CAPITOLO 46

Il Desmo aveva aperto i battenti per la prima volta quella notte, la fila fuori lasciava presagire il pieno. Il posto sembrava gremito di persone euforiche pronte a divertirsi, sballarsi e magari far nuove conoscenze. Amos era rimasto in fila per oltre un'ora e ora che era entrato si fissava attorno con un'espressione corrucciata e non del tutto convinta. Non c'era nulla di diverso in quel locale che il Brums già non avesse o che non avesse proposto ai propri clienti.

Un ambiente carino, nulla da dire. La tappezzeria era nuova, il pavimento era tirato a lucido e si vedeva perfettamente che quel posto puzzava ancora di pulito. Ancora nessuno si era preso la briga di vomitare nei suoi angoli remoti, regalando al locale quel bell'odore di stantio e acidume tipico del vomito.

Senza dire nulla il pasura seguì gli amici che andarono dritti al bancone. Duba ordinò tre birre; solo tre perché Damian non beveva mai e se lo faceva prendeva dell'insulsa acqua liscia, nemmeno frizzante, perché a quanto pare aveva lo stomaco delicato.

Non appena il barista appoggiò le tre bottiglie, Amos afferrò la propria tracannandone il contenuto. Quella sera si sarebbe sfondato, se lo sentiva.

Voleva bere così tanto da costringere i suoi a trascinarlo a casa privo di sensi.

Beh, era un ottimo programma per la serata.

La musica che il dj passava nelle casse era qualcosa di osceno. Ai ragazzi piaceva il rock duro, non certo quello schifo di roba elettronica. Duba storse il naso quando l'ennesima canzone si sostituì alla precedente. «Sì, okay... bel posticino, ma la musica è una merda.»

Logan annuì, guardandosi attorno e intercettando alcune femmine in gruppo. «Sai, credo che sia un posto per fighetti.»

«Strano che ti abbiano fatto entrare allora.» lo rimbeccò la tigre.

Quella sera Amos non era di molte parole. Non lo era mai a dire il vero ma quella sera in particolare sembrava chiuso in un mondo tutto suo. Si guardava attorno curioso, beveva a grossi sorsi la propria birra ma non partecipava attivamente alla discussione.

«Sei proprio un gran figlio di buona donna D.» lo apostrofò Logan, allungandosi verso il mannaro per assestargli una pacca. I due risero.

Nel frattempo Damian scambiava messaggi concitati con Vaianna, cose da far cariare i denti. Quando le stava lontano, ne sentiva la mancanza e quando le era vicino, i due sembravano perdersi l'uno negli occhi dell'altra. Era un rapporto bellissimo il loro; un rapporto che Amos segretamente aveva sperato di instaurare con Marlene. E invece quest'ultima si era data alla fuga e con ogni probabilità non sarebbe mai riuscito a recuperare il rapporto.

Ripensare a lei gli fece stringere lo stomaco come se fosse a digiuno da settimane, serrò la presa sulla bottiglia di birra e bevve una grossa sorsata.

«E quindi? Che ne pensi di questo posto?» domandò Duba, dandogli una gomitata.

Amos fece spallucce. «Fa schifo.»

«Assolutamente schifo.» concordò l'amico, ridendo.

«A me non dispiace.» s'intromise Logan.

«Tu non capisci un cazzo, quindi era naturale che ti piacesse.» lo azzittì Duba.

I due si scambiarono qualche dispetto e un paio di cazzotti; quel genere di cazzotti che tra loro si trasformavano quasi in carezze ma che se per sbaglio beccavano un umano... lo lasciavano steso in terra.

A volte i mannari non si rendevano conto dell'estrema forza che avevano.

«Ma qui non c'è nemmeno un privè?» domandò Amos, continuando a scandagliare il locale con estrema attenzione. Non aveva visto nessuna zona appartata e più intima dove rifugiarsi. Un locale senza privè era come una festa senza birra.

«Non credo, bello. Mi sembra un grande stanzone aperto.» Duba si sollevò dalla sedia volgendo lo sguardo anche negli angoli più remoti del locale che era particolarmente esteso ma a quanto pareva, un unico ed enorme ambiente.

«Bella merda.»

Gli altri due risero e solo allora Damian si riscosse dalla chat che stava avendo con la moglie. Un po' per non essere asociale e un po' anche perché stavano iniziando a dirsi cose decisamente troppo piccanti per restare sul discorso. Quando sollevò lo sguardo dal cellulare gli occhi della bestia scintillarono nel buio.

