CAPITOLO 38
I cacciatori spinsero Nick indietro, affinché potessero entrare in casa e non destare inutili sguardi indiscreti. I vicini son sempre troppo impiccioni.
Non appena si chiusero la porta alle spalle, Samael colpì Nick al viso con il manico del coltello. Quest'ultimo cadde in terra e subito si portò le mani al collo cercando di capire l'entità della ferita. Nulla di profondo, solo un taglietto ancora sanguinante.
«Lei dov'è?» domandò Samael, guardandosi attorno.
Quando Mister Blake quella mattina li aveva chiamati dicendo loro che anche il padre era sulle tracce della fata, Samael e i suoi uomini avevano intensificato le ricerche. Non ci era voluto molto ad individuare il posto di lavoro della sovrannaturale, raggiungerlo e fare qualche domanda mirata.
In men che non si dica avevano trovato l'abitazione e avevano atteso l'arrivo della preda. Peccato che Marlene non fosse mai scesa da quell'auto; loro sarebbero stati pronti a prenderla immediatamente. Invece era ripartita e per non destare sospetti l'avevano seguita da molto lontano.
Giusto il tempo che era servito a Nick per rapirla e dileguarsi.
Da bravi professionisti però, avevano indagato anche su di lui. Una vita all'insegna del lavoro, genitori lontani, nessun amico e un segreto molto profondo da tener ben nascosto; una fortissima dipendenza dal sangue sovrannaturale.
Con una breve chiamata a Mister Blake, avevano scoperto che Nick Heets era l'uomo di Blake Senior. E così nel giro di un paio di ore, avevano individuato casa sua e si erano diretti lì senza problemi.
Il loro lavoro era sempre preciso, professionale.
Samael si rigirò il coltello tra le mani e osservò l'omuncolo steso in terra che continuava a tenersi il collo stupito. Ogni tanto Nick si spostava la mano dalla ferita e notando che continuava a sanguinare scuoteva la testa, quasi sconvolto. «Te lo chiedo ancora una volta: lei dov'è?»
«Fottetevi.» ringhiò il medico, fissandoli con arroganza.
Il cacciatore scosse le spalle e subito i suoi tre uomini afferrarono Nick sollevandolo di peso. Se non avessero trovato lì la fata, sarebbe stato un grosso problema perché ciò avrebbe voluto dire soltanto una cosa: Blake Senior li aveva preceduti. A quel punto i giochi sarebbero saltati e Mister Blake non avrebbe più preteso la femmina sovrannaturale. Samael sapeva le politiche dei giochi dei Blake, in casa loro funzionava così. Il primo che otteneva la creatura, era il vincitore e se la teneva.
Fine dei giochi.
«Non credo che tu sia riuscito a nasconderla da qualche parte.» Samael sorrise, gli occhi neri come la brace sembrarono scintillare in quella semi oscurità. «A malapena riesci a nascondere te stesso e la tua faccia di merda da tossico.»
Nick tremò ma restò con lo sguardo fissò sull'uomo. «Chi vi dice che non stiano arrivando altre persone qui, eh? Chi vi dice che non arrivino i rinforzi?»
«È per questo che faremo in fretta.» Samael scattò in avanti e gli affondò il coltello nello stomaco, rigirando la lama con impassibile fermezza. Nick sgranò gli occhi accusando il colpo con un gemito. Non ebbe nemmeno tempo per rendersi conto del gesto, abbassò semplicemente lo sguardo osservando sgomento la voragine. Il sangue si estese a macchia d'olio sulla camicia. Samael spinse ancora, sollevando la lama e lacerando la carne, le interiora si riversarono in terra come bile. Fu come svuotare una borsa capovolgendola; cadde tutto in terra, alla rinfusa. Gli altri cacciatori lasciarono il medico che crollò in avanti nella pozza del suo stesso sangue. Nick allungò la mano cercando una sorta di via d'uscita inesistente, il respiro iniziò a gorgogliargli in gola faticosamente. Le energie iniziarono a scemare con rapidità mentre un freddo glaciale si stava velocemente impossessando del suo corpo.
Samael ripulì la lama contro i pantaloni e fissò avanti a se. «Setacciamo la zona e se non troviamo nulla, diamo fuoco alla casa.»
