CAPITOLO 48
Chiusa dentro il cassone del furgone e completamente al buio, Marlene non riusciva a capire dove la stavano portando. Aveva tentato di star attenta ai rumori, agli sbalzi del mezzo e anche alle varie svolte che faceva ma dopo pochi isolati, si era resa conto che si era persa.
Rimase in muto ascolto, attendendo con impazienza che la prelevassero da quel posto per portarla nella loro tana. Non immaginava che prima di farla uscire dal buio di quel cassone le avrebbero calato sulla testa un cappuccio.
Il furgone inchiodò, facendola rotolare contro qualcosa di freddo e appuntito. Cercò di spostarsi ma la cotta di rame le impediva i movimenti più basilari. L'odore di sangue mannaro la costrinse a trattener il respiro. Nel tentativo di sollevarsi, vacillò e scivolò maggiormente in avanti. Qualcosa di viscido e nauseabondo le colò lungo la guancia. Cercò di divincolarsi, per spostarsi dalla cosa a cui si era appoggiata, qualsiasi essa fosse. Visto il buio, non aveva idea di cosa si trattasse ma l'odore che emanava era di morte e di sangue sovrannaturale.
Un vociare indistinto le fece comprendere che erano arrivati a destinazione. Ovunque fossero, erano arrivati al rifugio. Alle sue spalle una luce sfocata illuminò per un breve attimo l'abitacolo. Riuscì a veder la distesa di armi su cui era caduta e l'enorme pozza di sangue in cui era scivolata. Si lasciò sfuggire un grido carico di rabbia ma anche disgusto prima che un cappuccio le oscurasse la vista.
Non appena furono certi che non riuscisse a veder nulla, la sollevarono di peso come un sacco di patate e caricandosela su una spalla si accinsero ad entrare nel covo.
La loro base, era una semplice e banalissima casetta di legno all'interno del Huron-Manistee National Forest, una foresta particolarmente fitta ed estesa. Territorio degli ullam per lo più.
Avevano preso quella casa diversi mesi prima, era piccola e dall'aria fatiscente. Da fuori dava tutta l'impressione di esser disabitata. Una volta ripuliti gli interni, l'avevano riempita con cura di ciò che gli serviva per la caccia. Non ci dormivano dentro, no. Non erano così stupidi.
In caso qualche mannaro l'avesse trovata, si sarebbe dovuto semplicemente accontentare di alcune loro armi e qualche carico di merce non ancora spedito. Soltanto da quella mattina l'abitazione era stata munita di due grosse gabbie per animali; una in argento e una in rame. Una aveva già il suo ospite, l'altra era in attesa.
Mentre camminavano per il sentiero con Marlene ancora in spalla, la fata cercò di dimenarsi nel vano tentativo di allentare le maglie della cotta e riuscire a liberarsi. Inutile dire che ad ogni movimento quel dannato mantello, sembrava stringersi attorno a lei con ancora più forza, come le spire di un serpente.
Il respiro le si smorzò in petto, complice anche il cappuccio che le rendeva difficile la respirazione. Inspirò rumorosamente e un odore acre come di bruciato le intasò le narici fino a farla starnutire, riconobbe subito l'erba che le fate chiamavano "Fumo negli Occhi", una tipica erba fatata usata per nascondere qualsiasi traccia di odore. Ora capiva per quale motivo nessun mannaro avesse fiutato le loro tracce, quell'erba era molto comune nel mondo sovrannaturale ma sottovalutata. Bruciata nei punti giusti, nascondeva anche agli olfatti più fini tutti gli altri odori.
Samael diede una spallata alla porta, aprendola; rinserrò la presa sulla fata e varcò l'uscio della casa lasciandosi alle spalle il proprio uomo. «Accendi altre torce.» ordinò.
Il cacciatore alle sue spalle, rimase fuori ad accendere altre torce di "Fumo negli Occhi". Quella notte avrebbero dormito nel covo, era bene che la loro presenza passasse inosservata.
L'indomani mattina sarebbero partiti, trasportando le due sovrannaturali da Mister Blake. Una volta depositate e prelevati i soldi, avrebbero lasciato il Michigan per raggiunger lidi più favorevoli. Altro giro, altra corsa. Alla fine il loro lavoro di mercenari e cacciatori era un impiego da nomadi, si spostavano in continuazione e soprattutto secondo le esigenze del mercato nero.
«Se ora stai ferma, ti libero.» Samael appoggiò in terra Marlene, bisbigliandole contro il cappuccio. La fata soffiò con rabbia, nonostante quel panno le annebbiasse la vista e la maglia di rame le bruciasse la pelle rendendola debole.
Ci fu un attimo di silenzio prima che si sentisse liberare dall'impedimento della cotta poi qualcuno la spinse in avanti e lei crollò in terra, priva di equilibrio. Subito si portò le mani alla testa, togliendosi il copricapo che le impediva di vedere.
La luce tenue della stanza in cui era le fece metter a fuoco tutto ciò che la circondava pian piano. Samael richiuse con un colpo secco la gabbia in cui l'aveva gettata.
