CAPITOLO 32

Marlene la sera prima era uscita da casa Jasmann con un diavolo per capello e tanta voglia di fare baracca e burattini per tornarsene a casa sua in Scandinavia.

C'era stato un momento nel tragitto, che ci aveva veramente pensato ma poi il bollore della rabbia era scemato lasciandole in bocca un sapore amaro che non avrebbe digerito tanto facilmente.

Si può dire che in un'unica cena aveva liquidato tutti i contatti che si era creata negli anni in Michigan. Tutti in una botta sola. Un colpo da maestro.

Si era per un attimo aspettata che Amos la seguisse e invece, l'aveva lasciata percorrere il vialetto dei Jasmann a velocità sostenuta, quasi fatata da quanto si muoveva in fretta e alla fine, quando al primo chilometro se n'erano aggiunti altri aveva capito che nessuno l'avrebbe rincorsa.

Non riusciva ancora a credere al susseguirsi degli eventi della sera prima. Quella sciocca di Victoria aveva riempito Nick di domande subdole e fuorvianti a cui lui aveva risposto in maniera altrettanto fuorviante. Ne era rimasta talmente spiazzata che da brava stupida non aveva proferito parola ed era rimasta ammutolita davanti a quella scena così priva di logica.

Doveva imparare a reagire di più. A dire le cose come stavano realmente anziché aprire la bocca sgomenta e richiuderla a fine serata.

Di cose ne erano successe parecchie e quella mattina quando si era svegliata era rimasta a fissarsi le mani per una buona mezz'ora. Mai avrebbe pensato che un giorno avrebbe schiaffeggiato proprio la sua migliore amica. Mai avrebbe pensato di litigare con lei per qualcosa che ancora non aveva del tutto fatto e contro cui aveva combattuto sin dal principio.

Perché sì, tra lei e Amos le cose si erano fatte un po' calde la mattina prima ma non erano ancora scattati al livello successivo, quello della camera da letto e i vestiti in terra. Victoria le aveva dato della puttana a prescindere, senza nemmeno saper veramente i fatti nel dettaglio.

Non che ora avesse più importanza, ma le dispiaceva che la ritenesse una poco di buono quando aveva combattuto con tutta la sua razionalità per resistere a quel gran figo. Perché diciamocelo, Amos era figo. Su questo non ci pioveva.

Marlene sospirò, allungando le mani sulla testa e strofinandosi il viso. Indossava uno di quei pigiami degni delle migliori catene per dodicenni romantiche, un completo color rosa pallido con disegnati innumerevoli gatti in svariate posizioni. Il suo preferito era uno sul colletto che rincorreva un gomitolo.

Peanut si allungò al suo fianco, imitandola e la fata non riuscì a trattenere un sorriso. Nonostante la sera prima le avesse regalato un misto di emozioni contrastanti tra cui rabbia, delusione e tristezza, Peanut sapeva sempre strapparle un attimo di leggerezza.

«Vieni qui, cicciona.» L'afferrò per la vita baciandole a ripetizione il capo. La micia miagolò socchiudendo gli occhi e subito prese a far le fusa. «Andiamo a fare colazione.»

Come se avesse compreso quelle parole, Peanut saltò giù dal letto e corse in cucina iniziando a miagolare concitatamente. Aveva fame.

Quando la fata finalmente si alzò, accusò un terribile cerchio alla testa. La sera prima si era così tanto arrabbiata che alla fine non era riuscita nemmeno a piangere. Dopo aver chiamato il taxi era rimasta per tutto il tragitto imbambolata con lo sguardo fisso avanti a se, tanto che il taxista le aveva chiesto se stava bene.

No, non stava bene. Dannazione.

Per quanto quella mattina tentasse di non pensare a niente se non a se stessa e alla giornata di lavoro che l'aspettava, non riusciva a smettere di portare i propri pensieri ad Amos. Lo sguardo che le aveva lanciato per tutta la sera precedente era pieno di disprezzo e delusione. Solo a fine serata, Marlene aveva compreso il motivo della sua rabbia. Lui pensava che lei e Nick fossero una coppia. Solo a immaginarselo le venivano i brividi.

Ad ogni modo, si pentiva per non aver messo in chiaro le cose almeno con lui. Ieri sera si era presa della poco di buono troppe volte per sopportarlo. E se con Victoria sarebbe stato inutile cercare un riavvicinamento, almeno ad Amos voleva dire che di tutto quello detto ieri su lei e Nick nemmeno l'un per cento era vero.