Non fecero in tempo a spostarsi che un rumore di catene li fece voltar tutti verso una stanzetta, illuminata quasi a giorno. La luce artificiale usciva dalla porta socchiusa come un faro. Tra i cacciatori ci fu uno scambio di sguardi d'intesa. Due imbracciarono le armi, gli altri estrassero le fruste. Fruste in rame, molto adatte per una fata.
Nel frattempo, Marlene era riuscita a togliersi le manette ai polsi. Mentre prima Nick era ancora in stanza con lei girato di spalle, si era riuscita a sfilare una forcina dai capelli, trattenendola tra le mani con discrezione. Non appena avevano bussato e lui era uscito dalla stanza per correre ad aprire, l'aveva infilata tra il settore ovoidale dentato delle manette e la giuntura che ne teneva bloccata la corsa impedendole di aprirle senza chiave. Il primo tentativo era andato miseramente a vuoto ma non si era data per vinta e una volta che la parte dentata aveva trovato il liscio della forcina, il settore ovoidale era scivolato fuori, aprendosi. A quel punto si era liberata anche di tutte le altre manette.
Guardare film d'azione insieme a Peanut sul divano, le aveva insegnato un mucchio di cose. Quindi, mai dimenticarsi una forcina nei capelli.
In realtà era stata solo questione di culo, i polizieschi non le erano mai piaciuti in tutta la sua vita e spesso si addormentava dopo pochi minuti dall'inizio del film. Questa procedura le era rimasta particolarmente impressa per una scena di un rapimento che l'aveva profondamente impressionata. Ci aveva pure fatto degli incubi riguardo.
Samael rinserrò la presa sulla frusta e si avvicinò alla porta. Se tutto andava secondo i piani, quella sera si sarebbero portati a casa un bel bottino.
Ma non fece in tempo ad aprire l'anta, perché un'esplosione di energia la scardinò dalle cerniere e uno dei suoi uomini fu investito dal pannello.
Marlene uscì dalla stanza con la schermatura abbassata, niente più barriera per quella sera. Zoppicava, si teneva un fianco ma aveva riacquistato i poteri e anche se le energie erano rasenti lo zero, non aveva alcuna intenzione di farsi prendere. Piuttosto sarebbe morta.
«Eccoti, tesoro. Siamo venuti per te, sei felice?» Samael schioccò la frusta in aria, che produsse un rumore secco accompagnato da alcune scintille.
Marlene prese fiato, strinse i denti per il dolore e cercò di impegnarsi per quella che sarebbe stata la sua ultima lotta. O viveva o moriva. Perché alla fine, era di questo che si stava parlando. I cacciatori non erano certo andati lì per giocare.
«Noi Eidi siamo creature pacifiche.» Gli occhi le diventarono cangianti, i capelli iniziarono a muoversi per mano di un vento invisibile. L'energia frizzò tutt'attorno a lei. «Ma quando ci incazziamo, non facciamo sconti.»
Protese le mani davanti a se e l'energia esplose con un boato.
I cacciatori vennero travolti. Samael fu l'unico ad evitare il getto di energia, buttandosi di lato. Rotolò colpendo con la schiena il divano e cercò subito di sollevarsi.
Marlene però fu più veloce. Aprì la mano in sua direzione e bisbigliò alcune parole. Immediatamente il pavimento si spaccò e si aprì con uno sbuffo di fumo. Dalla crepa fumante, una pianta rampicante uscì come un tentacolo, agitandosi alla ricerca di un appiglio contro cui arrampicarsi. Non ci mise molto a trovare lì accanto il corpo di Samael e in pochi istanti gli si avvolse attorno alle gambe mentre questo tentava con fatica di liberarsi. Che stupido che era stato, non aveva preso le giuste precauzioni. Si era immaginato che la fata fosse stata resa inoffensiva e invece, quella dannata stava scappando. Nick Heets, quel lurido drogato; non era stato nemmeno in grado di finire la metà del lavoro.
«Prendetela.» gridò ai propri uomini, che si stavano lentamente rialzando da terra, ancora storditi. Nel frattempo lui cercò di estrarre dalla tasca una pistola. Doveva sparare a quella fottuta pianta. Quella cosa sembrava crescere a dismisura e avvolgersi con sempre più tenacia attorno al suo corpo.