Duba lo fissò sgomento, bloccando la bottiglia di birra a mezz'aria. «Cristo Santo, Damian. Chiudi quei fottuti occhi e calma il tuo pisello!» lo redarguì.

Gli occhi del Mithpala tornarono immediatamente normali e subito Damian si lasciò sfuggire una risatina imbarazzata. «Scusate, è... è Vaianna.» disse come se con quel nome, potesse spiegare tutto e in realtà lo faceva. Non c'erano bisogno di troppe spiegazioni quando si trattava delle proprie femmine perché a quanto pare i mannari faticavano a connettere il cervello quando si trattava di loro. Si schiarì la voce impacciato guardandosi attorno. «Com'è grazioso questo posto. Mi piace un sacco.»

I tre sollevarono gli occhi al cielo.

Forse portarsi dietro Damian non era stata la migliore delle idee.

Dopo la prima birra, ne seguirono molte altre fermi a quel bancone. Duba appena vedeva quella di Amos finire, faceva un gesto al barman che gliela sostituiva prima ancora che il pasura se ne accorgesse.

Peccato che i mannari avessero un'altissima resistenza all'alcol.

La musica assordante li costringeva a parlarsi più vicino, costretti quasi ad urlare. I loro sensi sovrannaturali venivano smorzati da quel pompare ritmico che martellava nelle casse.

Un paio di ragazze si misero a ballare proprio davanti a loro, muovendosi con provocazione e toccandosi sensualmente. Si erano messe lì con l'intento di attirar la loro attenzione e sembrava che su alcuni i loro provocanti gesti avessero effetto.

Logan si pizzicò il colletto della camicia mentre Duba ridacchiò divertito. «Cos'è, hai caldo pivello?»

«Non è colpa mia se tu tra le gambe hai ormai raggiunto l'eterno riposo. A me queste cose ancora eccitano.»

«Ci credo, sei appena uscito dallo svezzamento.»

Si scambiarono uno sguardo di fuoco. Quei due erano sempre così. Amos ci usciva separatamente perché per quanto Duba e Logan si fossero presi in simpatia, il loro rapporto era un continuo tormento. Non smettevano mai di stuzzicarsi e di prendersi in giro fin quando uno dei due si offendeva a morte tenendo il muso per il resto della serata e, questo solitamente succedeva a Logan. «Finitela di rompere le palle e andate a scoparvi qualcuna.» gli ringhiò addosso.

«E tu?»

Un brivido gelido colò lungo la schiena del pasura al solo pensiero di farsi una femmina che non fosse la sua Marlene. Rabbrividì. No, non ci sarebbe mai riuscito. Non dopo quello che aveva passato quella notte insieme a lei. Inoltre dieci giorni non erano un tempo abbastanza lungo per uscire dalla botta che gli aveva fatto prendere la fata. «Io vi resterò a guardare.»

«Anche io.» disse euforico Damian.

Non ebbero nemmeno il tempo di alzarsi dalle poltroncine che le ragazze li raggiunsero, ridendo e parlando tra loro. Erano tre, escludendo Damian dai giochi, erano un numero perfetto per loro.

«Ehi, ciao.» disse una, allungando la mano per presentarsi. «Theresa, piacere.»

Duba appoggiò la birra e le sorrise, stringendogliela. «Duncan Baine, il piacere è tutto mio.»

Amos roteò gli occhi. Ecco, ora D. avrebbe iniziato una delle sue solite menate su quanto fosse figo e su quanti muscoli avesse. Ormai aveva imparato il suo modus operandi per far colpo. Con alcune funzionava, con altre doveva anche dimostrare di aver un cervello sotto tutti quei muscoli e non era così facile come con la prima opzione.

A parte Theresa che sembrava quella più spigliata, le altre restavano in disparte osservandoli con profondo imbarazzo. Adescare tipi in discoteca non era qualcosa alla portata di tutti o ci sapevi fare oppure era meglio se lasciavi perdere.

«E tu come ti chiami?» domandò un'altra, ad Amos. Era da quando si erano messe a ballare lì davanti che non gli aveva staccato gli occhi di dosso.

Il pasura la osservò gelido e fiutò l'aria. Lei lo desiderava, lo sentiva. Il suo desiderio era forte e chiaro, peccato che lui non provasse alcun interesse. «Non preoccuparti del mio nome, tanto sono gay.»

Per poco a Logan non andò di traverso la birra. Cominciò a tossire fin quando Damian preoccupato non lo colpì ripetutamente sulla schiena.