«Ora vedi di non urlare, altrimenti sarò costretto a tagliarti la lingua.» rise. «Mister Blake non ci ha necessariamente chiesto di portarti al cento per cento integra.»
Marlene rabbrividì e ritirò le gambe al petto, stringendole e fissandolo con rabbia. «Non basterà bruciare un intero cespuglio di Fumo negli Occhi per nascondermi. E quando mi troveranno... perché lo faranno, credimi... prega in una morte veloce, bastardo!» il tono di voce tradì insicurezza. In fondo non era certa che Amos l'avrebbe cercata. Dopo quello che era successo e quello che gli aveva detto, avrebbe avuto tutte le ragioni del mondo a lasciarla marcire in quella gabbia.
Infossò il viso nelle gambe raccolte e scoppiò a piangere suscitando l'ilarità di Samael che si allontanò lasciandola sola nel suo dolore.
Era stata una stupida. Ora se ne rendeva conto; troppo tardi per porre rimedio al fiume di cattiverie che aveva riversato addosso all'unica persona che l'aveva veramente amata. E per cosa? Per paura. Paura di amare, di essere amata. Paura di essere felice, di aver trovato finalmente il proprio posto.
A ripensarci, non esisteva una sola cosa vera di quelle che aveva sputato velenosamente addosso ad Amos. Era consapevole di amarlo come mai aveva amato qualcuno e di desiderarlo con una tale intensità da restarne turbata ogni volta. Eppure da brava sciocca, era scappata da quell'amore complesso, preferendo rintanarsi nel suo angolo di certezze infelici anziché rischiare.
Scoppiò a piangere più forte, singhiozzando fino a che lo stomaco non si contorse dal dolore. Se avesse potuto tornar indietro, non sarebbe fuggita di fronte a quel ti amo.
«Perché piangi?» domandò una voce non distante da lei, flebile e fanciullesca.
Marlene alzò di scatto la testa e solo allora si rese conto che la gabbia vicino alla sua non era vuota. Una ragazzina la stava osservando curiosamente, vicino alle sbarre della propria gabbia senza però toccarle. Aveva un taglio di capelli sbarazzino, corto abbastanza da arrivarle di poco sotto le orecchie. Le punte di diverse ciocche erano spinte all'insù creandole una massa voluminosa e che le ricordava un porcospino. Il naturale castano scuro veniva sostituito da un fuxia intenso, che colorava solo le punte donandole un'aria vivace e allegra. Cosa che non poteva dirsi del suo sguardo, vigile ma al contempo spento. Ad ogni rumore la ragazzina si guardava con circospezione intorno a se, restando al margine della propria gabbia quasi temesse che qualcuno facesse capolino prelevandola.
La fata rimase sorpresa dalla presenza di una bambina proprio lì. Restò a fissarla a lungo prima di parlare. «E tu, chi sei?»
La ragazzina accennò un sorriso triste e si avvicinò maggiormente alle sbarre. «Mi chiamo Marie Anne Brown... e tu? Come ti chiami?»
«Marlene. Marlene Powell.»
«Perché piangi? Hai paura?» le domandò Marie Anne, incrociando le gambe e fissandola con curiosità.
La giovane scosse la testa. In realtà le motivazioni erano altre. Il suo pianto non era per la cattura, in fondo in cuor suo lo sapeva che sarebbe successo. «No... è che... ho fatto una cosa, per nulla bella.» Esitò un attimo prima di continuare. «Ho detto delle cose molto brutte a una persona a cui voglio molto bene.» trattenne un singhiozzo. Non voleva mostrare a quella ragazzina la sua fragilità. Già si trovavano in una situazione tremenda, non c'era bisogno di tormentarla perfino con i suoi turbamenti amorosi. Non era preparata a trovarsi come vicina di cella una bambina ma ora che erano compagne di esperienza, doveva tirar fuori il briciolo di coraggio che le restava e fingere che sarebbe andato tutto bene.
Marie Anne guardò il soffitto e sospirò. «Anche a me capita spesso. A volte dico certe cose brutte a mio fratello che ci sto subito male.» Si passò la lingua sulle labbra, pensosa. «Moki ogni volta mi dice che devo pensarci almeno una giornata intera alle cose che gli ho detto... e se a sera le penso ancora, devo tornare a ridirgliele.»
«E chi è Moki?»
Marie Anne sorrise. «Mio fratello. Si chiama Amarok ma io lo chiamo Moki. È un soprannome segreto che usiamo solo in casa quindi mi raccomando, non dirgli che lo sai.» terminò, chinando la testa con imbarazzo.
A Marlene sfuggì un sorriso. La piccola seppur imprigionata come lei, sprizzava la tipica energia giovanile che non si arresta nemmeno di fronte alle difficoltà più insormontabili. Per un attimo la fata invidiò quella spensieratezza tipica dei giovani. «E funziona questo metodo?»