Marlene si mosse con fatica verso la porta di casa. Voleva scappare da quel posto, era consapevole di non aver abbastanza forze per fronteggiare i cacciatori. Mentre si spostava nel salotto, uno degli uomini di Samael le si avventò addosso facendola cadere. I due rotolarono in terra e l'uomo l'afferrò per la gola, stringendo con uno sguardo carico di odio.
Il respiro subito si mozzò nel petto della giovane che iniziò ad aspirar grosse boccate di aria; aria che però sembrava arrivarle sempre meno nei polmoni, ostacolata dalla forte presa del cacciatore.
Gli occhi della fata si riempirono di lacrime. Strinse i denti mentre spostava le mani contro il petto dell'uomo. Non voleva farlo, non voleva proprio... ma doveva. O lui o lei. «Mi dispiace.» rantolò. E un getto di energia lo attraversò con così tanta forza da passarlo da parte a parte, creandogli un gigantesco buco all'altezza del petto.
L'energia della fata, seppur invisibile e intangibile, sparata a distanza così ravvicinata e con così tanta veemenza aveva preso la stessa forza di un proiettile.
Gli occhi dell'uomo si riempirono del nulla assoluto e crollò in avanti opprimendo Marlene con il proprio corpo ormai privo di vita. La fata se lo levò di dosso con uno scossone e si rialzò a fatica. Doveva scappare. Non c'era tempo. Lei stessa non aveva più forze.
Mentre Samael era ancora alle prese con la pianta rampicante e uno degli altri due uomini restava in terra svenuto, Marlene approfittò per trascinarsi dolorosamente verso l'uscita. Uno schiocco seguito da un sibilo la fece voltare ma le ferite alle gambe e la mancanza di energia non la fecero spostare in tempo per il colpo della frusta che le si avvolse attorno ad un polso tirandola in avanti.
Senza più equilibro la giovane si ritrovò a faccia in terra, con il piede del cacciatore spinto sulla schiena. «Ora stai ferma, bambolina.» le sibilò abbassandosi per afferrarla per i capelli. Voleva legarla con la frusta, almeno avrebbe avuto la certezza che non sarebbe fuggita.
Con un ultimo sforzo che le costò non poca fatica, Marlene tirò indietro la testa e sentì la collisione del proprio capo con il setto nasale dell'uomo. Il grido che ne seguì subito dopo le fece capire che aveva colpito abbastanza forte da rompergli il naso.
Si alzò di scatto e lanciò un'occhiata a Samael, visibilmente in difficoltà. Quest'ultimo era stato avvolto dai piedi fino alle spalle, solo la testa era rimasta fuori da quella trappola mortale e gli occhi trasudavano un odio indescrivibile che non aveva bisogno di parole per essere trasmesso.
Marlene si portò una mano al fianco, il respiro le usciva a scatti e ad ogni passo il dolore si irradiava con delle scosse per tutto il corpo. Nonostante questo, non si fermò e raggiunse la porta di casa, superando il corpo di Nick carponi in terra.
Stava per aprire il portone quando una mano le si strinse attorno alla caviglia. Mugolò di dolore abbassando lo sguardo e incontrò quello di Nick. Era ancora vivo. Non sapeva per quanto ancora, ma lo era.
Il medico cercò di parlare ma anziché la voce, dalla sua bocca uscì un gorgoglio indistinto. «Guarire.» rantolò a fatica. «I – io... io... non... guarire.»
«Se solo me lo avessi chiesto, prima... ti avrei detto che noi fate, non guariamo veloci come i mannari. Bastardo!» Si liberò dalla sua stretta e lo osservò giusto un attimo. Quel poco che bastava per veder la scintilla della vita spegnersi nei suoi occhi, che subito divennero vitrei e vuoti.
Nick era morto.
Strinse il pomello della porta così forte da farsi male. Gli occhi le si riempirono di lacrime e senza preoccuparsene lasciò che le colassero lungo le guance. «Stupido idiota... stupido che non sei altro. Ti avrei potuto aiutare. Avremmo trovato una soluzione.» Tirò su col naso e lanciandogli un'ultima occhiata aprì il portone e uscì da quella casa.