Era stata proprio una sciocca a non esser intervenuta subito. Dannato il suo carattere introverso, chiuso e poco incline al litigio. Per evitare a Nick e Victoria un'imbarazzante figura, era stata zitta. E ora, col senno di poi, aveva sbagliato completamente.

Prima di iniziare colazione, preparò il cibo a Peanut e la osservò mentre si ingozzava come suo solito. Quella gatta era la personificazione dell'ingordigia, a differenza sua che quando era nervosa le si chiudeva lo stomaco. Una cosa però entrambe avevano in comune: non si fidavano degli estranei.

Forse per via del passato o semplicemente perché temeva gli umani, Peanut era sempre stata con le persone nuove molto schiva. Infatti spesso se la fata aveva visite, si nascondeva sotto il divano. Non che Marlene avesse chissà quale vita sociale, ma di tanto in tanto qualche collega infermiera le aveva fatto visita.

Sorseggiando svogliatamente una tazza di latte accese la televisione, un giornalista alquanto allarmato stava raccontando davanti alla telecamera dell'ennesimo corpo mutilato rinvenuto nei boschi. Milioni di supposizioni vennero fatte nei successivi minuti, cercando di attribuire tutte le colpe agli animali selvatici presenti nella zona. Marlene però sapeva bene che non erano gli animali gli artefici di quelle morti e questa cosa la faceva rabbrividire.

Il pensiero che là fuori ci fosse gente tanto cattiva e disposta a simili nefandezze, le faceva un po' perdere la fiducia nel prossimo.

Stava ricominciando a far zapping quando qualcuno bussò alla porta talmente energicamente da farla sobbalzare. Guardò un attimo l'orario e in cuor suo pregò non fosse Nick. La sera prima si erano lasciati in malo modo o meglio, lei lo aveva piantato in asso e a dire il vero non se ne pentiva.

Tra lui e Victoria avevano messo su un teatrino patetico e inverosimile, non aveva alcuna voglia di confrontarsi con lui. Dopo la serata passata all'insegna delle bugie, aveva fatto non uno ma cento passi indietro e ora gli avrebbe dato giusto le confidenze per una adeguata convivenza pacifica e lavorativa.

Tra l'altro doveva ancora capire come riuscisse a salire fino al terzo piano senza citofonare da fuori. Si augurò che non avesse suonato ai vicini, magari temendo che non gli avrebbe aperto. Prospettiva che a dire il vero l'allettava particolarmente.

Quando guardò dallo spioncino si ritrasse così velocemente che per poco non scivolò in terra come la più goffa fra le imbranate.

Ad aspettare che aprisse la porta, c'era un Amos leggermente nervoso che continuava a camminare avanti e indietro senza riuscire a fermarsi in un punto preciso. In mano aveva qualcosa ma lei da quella micro fessura non riusciva a distinguere bene cosa fosse. Il pasura si tormentava il labbro con una tensione visibile, sembrava a profondo disagio lì nel corridoio.

Dopo il litigio della sera precedente, Marlene non si sarebbe mai aspettata di vederlo proprio davanti alla sua porta. Se da un lato era enormemente stupita, dall'altro lo stomaco aveva preso a farle capriole.

Solo quando stava per aprire si vide con la coda dell'occhio nello specchio del corridoio. «Oddio.» rantolò guardandosi il candido pigiama da dodicenne e il viso stravolto dai segni del mancato sonno.

Fece dietrofront andando verso la porta della camera intenzionata a cambiarsi ma lui, impaziente, bussò ancora.

«Cazzo.» biascicò Marlene tornando sui suoi passi quasi in scivolata. Afferrò il pomello della porta, lo liberò dal chiavistello, girò la chiave nella toppa e aprì.

Sperava che il pigiama e il suo aspetto pietoso fossero le ultime cose che avrebbe notato di lei.

Quando Amos sentì la porta aprirsi, lo stomaco gli si strinse in una morsa. Era andato lì con le migliori intenzioni e invece a vederla gli veniva voglia di rimproverarle ancora tutto. La storia di Nick proprio non la riusciva a mandare giù. Non voleva credere che avesse un uomo e che si fosse lasciata andare con lui mentre in realtà era occupata. Non le era sembrata quel genere di ragazza e invece, la sera prima aveva scoperto delle cose che lo avevano in qualche modo ferito.