La ragazzina si strinse nelle spalle. «Non so... però a fine giornata non mi va più di dirgli quelle cose.» Con un dito disegnò alcuni ghirigori sul terreno. «Sai, lui dice che a volte ce la prendiamo con la persona a cui vogliamo più bene perché sappiamo che ci resterà sempre a fianco, anche dopo avergli fatto male.»
«Tu dici?» domandò Marlene, sentendo il groppone in gola sempre più opprimente. Non era sicura che fosse andata così nel suo caso. Sapeva di aver ferito Amos volutamente, per allontanarlo. Sebbene non pensasse mezza delle cose che gli aveva detto, non aveva esitato un attimo a ferirlo pur di mettere tra loro un muro.
Solo ora si rendeva conto che la vita è breve e che tutte le occasioni vanno prese di slancio, senza mai guardarsi dietro. Si morse il labbro, cercando di non mostrare il suo tormento, sentiva le lacrime pizzicarle ancora gli occhi.
Marie Anne alzò lo sguardo da terra, fissando la fata al di là della rete della gabbia. «Ne sono sicura. Io alla fine ho solo Moki... quando sono spaventata o arrabbiata, me la prendo sempre con lui.» Si passò le mani sulle spalle e rabbrividì. Due calde lacrime le rotolarono lungo le guance. «Non ho nemmeno avuto tempo per dirgli che gli volevo bene.» Si coprì il viso scoppiando a piangere.
Era stata portata via da casa prima ancora che lo vedesse rientrar dal lavoro. Quella mattina per la fretta non gli aveva detto come di consueto che gli voleva bene e ora questa cosa la stava distruggendo. Chissà se ora suo fratello, ovunque fosse, sapeva quanto bene provasse per lui.
Marlene si spinse contro la gabbia, anche se toccarla con le mani le causò bruciature. «Marie Anne, ehi.» la chiamò, cercando di metter da parte tutti i suoi problemi e provare a prendersi cura di quella ragazzina, troppo giovane per stare in un posto come quello. «Vedrai che andrà tutto bene.»
L'altra si voltò a guardarla, gli occhi gonfi e rossi di pianto. Allungò la mano e toccò le sbarre ritraendola subito dopo, con i polpastrelli ustionati. «Tu dici?»
«Ma certo. Ci verranno a cercare e ci troveranno, vedrai.»
Marie Anne si stropicciò gli occhi, stanca e spossata. Aveva pianto per la maggior parte del tempo in quella giornata interminabile e ora, con Marlene a fianco, la stanchezza si stava facendo sentire sormontando perfino la paura. Si lasciò sfuggire uno sbadiglio, che alla fata non passò inosservato.
«Hai sonno?» le chiese.
La ragazzina annuì, arrossendo leggermente. Stava crollando dal sonno eppure continuava a restar tenacemente sveglia e in ascolto. Da una parte temeva di addormentarsi, non voleva trovarsi impreparata nel caso i cacciatori fossero tornati da loro. Dall'altra sperava di sentir il bramire di Amarok e magari gridando, riuscirlo a condurre lì.
«Se vuoi dormire, ci sono io. Resto sveglia io mentre dormi, non ho sonno.» le disse Marlene cercando di regalarle uno dei suoi sorrisi rassicuranti. Col suo lavoro aveva imparato spesso a sorridere anche quando non c'era nulla per cui farlo.
«Lo faresti?»
«Ma certo.»
«Senti... potresti, ecco...» Marie Anne tentennò un attimo. «Potrei tenerti la mano mentre mi addormento? Moki lo fa sempre.»
Alla fata si strinse il cuore. Era solo una bambina, dannazione. Che motivo avevano di prendere una bambina quei bastardi? Si asciugò frettolosamente una lacrima che solitaria era riuscita a sfuggire al suo fragile autocontrollo. «Certo, mi piacerebbe molto.»
Allora Marie Anne si stese in terra ammucchiando il pagliericcio che era buttato sul pavimento della gabbia e poi abbassandosi la manica della felpa fino a coprir le dita passò la mano attraverso le sbarre. Marlene gliela strinse delicatamente e le due si scambiarono un lungo sguardo d'intesa poi la piccola chiuse gli occhi e a bocca chiusa iniziò a intonare una canzoncina, la stessa che cantava sempre.
«L'hai inventata tu?» le chiese Marlene, accarezzandole il dorso della mano con il pollice.
L'altra scosse la testa. «La cantava la mia mamma a Moki e ora lui la canta a me prima di dormire.»
La fata non chiese niente capendo subito che se il fratello faceva questo per lei, probabilmente non c'era più nessuna mamma a poterlo fare al posto suo. Ascoltò per un po' quella nenia e poi, una volta imparata, provò lei stessa a riprodurla.
Marie Anne la guardò di sottecchi mentre la stanchezza le appesantiva gli occhi, fino a costringerla a chiuderli. Restò immobile in quel giaciglio spoglio e freddo, con la mano stretta in quella di una sconosciuta, ascoltando per la prima volta la canzone della sua mamma cantata da una femmina che non fosse lei stessa.
Nonostante tutto, nonostante il luogo, per un solo attimo prima di addormentarsi, Marie Anne si sentì come a casa.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top