Non appena fu fuori il freddo della notte la colpì con prepotenza. Si strinse le braccia al corpo e decise di usare i rimasugli e le briciole della propria energia per alzare nuovamente la schermatura. Per lo meno, se qualcuno l'avesse vista in giro, non avrebbe gridato agli alieni. Pioveva a dirotto e non c'era anima viva. Non avrebbe potuto chiedere aiuto a nessuno. Inoltre, nelle condizioni in cui era, forse non sarebbe stato il caso. Addosso aveva ancora il camice ospedaliero ed era ricoperta di sangue non suo.
I piedi scalzi le facevano uno strano effetto sull'asfalto bagnato. Riconobbe il Chandler Park al di là della strada. Aveva lasciato la macchina nel parcheggio.
Quando era fuggita non si era nemmeno premurata a cercar i propri abiti o la borsa. Ormai non importava più. Non sarebbe rientrata in quella casa nemmeno se l'avessero pagata oro colato.
Attraversò la strada zoppicando, trattenendo il fiato ad ogni passo. Il dolore le faceva stringere gli occhi e digrignar i denti ma non poteva certo fermarsi.
Doveva allontanarsi quanto più possibile da lì.
Non appena i piedi si appoggiarono sull'erba fredda, Marlene si lasciò sfuggire un sospiro di piacere. Tenne un attimo gli occhi socchiusi e riprese a camminare con crescente fatica. Ad ogni passo, il fianco le gridava pietà.
Non sapeva per quanto ancora avrebbe resistito, sapeva solo che aveva bisogno di un bagno caldo e di stendersi su qualcosa di morbido.
Aumentò il passo. Se si fermava era spacciata. Non sarebbe riuscita a riprendere il cammino.
Il buio fitto si estendeva attorno a lei amalgamando ogni cosa e rendendo il posto spaventoso. Milioni di rumori e scricchiolii la facevano voltare con timore. E se i cacciatori la stavano seguendo? Quella domanda continuava a martellarle in testa.
Scivolò in una pozzanghera e rimase un attimo così, carponi e con lo sguardo rivolto a terra. Respirò con piccoli sbuffi che fecero increspar l'acqua in cui era affondata fino ai polsi. Si rialzò con fatica, sedendosi sui talloni e portandosi le mani ad un fianco. I calci di Nick le avevano sicuramente rotto qualcosa. Non poteva nemmeno sfiorarsi che il dolore esplodeva come fuochi d'artificio.
«Forza.» bisbigliò a se stessa, cercando di rimettersi in piedi.
Non ce la faceva più. Voleva andare a casa ma temeva che quello sarebbe stato il primo posto in cui l'avrebbero cercata. Un pensiero le andò subito alla sua Peanut. Sperava che stesse bene, almeno lei.
Si sollevò con un mugolio e avanzò di qualche passo prima che un fruscio richiamasse la sua attenzione.
Si voltò di scatto, cercando di captare qualcosa. I suoi occhi da fata potevano chiaramente vedere al buio, peccato che non ci fosse nulla che il suo sguardo percepisse. Nulla di evidente, per lo meno.
Un altro passo, un altro scricchiolio.
La tensione schizzò alle stelle tanto che le si accapponò la pelle. Un brivido la percorse interamente e quando si voltò, in lontananza vide una figura, china.
Per guardare meglio si sporse leggermente, il buio della notte rendeva i contorni di ogni cosa indistinti. Affaticata si aggrappò ad un cespuglio e per sorreggersi, senza volere un ramo si spezzò.
Il rumore che produsse sembrò echeggiare tutto attorno come uno sparo. In realtà fu quasi impercettibile ma non per la cosa che era ferma in lontananza.
Ci fu un movimento poi la creatura sollevò il capo e due fiammeggianti occhi gialli brillarono nel buio dritti proprio verso Marlene.
La fata si lasciò sfuggire un grido, mollò la presa sul cespuglio e nella fretta cadde indietro. Rotolò su se stessa sentendo la bestia correre in sua direzione a grandi falcate. Gli sbuffi del suo respiro erano udibili anche a lei, che era distante.