«Non lo sembri minimamente, sai?» continuò la ragazza, cercando di far conversazione spicciola nonostante la risposta spiazzante.

«Oh, si. Sto insieme a lui.» le rispose lui segnando Damian che sembrò cader dalle nuvole assumendo una delle sue tipiche espressioni da ebete. Quando faceva così, Amos gli avrebbe tantissimo affibbiato un pugno in pieno viso.

«Davvero? Non ci credo!»

Il Mithpala guardò il suo uomo poi accennò un sorriso timido e imbarazzato. Alzò la mano e mostrò la fede nuziale. «Eh si, siamo sposati.» Alla fine a lui non costava nulla fingersi omosessuale, era sposato, non ci avrebbe comunque potuto far niente con quelle giovani. Vaianna avrebbe tirato un sospiro di sollievo se fosse stata presente.

La ragazza strabuzzò gli occhi per un attimo e poi sospirò combattuta. Sembrò crederci veramente. «Un gran peccato, i migliori son sempre gay.»

A quel punto Amos si alzò dalla sedia, aveva bisogno di aria. Aveva bisogno di una sigaretta e di un momento lontano da tutti.

Lasciò gli amici in compagnia di quelle femmine umane e si defilò rapidamente verso l'uscita. Senza aggiungere altro, senza dare spiegazioni. Non era un tipo socievole, non lo era mai stato. Né quando era in buona né tanto meno quando aveva giornate di merda come quella.

Non appena uscì dal locale, estrasse con urgenza una sigaretta dal pacchetto e la portò subito alle labbra. Ultimamente ci stava dando dentro col fumo, si accorgeva che ogni volta che pensava a Marlene, subito sentiva l'impellente bisogno di fumare. Una sorta di calmante, sedativo.

Non funzionava manco per il cazzo, però quantomeno passava un paio di minuti con il cervello staccato e questo era molto utile, dato che negli ultimi tempi lo aveva fatto lavorare anche troppo per i suoi standard.

Quando sputò l'ultima boccata di fumo, fissò il mozzicone della sigaretta ormai completamente consumato. Usando l'indice e il pollice lo sparò lontano da se, facendolo rimbalzare sul cemento della strada poi si voltò per tornare dentro.

La calca della gente ancora affollava l'entrata, c'era chi usciva e chi entrava.

Con una scortese spallata andò a sbattere contro qualcuno e una vampata di odore lo investì in pieno.

Fu come quella volta al Brums, se non peggio. L'ondata di profumo gli invase le narici, scuotendolo da cima a fondo fino a fargli venir la pelle d'oca. Improvvisamente si trovò sull'uscio del locale con una vistosa erezione e la consapevolezza che Marlene gli era appena passata accanto, uscendo da quel posto.

Si voltò di scatto, fregandosene di tornar dagli amici e con lo sguardo la cercò tra la folla. Sapeva che era lei. Avrebbe riconosciuto il suo profumo in mezzo a mille odori. Lo avrebbe riconosciuto a occhi chiusi e a distanza di anni.

Era la prima cosa che lo aveva fatto innamorare di lei.

Non appena la individuò, decise che non poteva lasciarla andare così. Non quella volta. Sembrava un circolo che si chiudeva; come era iniziato, così sarebbe finito.

«Aspetta, Marlene.» le gridò dietro. Spostandosi in mezzo alla gente a gomitate.

La fata si voltò un attimo e non appena lo vide trasalì. Era sola e stava tornando all'auto. La serata con Leni si era conclusa, si erano divise e ognuna stava raggiungendo il proprio mezzo per il rientro a casa.

Mai avrebbe pensato di trovarlo là. Sapeva che Amos era un assiduo frequentatore del Brums, non certo del Desmo, un locale che non rientrava certo nei suoi gusti.

Marlene rimase per un secondo ferma immobile, lo fissò sentendosi preda dei suoi mille sentimenti contrastanti. Lo avrebbe voluto raggiungere correndo per poi abbracciarlo con impeto ma anche scappare a gambe levate fino a seminarlo. Soppesò per un attimo entrambe le opzioni, vederlo lì le faceva contorcere lo stomaco come se fosse reduce dalle montagne russe. Il viso scavato del pasura le fece comprendere che quei dieci giorni lontani, non erano stati divertenti nemmeno per lui.

