borsone all'entrata dicendo che era del paziente.»

Marlene si limitò ad annuire e uscì dalla sala operatoria con un grosso peso sul cuore. Continuava a mordersi il labbro inferiore fino a tormentarlo. Non era per nulla tranquilla dopo ciò che era successo.

Non solo si sentiva delusa per l'insuccesso del loro intervento ma in parte si sentiva anche colpevole per essere scappata quando magari avrebbe in qualche modo potuto aiutarlo. Si sarebbe potuta avvalere del suo potere di fata per scacciare l'orso che lo aveva aggredito e invece, era fuggita come una codarda.

Si coprì il viso con entrambe le mani e le sfuggì un singhiozzo. Non si sarebbe permessa di crollare proprio ora. C'erano ancora molti pazienti che avevano bisogno di lei e doveva terminare quello che le avevano assegnato di fare.

Tirando indietro le spalle e dandosi un leggero contegno, si spostò a cercare la borsa che gli aveva detto Leni. La trovò quasi subito. Un gigantesco borsone nero.

Quando l'afferrò il peso la tirò in avanti e mancò poco che gli cadesse sopra.

«Ma che diavolo c'è qua dentro?» borbottò tra se e se abbassandosi per aprirla.

Una volta tirata la zip restò a fissare il contenuto sgomenta. Armi.

Cercando di non toccarle aprì maggiormente la sacca e le analizzò da vicino. Non aveva mai visto quel genere di armi, le sembravano qualcosa di troppo elaborato per appartenere ad un semplice cacciatore che faceva una battuta notturna.

L'odore di sangue la investì con prepotenza. Il suo fiuto fatato venne schiaffeggiato da quel fetore.

Lavorando in un ospedale si era abituata a sopportare quel genere di odore. Praticamente quasi tutti i pazienti lo emanavano. Quello a cui però non era abituata era che l'odore appartenesse a creature sovrannaturali.

"L'uomo ci ha detto di essere stato attaccato da un orso", la frase del paramedico le martellò nella testa.

Un brivido la fece sobbalzare sconvolta. Si portò una mano tremante alla bocca e nell'allontanarsi scivolò in terra battendo il sedere.

«Marr, tutto okay?» Leni apparve alle sue spalle con il solito sguardo comprensivo. Non appena la vide seduta in terra e dall'aria sconvolta si apprestò a soccorrerla e l'aiutò a tirarsi in piedi. «Marr, tesoro... stai bene?»

«Quella sacca... è piena di armi.»

Leni si accigliò e subito si spostò per frugare al suo interno. Ad ogni movimento della borsa, una vampata di sangue soprannaturale si infilava con prepotenza nelle narici di Marlene. La fata cercò di non mostrarsi disgustata. Si tappò la bocca cercando di mitigare i conati di vomito. Se non avessero chiuso quel borsone, avrebbe vomitato.

L'uomo che era morto in sala operatoria, non era un brav'uomo come aveva inizialmente pensato.

Era un assassino. Uno dei peggiori.

Che senso aveva braccare le creature sovrannaturali e ucciderle?

Immediatamente il pensiero le andò ad Amos. Amos White, il suo provocante e lussurioso paziente.

Sicuramente in questo momento si stava divertendo sotto calde lenzuola ma l'idea che quel sangue potesse appartenere a qualcuno a lui caro, le mise un forte senso di oppressione e fu costretta ad appoggiarsi con entrambe le mani alla scrivania.

Leni si spostò dalla sacca dopo averla richiusa con disgusto. «Queste armi sono stranissime. Meglio chiamare la polizia. Non c'è nemmeno un documento... non credo che il nostro amico volesse far sapere chi è.»

«Dici che dobbiamo avvisare la polizia?»

La donna la fissò sorpresa. «Ma certo, Marr... cosa ce ne faremmo? Non son nemmeno sicura che questa roba sia legale.»

Leni afferrò il telefono e compose il numero del distretto più vicino. «Pronto? Si salve, chiamo dal St. John Hospital & Medical Center.» Ci fu un lungo attimo di silenzio. L'infermiera sollevò gli occhi al cielo e sorrise a Marlene prima di riprendere a parlare. «Sì? Ci sono ancora, sì. Vi ho chiamato perché abbiamo gli effetti personali di un paziente deceduto che credo sia il caso di dare a voi.»

Non avrebbero dovuto darle alle forze dell'ordine. Marlene era sempre più che convinta che quelle armi non riguardassero il mondo umano e che forse non sarebbero dovute finire nella mani della polizia. Si sarebbero create troppe domande e dubbi.