Quando Marlene riuscì a rimettersi a sedere, era troppo tardi. Davanti a lei un'enorme leopardo la fissava con sguardo famelico e privo di umanità. La bestia annusò l'aria e ringhiò.
Ebbe un tuffo al cuore non appena si rese conto di esser di fronte a qualche mannaro della zona, impregnata di sangue e probabilmente dall'aria appetitosa.
Le energie le crollarono definitivamente, la schermatura si dissolse rivelando la sua vera natura e affondando il viso nelle mani scoppiò a piangere. Se era così che doveva andare, avrebbe accettato la sua fine. Forse era destino che quella notte morisse.
Pianse tanto, fin quando non si sentì esausta. Nel frattempo la bestia non l'attaccò, anzi, rimase a fissarla in silenzio, abbastanza vicina da poterla colpire se solo lo avesse voluto.
Quando si sentì svuotata di ogni emozione, sollevò lo sguardo dalle mani. Il leopardo era ancora lì, immobile e con lo sguardo fisso su di lei.
«Sono patetica, vero?» domandò la fata, cercando di asciugarsi il volto dalle lacrime. Ma i mannari ti capivano quando erano in forma animale? Bella domanda.
Il leopardo avanzò cauto. Marlene non sapeva come comportarsi. Non sapeva se scappare o se provarlo a contrastare con le poche energie rimaste. Allungò una mano davanti a se, chiudendo gli occhi e aspettando il morso.
Improvvisamente sentì qualcosa di bagnato e ruvido contro il palmo. Aprì leggermente gli occhi e restò di stucco quando vide il leopardo leccarle la mano, come se la stesse confortando. La bestia avanzò ancora, inclinò leggermente la testa e con il muso le diede un leggero buffetto sulla spalla. A quel punto Marlene riconobbe in quegli occhi bestiali qualcuno che mai si sarebbe aspettata di veder lì; qualcuno che le aveva rivoluzionato la vita come un terremoto ma che da quando ci era entrato a far parte non aveva mai smesso di stupirla e starle accanto quando ce n'era stato bisogno.
Allungò la mano, sfiorandogli il muso con una leggera titubanza. Il leopardo si strofinò contro il suo palmo, socchiudendo gli occhi e producendo leggere fusa. «Oh, Amos.» biascicò lei scoppiando a piangere e gettandogli le braccia al collo. Rimase stretta alla bestia per minuti interminabili, piangendo di nuovo, fin quando le lacrime cessarono da sole. Aveva pianto così tanto che gli occhi le erano diventati due palle gonfie e rosse.
Quando si staccò da lui, l'animale indietreggiò di alcuni passi e si accovacciò come in posizione di attacco. Marlene restò a fissarlo affascinata mentre la mutazione iniziava il processo inverso riportandolo alla sua forma umana.
La giovane si coprì gli occhi quando sentì le ossa rompersi per riassumere la loro originaria postazione, sbirciò attraverso le dita ma non appena notò la muscolatura comprimersi e il viso deformarsi tornò a coprirsi il viso.
Il tempo sembrò fermarsi mentre ringhi e bruiti lasciavano posto a mugolii di dolore misti a gemiti. Marlene attese, senza voler assistere a quella dolorosa trasformazione e quando delle calde mani si appoggiarono sulle sue, sussultò lasciandosi sfuggire un gridolino.
«Ehi, sono io.» le bisbigliò dolcemente Amos, stringendole le mani e spostandogliele dal viso.
Quella voce e quel tocco furono la conferma che la fata tanto attendeva. Schiuse debolmente gli occhi e lo fissò come si può fissare un miraggio. Lui stava lì, in ginocchio davanti a lei, completamente nudo e bagnato fradicio sia dalla pioggia ma anche per via della trasformazione. A vederlo le sfuggì un sospiro di sollievo, si accasciò contro di lui socchiudendo gli occhi. Ora che c'era Amos non aveva più bisogno di fingersi forte; ora che c'era lui poteva concedersi un attimo di tregua da tutto.
Mentre restava così, appoggiata contro il suo petto solido che si muoveva con cadenza regolare su e giù, si sentì sollevare di peso. Istintivamente gli allacciò le braccia al collo e socchiuse gli occhi, lasciandosi trasportare non so dove. Non le importava a dir il vero, ora non aveva più paura. «Come hai fatto a trovarmi?» chiese.