Non lo avrebbe mai ammesso, ma da quella cena ne era uscito distrutto.

Con lo sguardo la scandagliò senza nasconderlo. Il pigiama che indossava le conferiva un'aria così candida e dolce che il pasura si lasciò cader le braccia lungo i fianchi.

Emanava il suo solito profumo, dolce e persistente. Restò a fissarla in silenzio mentre la fata si ravviava nervosamente i capelli dietro le orecchie. Dallo sguardo sembrava tesa almeno quanto lui.

La bestia ribollì sotto pelle non appena Marlene si morse nervosamente un labbro. Una parte di lui voleva che quella femmina fosse sua. Sua soltanto.

Strinse il pugno libero cercando di ricacciare indietro quell'istinto primitivo di possesso. Non era sua e doveva farsene una ragione.

«Cia – ciao.» farfugliò lei, aggrappandosi alla porta come se tentasse di non capitolare in terra come una ragazzina alla vista della sua prima cotta.

Amos serrò la mandibola. Avrebbe voluto baciarla, infossare il viso nei suoi capelli e respirare il suo profumo fino a inebriarsi. O magari stringerla tra le braccia così tanto da toglierle il respiro per poi scoparla selvaggiamente in ogni zona della sua casa ma si impose di mantenere le distanze. Il solo pensiero gli bruciò tra le gambe come un fuoco e l'erezione spinse prepotente contro i pantaloni.

Cazzo, no. Non ora. Se ne sarebbe sicuramente accorta.

Inspirò a fondo prima di parlare. Sentiva i muscoli così tesi da fargli male. «Questo è tuo.» Allungò la mano e le porse il portafoglio. Gli tremò il braccio nel tenderlo avanti a se, la sua presenza lo destabilizzava completamente.

Marlene prima di prenderlo strabuzzò gli occhi e lo fissò a lungo senza dire niente. Che ci faceva lui con il suo portafoglio?

«Era nello zaino che mi hai dato. Per correttezza ho preferito dartelo di persona dato che ci sono carte di credito e documenti.» aggiunse vedendo il disappunto nello sguardo della giovane.

Ma certo. Ora Marlene ricordava. Quando stava tornando a casa aveva appoggiato la borsa aperta sul sedile e lo zainetto ai suoi piedi, doveva sicuramente essergli scivolato dentro in qualche brusca frenata. Allungò la mano e lo prese con delicatezza, badando bene a non toccare le sue dita. Non voleva aver nessun contatto con lui, sapeva cosa riusciva a provocarle. «Ti ringrazio, sei stato molto gentile.»

Amos annuì. Bene, ora doveva proprio andare. Sarebbe voluto restare con lei ma no, non poteva. Non con una femmina già fidanzata. Inoltre si sentiva uno stupido a restare a fissarla con chissà quali aspettative. Doveva smettere di farsi fottere il cervello da quella femmina. Era occupata, punto. «Senti... devo andare.» disse di botto, girandosi senza nemmeno salutarla e scendendo la prima rampa di scale quasi di corsa.

Marlene rimase interdetta da quella fuga. Di solito era lei quella in fuga e lui quello che la riusciva in un modo o nell'altro a far restare. Restò a guardare la sua schiena che spariva prima di decidersi che non poteva lasciarlo andare così. Non prima di aver chiarito e di avergli detto quello che pensava.

Così lanciò il portafoglio in casa e socchiudendo la porta gli corse dietro. Scalza.

Quando lo raggiunse il cuore le pompava talmente forte in petto da fischiarle nelle orecchie. Aveva il fiatone ma non certo per la corsa. Lo afferrò per un braccio strattonandolo abbastanza da farlo girare. «Ma sei stronzo o cosa?» strillò lei, inferocita.

In quei passi che la separavano da lui aveva cercato un valido motivo per non arrabbiarsi e no, non l'aveva trovato. Non aveva trovato nulla che non la facesse incazzare abbastanza da non gridargli contro.

Amos la fissò allibito. Era la prima volta che si sentiva colto di sorpresa da una femmina. Non era da lui. A dire il vero con Marlene capitava molto più spesso di quanto immaginava. Quella giovane aveva qualcosa che lo riusciva a mandare in tilt. Eppure lui con le femmine non era un tipo insicuro.

