CAPITOLO 35

Le raccomandazioni di Amos erano state perentorie e persuasive, tanto che Marlene stava continuando a guidare a velocità sostenuta senza la minima intenzione a fermarsi. Probabilmente era stato lo sguardo unito al tono di voce preoccupato a mettere in tensione la fata, che durante il tragitto aveva formulato una lunga lista di pensieri dai più ai meno negativi.

Mai come in quel momento avrebbe preferito aver qualcuno a casa pronto ad aspettarla a braccia aperte. Non voleva ammetterlo ma era rimasta male quando Amos le aveva detto della riunione, forse perché in cuor suo si aspettava di tornare a casa con lui.

Dopo la mattinata passata tra le sue braccia, la giornata le era volata via rapidamente. Ci aveva messo un po' per riprendersi da quello che stavano per fare sul suo letto e quando si era riscossa da tutti quei pensieri erotici era già ora di pranzo.

Aveva mangiato un boccone ogni dieci minuti con la faccia impiantata verso un punto indefinito della stanza e Peanut che la osservava come se fosse la pazza del paese.

Ridacchiò a quel pensiero e svoltò in Hamilton Avenue, ormai era vicino a casa.

Non sapeva quanto tempo ci avrebbe messo Amos per la riunione, sapeva solo che a lei a casa l'aspettavano quattro sacchetti giganteschi di compere pazze che aveva fatto durante il pomeriggio, poco prima di andare al lavoro.

Quando Amos quella mattina se n'era andato, si era resa conto che nel suo guardaroba non c'era nulla di abbastanza femminile... quel genere di femminile che lei non era solita indossare, soprattutto riguardo l'intimo. Così aveva fatto tappa da quella simpatica commessa che le aveva venduto l'intimo per il compleanno di Victoria e si era fatta un piccolo guardaroba nuovo tra pigiami, reggiseni, mutandine di varie tipologie e aveva osato, comprando perfino un corpetto.

Non lo avrebbe mai messo. Se lo sentiva.

Intanto lo aveva comprato, non si sa mai.

Parcheggiò davanti casa un po' troppo bruscamente, tanto che la borsa le volò ai piedi del sedile ed essendo aperta, si rovesciò tutto il contenuto.

Compreso il famoso pacco, quello che le era arrivato al lavoro ma che non aveva avuto tempo di aprire.

Rimettendo tutto il resto in borsa, lo prese tra le mani e lo rigirò curiosa.

Chi poteva averle mandato un pacchettino? Il cuore iniziò a martellarle in petto al pensiero che la sua famiglia si fosse presa la briga di mandarle un pensiero. In fondo, erano in pochi a saper dove lavorasse.

Era anche consapevole però che gli attriti con i genitori non li rendessero così propensi a mandar pacchetti random, quando non c'era un'effettiva ricorrenza. Infatti il suo compleanno era verso fine Novembre, e ancora mancava parecchio prima del fatidico cambio età.

Con crescente curiosità spense l'auto e strinse il pacchetto tra le mani come una bimba ghiotta di regali di Natale. Lei era una che amava ricevere regali, cosa che da quando era in Michigan le capitava con sempre meno frequenza.

Senza riuscire ad aspettare di salire in casa, iniziò a scartarlo seduta ancora al posto di guida. Strappò la carta con un pizzico d'impazienza e un velo di trepidazione nello sguardo. Non riusciva proprio ad immaginare cosa potesse essere.

Quando tolse anche l'ultimo pezzo di carta lanciandolo ai piedi del sedile, restò sorpresa e anche un po' confusa della scatola rettangolare che teneva tra le mani.

Si trattava di un cellulare di ultima generazione, uno di quelli che costano quasi quanto un computer. Non si era mai potuta permettere un simile apparecchio. Con la sua semplice paga, aveva così tante spese a volte che a fine mese ci scappavano veramente pochi sfizi.