Si morse il labbro, cercando la forza di fuggire da lui poi girandosi nuovamente camminò più in fretta, uscendo dalla calca. Non appena superò la massa di gente, iniziò a chiedersi se scappare fosse la scelta giusta. Forse Leni e Karen avevano ragione, forse dovevano parlare. Eppure lei aveva già preso una decisione: tra loro non poteva esistere nulla. Non erano fatti per stare insieme, la loro storia avrebbe portato solo sofferenza.

Amos però questa volta non avrebbe lasciato perdere. Avrebbero chiarito. Dovevano chiarire. Se lei non lo voleva più vedere, voleva sentirglielo dire faccia a faccia, guardandolo dritto negli occhi. «Marlene.» la chiamò ancora, spintonando la gente, facendosi largo con poca gentilezza.

Lei aumentò il passo. Aprì la borsetta cercando le chiavi dell'auto. Il cuore le batteva in petto così forte che quasi le faceva male.

Non potevano parlare, non dovevano. Temeva che tutte le sue decisioni sarebbero vacillate tremendamente di fronte a quegli occhi grigio ghiaccio. Aveva paura dei suoi sentimenti, li allontanava quasi con disprezzo tanto ne era spaventata.

Non potevano stare insieme, non dovevano.

Anche Amos riuscì ad uscire dalla calca. «Dobbiamo parlare.»

«Non ho nulla da dirti.» gli disse lei, senza nemmeno voltarsi.

«No. Dobbiamo parlare.» continuò lui, tallonandola.

«Non ti voglio ascoltare, Amos. Lasciami stare.»

«Dannazione, Marlene! Il bambino non era mio, non lo è mai stato.» le gridò dietro lui, esasperato. Cosa poteva fare per farle capire che il proprio cuore era suo? Completamente suo.

Sul volto della giovane si dipinse per un attimo un'espressione sollevata. Allora quella Nebbie mentiva, non era la madre di suo figlio. Serrò le mani attorno alle chiavi e aumentò nuovamente il passo. Per quanto fosse felice di quella rivelazione, in quei dieci giorni di struggimento lontano da lui aveva capito che qualunque cosa ci fosse tra loro non sarebbe mai andata a buon fine. Doveva chiuderla lì.

All'inizio non si voleva dare pace, non voleva veder la realtà, non voleva farci i conti eppure col passare dei giorni, in lei si era fatta strada la consapevolezza che tra loro non avrebbe mai funzionato. Tra fate e mannari non funzionava, mai.

«Perché mi ignori?» le chiese ancora lui, raggiungendola.

Lei non rispose.

A quel punto lui l'afferrò per un braccio, tirandola verso di se. O ora o mai più. Non poteva rincorrerla per sempre. «Perché mi ignori?» le domandò ancora, urlando, furioso.

Non lo meritava. Non meritava di essere ignorato così. Almeno un chiarimento, qualcosa che gli facesse capire cosa si era rotto tra loro. Ne aveva bisogno, gli serviva per capire e se poteva, rimediare.

Marlene si girò di scatto, bloccandosi e impuntando i piedi. Si divincolò con furia scuotendosi per liberarsi dalla presa. «Basta! Lasciami!» gridò furiosa più con se stessa che con lui. Sapeva che almeno un chiarimento glielo doveva eppure scappava. Le sue ossessioni, la sua paura di amare, la facevano fuggire lontano. «Perché fai così? Perché continui a ostinarti con me?» gli gridò addosso con tutto il fiato che aveva. Lo colpì al petto con forza, con rabbia. Scaricò su di lui il suo odio verso se stessa e verso l'incapacità di trovare il coraggio per credere in loro.

«Perché ti amo.» gridò Amos. «Ti amo.» sussurrò piano, con un filo di voce.

La lasciò andare immediatamente, come se il loro contatto fosse diventato ardente quanto un tizzone. Il respiro gli si smorzò per un attimo, si sentì nudo di fronte a lei.

Non aveva mai detto a nessuno quelle parole speciali. Non aveva mai avuto il coraggio per farlo o l'occasione. Lei era l'unica che ai suoi occhi rappresentava tutto ciò che desiderava in una femmina. Nessuna era mai riuscita ad entrargli così dentro come lei, così in profondità, nell'anima.

I suoi occhi intercettarono subito quelli della fata. Ci fu un lungo sguardo silenzioso fin quanto due grosse lacrime rotolarono lungo le guance della giovane. Le labbra le tremarono e scosse la testa. «Ma io no.» disse debolmente.

Ma lui sentì. Lo sentì talmente chiaro e forte che gli sembrò gliel'avesse gridato in faccia. «Come?» chiese senza fiato.