Marlene non gli diede tempo di parlare. Continuò inferocita. «Perché mi tratti così ora? Cosa ti ho fatto?» istintivamente serrò la presa sulla camicia, non tanto per la rabbia, quanto più per il timore delle risposte che avrebbe ricevuto. «Ti – ti faccio schifo?» la voce le morì in gola.

Non voleva credere che fosse per tutto ciò che avevano detto Victoria e Nick, credeva che lui fosse un tipo sveglio, che capisse che maggior parte delle cose dette erano menzogne.

Amos si voltò a guardarla di scatto. Dentro di lui stava montando una rabbia e uno smarrimento mentale che lo faceva incazzare ancora di più. La testa gli stava esplodendo. Fanculo tutta quella situazione, non ci stava più capendo un cazzo. Cosa diavolo voleva da lui quella femmina? Si sentiva uno yo-yo tra le sue mani. «Perché non mi hai detto di Nick?» tuonò con un balenio di occhi preoccupante. In un lampo gli diventarono gialli. La bestia ruggì in profondità, anche lei furiosa.

«Nick? Cosa dovevo dirti su lui?»

Non sopportava negasse ancora. «Non lo so. Forse che ci stai insieme?» Amos colpì con un pugno la parete, incrinandone la superficie. Dal cratere che si formò si diramarono spesse e profonde crepe. «Perché non mi hai detto che eri fidanzata? Perché ho dovuto scoprirlo da Victoria?» gridava.

Victoria. Che gran bugiarda. «Cosa? Tu sei matto.» sbottò sconvolta.

Come poteva credere ad una simile sciocchezza? Glielo aveva ampiamente dimostrato di essere interessata a lui, la mattina scorsa. E soprattutto perché non le aveva chiesto chiarimenti anziché comportarsi da perfetto stronzo per tutta la serata? Avrebbero risolto milioni di cose, anziché star lì a litigare come due stupidi.

«Io, matto? Tu invece sei sicura di sapere veramente cosa vuoi dalla vita? Perché non mi sembra, cazzo!» gli occhi di Amos divennero sempre più gialli. Anche la bestia voleva metter becco in quella discussione.

Quell'arroganza la fece infuriare ancora di più. «Ma cosa ne sai tu della mia vita, eh? Cosa sai di cosa voglio veramente?» Marlene lo strattonò per la camicia, senza risultato dato che la marmorea presenza di Amos restò immobile.

«Non lo so infatti, dimmelo! Dimmelo, Marlene!»

Stavano urlando così forte che una signora si affacciò con aria minacciosa scoccando uno sguardo di fuoco prima a lui e poi a lei. «Avete finito con questo baccano? Maleducati!» domandò tutta impettita fissandoli con rancore.

«Si faccia i cazzi suoi.» le gridano entrambi, all'unisono, troppo adirati per prendersi la briga di mettere da parte anche solo per un secondo la loro litigata.

La donna richiuse la porta con un colpo secco e Amos tornò a guardare Marlene con occhi freddi come il ghiaccio. «Illuminami... Vuoi forse dirmi che tu e Nick non state insieme, eh?»

La fata serrò i pugni. Quasi lo vedeva come un insulto essere accostata a quel cafone di Nick. Anzi, a dire il vero considerava più un insulto il fatto che Amos pensasse realmente che lei potesse aver questo genere di comportamenti meschini. Non era una di quelle che da fidanzate andavano anche con altri. «No. Non ci sto insieme.» gli disse a denti stretti, così stretti che le parole le uscirono sibilando.

«Ah no? E non ci uscivi nemmeno? Quindi ieri sera quei due stavano sparando stronzate?» Amos non sapeva più che pensare. Si sentiva confuso, strattonato da un'emozione all'altra. Un attimo prima si sentiva in balia della rabbia, l'attimo dopo dalla speranza. Sì, dannazione... perché lui sperava realmente che quella femmina fosse libera. «Parlami, cazzo. Dammi delle spiegazioni perché l'altra mattina quando eri sul mio tavolo non mi hai accennato a nessun Nick.»

I toni erano così alti che le loro voci rimbombavano in tutta la rampa di scale, probabilmente stavano dando spettacolo a tutto il condominio senza saperlo ma a nessuno dei due fregava niente degli altri in quel momento. In quel momento c'erano solo loro due. Per una volta tanto, volevano essere egoisti.

«Ci sono uscita qualche volta. Va bene?» urlò lei, in risposta. «E quindi?»