Si rigirò tra le mani la scatola, osservandola con sospetto, sul retro un piccolo foglietto piegato in quattro era stato attaccato con del semplice scotch. Chiunque le aveva fatto quel regalo, era a conoscenza del fatto che di recente il suo cellulare si era rotto. E c'erano poche persone che sapevano questa cosa.

Tolse il bigliettino dalla scatola che appoggiò momentaneamente sul sedile del passeggero. Indugiando un attimo sul foglietto, lo aprì leggendone le poche righe contenute.

Sul volto di Marlene si dipinse un sorriso contento, trattenuto a freno da un forte conflitto interiore. Sul foglio, c'era scritto:

"Questo regalo te l'ho preso per farmi perdonare di tantissime cose.

Una fra queste è quella di non essere stata abbastanza amica, usando il mio egoismo come scudo.

Vediamoci al Chandler Park, come all'ultima nostra uscita. Ho bisogno di vederti, fare pace, chiarire.

Ti voglio bene, V."

La scrittura un po' ondeggiante e a volte incomprensibile era proprio quella di Victoria, la sua amica... o ex. Beh, insomma... non lo sapeva più nemmeno lei ciò che erano.

Ricordava perfettamente il giorno che era andata al Chandler Park. Victoria era in lacrime per un ragazzo che non l'amava e di cui lei era follemente innamorata. A quel tempo Marlene ancora non sapeva che il tipo in questione era proprio Amos. La fata rilesse nuovamente il biglietto e si chiese se quel ritrovo non fosse un ennesimo espediente per ricordarle sottilmente quanto lei ci soffrisse per lui. Magari puntando sul suo senso di colpa.

Richiuse il foglietto e sospirò.

Non sapeva cosa fare. Quel foglietto l'aveva nuovamente catapultata in un limbo che pensava di aver superato. Se da una parte era invogliata a riprendere l'amicizia con Victoria, dall'altra non era più disposta a lasciarsi sfuggire Amos.

Forse era bene dirglielo. Forse era bene vederla e mettere le cose in chiaro.

Se volevano essere amiche, queste erano le condizioni. In fondo lei la sua occasione l'aveva già ampiamente avuta e non era andata bene. Ora doveva lasciar ad Amos la scelta e la libertà di scegliere chi frequentare. Non aveva più alcun diritto verso di lui, dopo oltre un anno.

Magari avrebbe accettato ugualmente questa cosa, col tempo forse se ne sarebbe fatta una ragione.

Appoggiò il foglietto sopra il pacchetto del cellulare e accese l'auto.

Con sguardo indeciso fissò la porta dell'atrio del condominio. Non sapeva quanto sarebbe durata la riunione del branco di Amos, forse sarebbe riuscita ad andare all'appuntamento con Victoria e tornare indisturbata prima del suo arrivo.

Guardò fuori dall'abitacolo, il buio era calato come un coperchio sulla città, le strade erano particolarmente deserte e non c'era anima viva. Istintivamente si strinse le spalle, ricordando le parole di Amos e conscia che proprio in questo momento stava parlando con la sua gente di persone altamente pericolose che scorazzavano sul territorio. Non era sicuro uscire a quell'ora, non dopo che i cacciatori l'avevano individuata e sapevano cos'era.

Eppure, non poteva nemmeno dar buca a Victoria perché questo non avrebbe fatto altro che aumentare la voragine di incomprensione che già esisteva tra loro.

Accese l'auto maledicendo il tempismo della mannara, lanciò un ultimo sguardo a casa sua per poi immettersi in Webb Street e ripercorrere il percorso a ritroso.

Chandler Park era proprio vicino al St. John Hospital.

Per ingannare il silenzio, accese la radio canticchiando sommessamente qualche canzone a bocca chiusa. L'aiutava a scacciare la tensione che si accumulava man mano che si avvicinava al parco.