«Io non ti amo, Amos.»

«No.» Si rifiutava di crederle. «Non è vero.»

Marlene continuava a piangere, senza freni. Doveva chiuderla lei questa storia, doveva essere lei quella più forte che avrebbe messo la parola fine. Non potevano andare avanti in eterno. Era giusto che lui trovasse una femmina degna di stargli a fianco, una mannara che capisse profondamente il suo mondo senza doversi interrogare su ogni loro diversità. Era stato il fatto di Nebbie ad allontanarli ma in realtà, Marlene sapeva che sarebbe successo. Prima o poi sarebbe successo. I loro mondi erano distanti anni luce, diversi, inavvicinabili. Sarebbe stata solo questione di tempo prima che le diversità si fossero fatte sentire. E allora meglio finirla ora, quando ancora l'amore non li avrebbe uccisi di dolore, quando ancora c'era tempo per risaldare i loro cuori rotti. «Si, invece.» deglutì. L'unico modo per mettere fine a tutto, sapeva qual'era. Era il peggiore. Era il più crudele. «Quella notte, ero sconvolta. Il rapimento e tutto il resto mi avevano annebbiato la mente.»

Amos la fissava con gli occhi sgranati, le braccia abbandonate lungo i fianchi e il cuore che ad ogni sua parola perdeva un battito. Non riusciva a credere a ciò che diceva, gli sembrava di esser finito in un incubo senza via d'uscita.

«Lo sai perché è successo tutto quello che è successo. Non sei stupido, Amos.» riprese lei. Anche se piangeva, la sua voce era ferma, gelida. Si continuava a ripetere che lo faceva per entrambi, che era la scelta migliore, che fosse meglio così. In realtà sapeva bene da cosa scappava; sapeva che scappava dalla paura di esser felice, dall'amore stesso. «Lo sai che sono venuta a letto con te solo per sbaglio. Un errore.»

«No.» Amos fremette, cercò di respirare ma gli sembrò addirittura un esercizio doloroso. «No, menti.» La voce gli usciva in un bisbiglio.

Ogni parola che lei diceva, gli risuonava in testa, come una scarica di rintocchi di campana. Le sue frasi lo bombardavano senza sosta, colpendolo là dove gli faceva più male: nel cuore. Non riusciva nemmeno a trovare le forze per ribattere. Si sentiva inerme di fronte alla bestialità della sua voce, dal tono freddo, disinteressato.

Gli girava la testa, sudava freddo. Non gli era mai successo in vita sua. Mai prima di allora si era sentito così fragile, distrutto. Continuava a stringere i pugni cercando di scandire ogni stretta con i respiri ma anche quella semplice funzione vitale gli sembrava ardua, insormontabile.

La bestia restava vigile in lui, tramortita dal susseguirsi degli eventi. Non scalpitava per uscire, non fremeva per il mutamento. Indugiava semplicemente in silenzio, muta di fronte a quel dolore che condivideva, rispettando la natura dei loro ruoli; restando in disparte ma presente.

Marlene avanzò di un passo in sua direzione. Lo sguardo vuoto, le lacrime che le rigavano irrimediabilmente il volto. Doveva farlo. Era giusto così. «Sapevi che non avrebbe funzionato. Siamo troppo diversi, troppo distanti.» Si morse nervosamente il labbro. «È stato solo sesso. Niente di più. Solo sesso.»

Amos chinò la testa. Non aveva più coraggio di guardarla. Si sentiva sprofondare, il cuore gli era arrivato in gola. Ci mancava poco e l'avrebbe vomitato sul terreno insieme a tutto quello che ormai non mangiava da una settimana. Deglutì passandosi la lingua sulle labbra. «So - solo sesso?» farfugliò.

«Esatto. Un ottimo sesso.» Marlene vacillò un attimo, vederlo così la stava dilaniando dentro ma ormai era troppo tardi, non si poteva più fare dietrofront. Ora, doveva solo dargli il colpo finale. L'unico che l'avrebbe convinto a lasciarla andare per sempre. Gli passò accanto, appoggiandogli la mano sulla spalla e si alzò in punta di piedi fino a raggiungere il suo orecchio. «Victoria aveva ragione: sei un ottimo stallone da monta... ma niente di più.» gli bisbigliò, superandolo.