«Quindi vi frequentavate. Vedi? Allora non mi sbagliavo.» Il pasura si strattonò liberandosi dalla sua presa e la fissò deluso. Allora non era tutto falso. Lei usciva veramente con quel coglione da quattro soldi. Anzi, più di quattro... visto che era pure un riccone di merda.

Marlene era paonazza in volto, sia per la rabbia che per l'imbarazzo. Come poteva dirgli che con Nick non aveva funzionato e che era anche un po' colpa sua? Come poteva dirgli che da quando l'aveva conosciuto non c'era altro ragazzo oltre a lui a cui pensasse? «Non ha funzionato, okay?» sbottò infine, sfibrata. Trasse un sospiro che da troppi secondi tratteneva poi deglutì nervosamente e con un filo di voce aggiunse: «Non ha funzionato. Non poteva funzionare.»

Amos restò fermo a guardarla, improvvisamente la rabbia scivolò via tutta. Si sentiva esausto. Esausto ma leggero. Non stavano insieme. Non aveva funzionato. «E perché?»

Lei non aveva coraggio di alzare gli occhi. Il viso improvvisamente le divenne rosso per la vergogna. Scosse la testa mordendosi il labbro. «Ecco io...» farfugliò nervosamente.

Il mannaro fece un passo in sua direzione. «Ho bisogno di saperlo, Marlene.»

Solo allora lei alzò lo sguardo incrociando i suoi occhi grigi. Tanto gelidi quanto bollenti, quando volevano. Si sentì divorare, da quello sguardo, completamente persa in una tormenta di emozioni. Si strizzò nervosamente le mani cercando di non sembrare patetica. «Nick non è mai stato il mio tipo. Ci sono uscita solo perché insisteva molto e poi,» fece una pausa, mordendosi il labbro con forza. «E poi dopo aver conosciuto te, non – non riuscivo a pensare ad altri e - e»

Amos colmò la distanza che li separava in un attimo, afferrandola tra le braccia e baciandola con trasporto.

Con Nick ci era uscita perché costretta, non aveva funzionato, non era interessata.

Era interessata a lui. A lui soltanto.

Questo era tutto quello che gli serviva sapere. Del resto non gli fregava.

La strinse tra le braccia, lasciandole scivolare le mani lungo la schiena e con una leggera pressione la sollevò di peso. Marlene a quel punto gli strinse le gambe attorno alla vita e affondò le mani nei capelli mentre il bacio si faceva più caldo, fino a scioglierli, fino a fonderli.

I cuori battevano frenetici nei loro petti, a ritmo, come in una danza. Avevano una musica tutta loro quei due cuori innamorati, una musica difficile da descrivere ma che rimandava un suono bellissimo.

Indietreggiando goffamente, Amos colpì con la schiena il muro. Gli uscì un gemito, soffocato però dalla bocca di Marlene ancora premuta sulla sua. La giovane ridacchiò divertita mentre il pasura tentava di salire le scale con lei in braccio.

Non era il peso il problema. Per lui, Marlene non pesava niente.

La difficoltà veniva nel salire le scale continuando a pomiciare, senza veder un cazzo.

«Sei uno stronzo.» gli disse la fata, ansimando contro la sua bocca e mordendogli il labbro con forza, fino a farlo mugolare. Marlene sentiva la pelle bollente come quando si sta per troppo tempo vicino al camino. Ogni suo tocco la scioglieva mettendo sempre più a nudo i suoi veri sentimenti. Così palpitanti, così vivi.

Il pasura inciampò riprendendosi subito dopo e continuando a salire le scale cercò di non perder più l'equilibrio. Ancora nessuno dei due aveva staccato le labbra dall'altro. «Sono uno stronzo.» ammise boccheggiando e lasciandosi consumare dal bacio di lei.

Marlene si lasciò sfuggire un gemito quando lui le strinse maggiormente le natiche rinserrando la presa. «Perché non abbiamo chiarito prima?» domandò senza fiato, tra un bacio e un altro. Tra una boccata d'aria e un'altra.

Quel fiume di piacere era bollente come lava e i due erano preda di un desiderio che da troppo tempo avevano cercato di accantonare. Non riuscivano a fermarsi. Non riuscivano a parlare. Le parole sembravano essere diventate superflue.

«Perché la gelosia mi dava alla testa.» biascicò lui, mordendole il labbro.

La fata si staccò dalla sua bocca e lo fissò sorpresa. «Sei geloso di me?»