Una delle ultime volte che c'era passata davanti con il buio, aveva incrociato quel grizzly gigantesco, scoprendo in seguito che si trattava di un mannaro. Non era certa che Victoria avesse avuto una buona idea a chiederle di vedersi proprio lì. Ma sicuramente non doveva trattarsi di una chiacchierata infinita, anzi, era convinta che sarebbe stato qualcosa di molto rapido.

Senza nessuno in giro per la strada, arrivò molto prima di quanto immaginasse. Prima di scendere controllò tutto attorno, non c'era traccia dell'amica. Ancora non riusciva a comprendere il perché di quel posto. Non che per loro avesse chissà quale particolare significato.

Spense l'auto e mise il cellulare nel vano porta oggetti, nascondendolo alla vista. Non voleva le sfondassero il vetro per rubarglielo. Inoltre non era ancora sicura al cento per cento che avrebbe accettato un simile regalo senza una valida motivazione.

Afferrò la borsa con un rapido gesto e scese dal veicolo richiudendosi la portiera alle spalle. Il freddo della sera la punzecchiò come una scarica di aghi sulla pelle. Si strinse maggiormente nella felpa e volse lo sguardo verso il parcheggio. Era completamente vuoto. Le luci dei lampioni tremolavano lasciando che la fioca luce illuminasse una vastità di posti auto completamente vuoti.

Si aspettava di veder almeno un'auto parcheggiata, non tanto quella di Victoria che era ancora in riparazione ma almeno quella del fratello o una delle tante che possedevano. Invece nulla.

Una folata di vento le scompigliò i capelli che le svolazzarono schiaffeggiandole il viso. I lampioni sfarfallarono ancora una volta, così prossimi a spegnersi e lasciar tutta la zona al completo buio.

Marlene si mosse verso il parco, continuando a scoccare occhiate ansiose tutt'attorno a se. Il vento che si stava alzando fischiava sottilmente tra gli alberi dandole l'idea di essere accerchiata. Tutto in quel posto sibilava. Il rumore si espandeva strisciando tra le foglie e i fili d'erba.

Uno scricchiolio la fece rabbrividire e s'immobilizzò scandagliando con lo sguardo il perimetro attorno a lei. Non c'era nulla. Nemmeno Victoria a dire il vero.

Continuò a camminare stringendosi la borsa al petto e arrivò quasi correndo alla panchina su cui si erano sedute la volta scorsa.

Aveva iniziato a piovere, non forte. Alcune gocce di pioggia le bagnavano il viso.

Marlene alzò gli occhi verso il cielo, coperto da gigantesche nubi grigie. C'era qualcosa di triste in quel cielo. Qualcosa di tremendamente malinconico.

Con la mano gelida, strinse lo schienale della panchina vuota. Victoria non c'era e probabilmente non si sarebbe presentata. Forse l'appuntamento era per l'ora in cui le avevano consegnato il pacchetto.

Improvvisamente si sentì tremendamente stupida a essere lì, a quell'orario e sotto la pioggia ad aspettare una persona che la sera prima l'aveva maltrattata con cattiveria e senza ascoltare obiezioni. Chi le diceva che si sarebbero chiarite? Chi le assicurava che questo non fosse un semplice scherzo di cattivo gusto?

Stava per andarsene quando uno scricchiolio attirò la sua attenzione. Era qualcosa di trascurabile, qualcosa che poteva provenire direttamente dai piccoli abitanti del parco come rane o altri animaletti che quando pioveva uscivano fuori. Eppure le era sembrato di sentire anche una risata, seppur bassa e trattenuta.

Scrollò le spalle, cercando di scacciare quella brutta sensazione, come se qualcuno la osservasse. Ancora.

Era una sensazione che ultimamente le capitava spesso e ogni volta la faceva sentire sempre più a disagio. Ultimamente le prendevano brevi momenti di ansia e attacchi di panico. Sapeva che così continuando sarebbe degenerata la cosa. Doveva parlarne con qualche collega, magari per aver consigli utili.