Amos sgranò gli occhi, le gambe gli tremarono e crollò in ginocchio. Appoggiò le mani in terra per riprendere fiato e Marlene lo fissò sentendo il gigantesco vuoto in petto estendersi sempre di più. Lo aveva fatto, aveva appena strappato il cuore dell'unico uomo che mai avesse amato nella sua vita. Lo fissò mentre carponi respirava a sbuffi, sentendosi un mostro. Si fece così schifo che provò repulsione per se stessa. Le veniva da vomitare tant'era sconvolta. Portò una mano tremante alla bocca, mentre i suoi occhi erano solo per lui e il suo dolore. La sua sofferenza era così densa che le sembrava corporea, palpabile. Che aveva fatto? Aveva appena distrutto l'unica cosa bella che le era mai capitata.

Doveva andarsene da lì. Doveva scappare da quel dannatissimo posto.

Il Michigan non faceva per lei. Non era casa sua. Sarebbe tornata in Scandinavia, lontano da tutto e tutti, segregata nel suo villaggio per non rischiare di essere catturata da qualche cacciatore.

Sarebbe tornata alle sue vecchie abitudini, senza pretendere nulla di più dalla vita. Non avrebbe vissuto, perché quello non era vivere ma semplice sopravvivere però almeno si sarebbe tenuta lontano dall'amore.

Guardò un'ultima volta la figura marmorea che aveva crudelmente piegato ai suoi piedi e con l'ultimo barlume di autocontrollo, si allontanò.

Amos tentò di sollevarsi ma il suo corpo non reagì al comando. Il cuore gli pompava sempre più freneticamente in petto mentre lui annaspava per respirare come se qualcuno lo stesse soffocando. Si morse il labbro con i canini ormai allungati lasciando che il sangue gli colasse sul mento. La bestia ruggì nelle profondità del suo essere, accusando il male, condividendolo. I muscoli delle braccia tremarono come sotto sforzo. In realtà l'unico sforzo che stava facendo era quello di non lasciarsi sopraffare dal dolore.

Faceva così male che si sentiva morire.

Non esisteva più niente al mondo che valeva la pena di esser vissuto senza Marlene.

Guardò le mani appoggiate sull'asfalto e cercò di non vomitare. Improvvisamente una una goccia cadde in terra seguita da un'altra e, un'altra ancora. Le fissò sorpreso e solo quando si portò con esitazione una mano al viso, si rese conto di quello che stava succedendo.

Lacrime. Piangeva.

Uscivano senza permesso, traditrici.

Un lampo illuminò il cielo, seguito dal rombante schiocco del tuono. Ad un tratto, una torrenziale pioggia scese su di loro, mischiando le lacrime all'acqua quasi condividesse quella sofferenza.

Un furgoncino nero sfrecciò per la strada deserta, sorpassandolo.

Amos rimase in terra, cercando di riprendere possesso del respiro, cercando di racimolare i cocci della sua anima distrutta. Credeva di aver trovato in Marlene quella giusta, quella che avrebbe amato per sempre. E ora in mano cosa gli restava? Niente. Come sempre.

Ancora una volta un buco nell'acqua, un buco nel cuore. Una voragine che non riusciva a colmare. Gli sembrava che qualcuno lo avesse trafitto con un pugnale.

Victoria aveva ragione: sei un ottimo stallone da monta... ma niente di più.

Niente di più. Niente di più.

Si alzò a sedere sui talloni e si fissò le mani tremanti. Lo aveva sempre pensato che in lui non c'era niente di buono, nulla che valesse la pena d'esistere. Dopo quello che era successo quella sera, la conferma di tutti i suoi dubbi era così forte e chiara da fischiargli nelle orecchie.

Che senso aveva la sua vita se non riusciva a suscitar nient'altro che semplice piacere fisico? Una banale scopata non avrebbe mai sostituito l'amore.

Strinse gli occhi alzando il viso verso il cielo, lasciando che la pioggia lo colpisse in viso. Ogni goccia era uno schiaffo. Si sentiva inerme di fronte a quel dolore.

Aveva imparato a combattere quello fisico, quello crudo e concreto della realtà mannara ma non era preparato per quel genere di male. Non sapeva che un cuore rotto feriva più di una lama in petto.

Un rumore di freni stridette in quella notte avvolta nel silenzio. Anche le sue lacrime non avevano voce, mute, dignitose.

Un grido esplose nell'aria.

Sapeva perfettamente di chi era quel grido, il cuore smise di battere per un istante e un brivido gelido come il ghiaccio gli colò lungo la schiena.

Si voltò di scatto, in preda ad uno strisciante terrore e ciò che vide lo inchiodò sul posto.

No, non poteva essere.

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