Alla mente gli tornò Amos. Forse le avrebbe dovute dare a lui. Se non si fosse impressionata e Leni non l'avesse trovata così, magari avrebbe avuto tempo per occultarle.

La voce di Leni la fece voltare in sua direzione. «Si tratta di un borsone con delle armi strane. Come? Sì, certo. Vi aspettiamo.» Chiuse la chiamata e si voltò sorridente verso Marlene. «Ci mandano un agente.»

«Perfetto.»

«Non ti vedo convinta, Marr.»

La ragazza tentò di minimizzare l'espressione preoccupata. «Son armi molto particolari, non le avevo mai viste.»

«Sì, questi cacciatori va a capire che si inventano per ammazzare quelle povere bestie.»

Marlene venne attraversata da un lungo brivido. Bestie. Era così crudele definirli bestie... semmai licantropi e mannari. Ma cosa poteva saperne Leni? Era una semplice umana, non conosceva i meccanismi che si nascondevano dietro il mondo sovrannaturale.

Con la coda dell'occhio la fata osservò la sacca, prima di tornare a far il proprio lavoro in attesa dell'arrivo della polizia. Quella borsa era l'emblema della lotta alla sopravvivenza di razze emarginate come i mutaforme. E purtroppo dall'odore di sangue che emanava, sembrava una lotta destinata ad essere persa.

L'accavallarsi di pazienti con casi più o meno gravi le portò via tutti i pensieri negativi lasciando spazio solo al lavoro.

Si fermò solo quando all'entrata della sala d'attesa si presentarono due poliziotti e lì comprese che erano venuti per la borsa. Leni aveva staccato, quindi toccava a lei ragguagliarli su tutto.

Uno dei due le si avvicinò e una vampata di odore mannaro la investì con prepotenza. Il giovane poliziotto le sorrise pacificamente senza accorgersi affatto di chi si trovava di fronte. Dopo un attimo di soggezione, quando si accorse che lui non la fiutava, si rilassò e gli porse la mano. «Marlene Powell.»

«Piacere, sono l'agente John Carter. Siamo venuti a prelevare gli effetti personali che ci avete segnalato.»

L'infermiera si spostò accompagnandoli vicino al borsone. Non volle toccarlo.

Il poliziotto si abbassò aprendo la sacca e immediatamente si irrigidì. Marlene percepì subito l'ondata di potere che le colò addosso come lava. Un tremore persistente la costrinse ad appoggiarsi alla scrivania per non attirar troppo l'attenzione. «Sono armi strane. Le porterete in centrale?»

Carter sollevò lo sguardo dalla borsa, aveva la fronte imperlata di sudore. Gli occhi castani traballarono per un attimo mentre cercava di riacquistare il controllo. Sembrava incazzato.

Si passò nervosamente una mano tra i capelli ramati. «Sì, signorina... effettivamente sono armi molto strane. Ma non si preoccupi, ce ne occuperemo noi.» Richiuse la sacca con un leggero moto di stizza. «Le chiedo solo di raggiungere il mio collega per far una breve deposizione. Ci serve per la documentazione.»

Marlene annuì mordendosi nervosamente il labbro. Il collega che fino a quel momento era stato in disparte fece un passo avanti e le sorrise. «Prego, mi segua un secondo.»

Quando capì che era un umano, l'infermiera si rilassò.

Nel frattempo John Carter si sollevò in piedi con la sacca in una mano e il cellulare nell'altra. Digitò un numero e attese la risposta.

La voce al di là della cornetta arrivò secca e sbrigativa. «Ehi, John... che succede?»

«D. ho per le mani delle armi. Le devo portare al distretto... ma cercherò di fargli delle foto.»

«Che genere di armi?»

«Armi che ammazzano e mutilano noi mannari.»

Ci fu un lungo silenzio, tanto che per un attimo Carter pensò che il proprio Sumtrae avesse riagganciato. Invece Duba parlò subito dopo: «John... fa tutte le foto che riesci a quella merda. Dobbiamo prendere questi figli di puttana prima che loro prendano noi.»

«Intanto questo è morto, Signore.»

«Presto lo saranno anche gli altri.»

John chiuse la chiamata e inspirò a fondo. Su quelle armi c'era odore di morte. Odore di milioni di mannari e licantropi diversi. Strinse i pugni sentendo la bestia ringhiare nelle profondità del suo essere e con una scrollata di capo si voltò verso l'infermiera. «Eccomi. Le faremo qualche altra domanda e poi la lasceremo proseguire nel suo lavoro.»

Marlene ricambiò il sorriso con uno estremamente tirato e si sfregò le mani per mitigare il nervosismo. Aveva sentito tutto.

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