Restò immobile minuti che le sembrarono un'eternità, in quel silenzio che veniva spezzato solo dai rumori della natura. Ci era abituata lei, alla natura. Era una fata d'altronde.

Guardò un'ultima volta la panchina vuota e decise di tornare a casa. Non sarebbe rimasta in attesa di Victoria, anche perché con ogni probabilità non si sarebbe presentata e la pioggia iniziava a cader fitta rendendo il paesaggio ancor più lugubre.

Rinserrò la presa sulla borsa sospirando sommessamente. Peccato, sarebbe stato bello trovarla lì e far pace, magari piangendo a dirotto una tra le braccia dell'altra. Si spostò da un piede all'altro, soppesando l'idea di restare, magari ancora qualche minuto quando qualcosa l'afferrò di peso. Immediatamente un campanello di allarme scattò in lei. Tutto sembrò per un attimo accelerare.

Il suo cervello iniziò a formulare milioni di tremende ipotesi. Era buio, era sola, era in un parco.

Si divincolò spaventata tra le braccia del suo aggressore, così strette attorno a lei da impedirle di muoversi. Fece leva sulle mani per spingerlo via allentando la presa ma questo, scoppiò a ridere e premendola contro di se strofinò la propria erezione contro il suo sedere.

Marlene si lasciò sfuggire un grido. Il cuore le martellò in gola, pronto a esplodere dalla paura. Urlò ancora quando si sentì sollevata da terra. Ma chi l'avrebbe sentita lì? Era un posto isolato. Un dannatissimo posto isolato, perfetto per un'aggressione. Perfetto per una trappola.

Affondò le unghie nella pelle dell'uomo che la tratteneva e questo la spinse con forza in avanti, contro la panchina. Con la bocca le si avvicinò all'orecchio, senza dire nulla ma solo passandole la lingua sul bordo e prendendole tra i denti il lobo.

La fata scalciò strillando e questo non fece che aumentare l'eccitazione dell'assalitore. Si sentì compressa tra lui e lo schienale della panchina.

Gli occhi le si gonfiarono di lacrime, scossa dai tremiti dell'angoscia.

Cercò di liberarsi invano e quando si accorse che così non poteva continuare, decise che l'unico modo per salvarsi era abbassare la schermatura e liberare la sua natura. Doveva farlo, a costo di rivelar all'ennesima persona la sua vera identità. Così si concentrò un attimo prima lasciar cadere la barriera ma l'aggressore le mise prontamente un panno sulla bocca. Non riuscì nemmeno a terminare il procedimento.

Marlene sgranò gli occhi, l'odore pungente del cloroformio le salì dritto fino al cervello. Venne assalita da un tremito e subito sentì freddo. Le braccia le ricaddero lungo il corpo inermi, si sentì sempre più debole e con gli occhi pesanti. Li socchiuse un attimo. No, non poteva cedere. Doveva resistere.

Sapeva perfettamente cosa succedeva quando il cloroformio prendeva il sopravvento.

L'aggressore spinse il panno con più forza contro il suo viso impedendole di ricercar aria pulita, un'altra risata gli sfuggì dalle labbra serrate. Una risata che la fata conosceva. Conosceva bene.

Marlene cominciò a veder appannato, si sentiva confusa. Le gambe le cedettero brevemente, mentre la testa le ciondolò indietro alzando involontariamente il viso al cielo. Scrosci di pioggia le picchiettarono il volto come una miriade di freddi polpastrelli. Un altro brivido la percorse.

«Ora ci divertiremo.» le bisbigliò all'orecchio Nick, passandole la lingua sul collo.

Cercò ancora una volta di divincolarsi, ormai priva di forze. Non resse il proprio peso, scivolando su se stessa, trattenuta saldamente dalle braccia di Nick. La testa iniziò a vorticarle terribilmente, il respiro divenne sempre più affannoso. Socchiuse gli occhi un attimo, solo un attimo... poi il buio.

Il buio completo.

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