«Ti troverei ovunque.» le bisbigliò all'orecchio facendola rabbrividire.
«Lo sai che sei completamente nudo, vero?» Che domanda sciocca. A pensarci Marlene si diede della stupida. La risposta era così ovvia.
Amos si lasciò sfuggire una risata. Il peso che gli opprimeva il cuore era momentaneamente svanito. «Lo so, ma non sono ancora capace di legarmi i vestiti alla coda.»
La fata sorrise contro il suo petto, senza aprire gli occhi. Lo sentì camminare lentamente, per ammortizzare ogni passo. Ogni suo movimento le procurava una fitta che partendo dalle gambe si irradiava in tutto il corpo. Era così messa male che non sapeva dove avrebbe trovato ulteriori forze per camminare se non l'avesse trovata lui.
Probabilmente si addormentò per qualche minuto perché ad un certo punto riaprì gli occhi con un sobbalzo e si trovò nella propria auto ancora ferma nel parcheggio adiacente al Chandler Park. Era seduta al posto del passeggero, Amos era lato guidatore, aveva aperto la copertura del piantone dello sterzo e stava trafficando con un morsetto e con i connettori dei cavi. «Che fai?» chiese flebilmente lei, con la voce altalenante per via della mancanza di forze.
«Hai per caso le chiavi della tua auto qui con te?»
Lei scosse debolmente la testa.
«E allora in qualche modo devo accenderla.» replicò con un sorrisetto lui. Spellò il filo della batteria e quello dell'avviamento intrecciandoli tra loro, il quadro del cruscotto si accese. A quel punto spellò altri due fili e li avvicinò tra loro finché non produssero alcune scintille.
«Dove hai imparato questa roba?» domandò Marlene, sistemandosi meglio sul sedile. Le piaceva osservarlo, anche se la sua nudità stava mandando letteralmente a farsi fottere il lato razionale. Era priva di forze ma non certo scema e Amos nudo era quanto di più bello avesse mai visto in tutta la sua vita. Di uomini in fondo ne aveva avuti pochi e mai all'altezza di Amos. Insomma, erano persone normali.
«Non lo vuoi sapere realmente.» le rispose lui ridendo. Trafficò ancora un po' prima che l'auto si accendesse del tutto, a quel punto diede gas facendola rombare. Salì e chiuse lo sportello. «Ora ti porto a casa, okay?»
«No.» gridò Marlene, scattando in avanti e afferrandolo per un braccio. Gli occhi sgranati e dilatati erano pieni di paura. Tremava come una foglia e le lacrime erano già sull'orlo dell'occhio, pronte a rotolare giù. «Ti – ti prego, no.»
Lui si sporse in sua direzione afferrandole il viso delicatamente. Marlene ebbe un sussulto, a causa delle contusioni che le aveva procurato Nick ma non staccò lo sguardo da lui. «Ti porto a casa mia allora, okay?»
Lei si morse nervosamente il labbro, così forte da farsi male e annuì. A quel punto si adagiò contro il sedile, con la testa rivolta verso di lui e socchiuse gli occhi.
Ci volle un attimo prima che le forze scendessero a picco e il sonno la avvolgesse come una calda coperta.
Amos uscì dal parcheggio e si immise nella strada, stringeva il volante con così tanta ferocia che se non si fosse placato lo avrebbe sicuramente rotto. Con la coda dell'occhio la osservò addormentata e sfinita. Era piena di lividi e ferite che disseminate in tutto il corpo le creavano una mappa di tumefazioni impressionante. Inoltre era scalza e indossava una tunica ospedaliera. Cosa cazzo le avevano fatto?
Non sapeva quello che le era successo ma dal sangue che la ricopriva interamente le avevano di certo fatto qualcosa di spiacevole e questo lo mandava in bestia. Qualcuno le aveva fatto qualcosa.
Qualcuno che aveva le ore contante.
Il ringhio della bestia gli vibrò in gola mentre svoltava dirigendosi verso casa.
Nessuno poteva ridurla in quello stato senza pagare, nessuno sarebbe sopravvissuto.
E questa era una certezza.
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