Amos aprì con una mano la porta di casa di Marlene ed entrò richiudendosela alle spalle. «Così sembra.» le rispose imbarazzato poi si appoggiò contro il portone chiuso godendosi la bocca della giovane scivolargli lungo il collo.

Quando la sentì armeggiare con i bottoni della camicia si morse la lingua consapevole di essere già pronto per lei. Lo era da quando aveva sentito per la prima volta il suo profumo a dire il vero. E in quel momento, più che mai, il suo pisello scalpitava per uscire da quei dannati boxer e affondare in lei.

Sempre sostenendola tra le possenti braccia si spostò verso la camera raggiungendo letto e in un baleno i due ci finirono sopra, continuando a baciarsi senza sosta.

Marlene spazientita dalle asole troppo strette, gli aprì con uno strattone la camicia e i bottoni schizzarono in tutte le direzioni. Gliela lasciò scivolare sulle spalle, lungo le braccia, rivelando i possenti e marmorei muscoli che guizzavano con tensione crescente. Mentre lei si perse un attimo in quella visione tanto erotica, lui si avventò nuovamente sulle sue labbra, sistemandosi meglio tra le sue gambe.

«Tu sei sicura, vero?» le domandò lui mentre la sentiva prendere l'iniziativa anche con i jeans. Non voleva correre. Non voleva fare come con le altre questa volta.

«Sta zitto.» gli intimò Marlene, allungando le mani verso la patta e abbassandola con un movimento secco e deciso.

Oh sì, sarebbe stato zitto. E chi la fermava? Certamente non lui.

Amos si lasciò sfuggire un sorrisetto malizioso che subito venne rubato dalle sue labbra con l'ennesimo bacio. Con maestria le sfilò la maglietta del pigiama dalla testa e quando Marlene riemerse dal tessuto, il suo sguardo lo catturò completamente.

Gli occhi della fata erano di un blu intenso e cangiante, la pelle aveva perso il rosa tipico degli umani ed era tendente all'azzurro. La barriera stava per cedere sotto la pressione di tutte quelle emozioni. Marlene non era in grado di contenersi in determinate situazioni.

«Che c'è? Perché mi guardi così?» domandò lei, sentendosi improvvisamente nuda davanti a quello sguardo così profondo.

«Niente... è che sei... bellissima.»

E la barriera crollò. Completamente.

I capelli blu si aprirono a ventaglio sul letto mentre Amos la baciava con più passione. Risalì con le mani fino alle sue, intrecciando le dita in una stretta che valeva più di mille parole. Marlene si accorse che la sua alter ego umana era scivolata via come la risacca del mare. Nonostante questo, i baci appassionati di Amos la indussero a non preoccuparsene, anzi, quella era la dimostrazione di cui aveva bisogno. Era quello che cercava.

Lui non la voleva per il suo odore. Non la voleva per la sua natura. Lui la voleva semplicemente per ciò che era, per la se stessa che continuava a celare dietro mille barriere.

Quando i baci però divennero troppo poco per la loro passione irrefrenabile, Marlene iniziò a scalpitare sotto il suo corpo vogliosa di altro. Non ce la faceva più. Era dalla prima volta che lo aveva visto che lo desiderava talmente tanto da provar quasi dolore al pensiero.

Ma Amos andava con calma, non voleva correre, non voleva affrettare i tempi. E cazzo, lei esplodeva così tanto di desiderio che ad ogni bacio sentiva la pelle bruciare.

Le mani del pasura si spostarono sui pantaloncini del pigiama, pronto a sfilarli, pronto a restare ancor più a contatto con lei. Con sempre meno vestiti addosso.

Il cellulare nella tasca posteriore dei jeans di Amos vibrò rilasciando la suoneria per tutta la stanza. A loro sembrò una detonazione in tutto quel perfetto mondo che si erano appena creati. Amos riemerse dai baci sempre più focosi di Marlene come un sub al ritorno in superficie.

Prese una grossa boccata d'aria e ansimante fissò la fata sotto di se. Vestita completamente della sua natura fatata. Ora sapeva cos'era. Ora si era rivelata. Ed era ancor più bella ai suoi occhi, ancora più perfetta.

«Oh no.» mugolò lei, scuotendo la testa e lasciando passare le mani sulle spalla larghe del pasura. «Lancialo da qualche parte.»

Amos sorrise sfilandoselo dalla tasca, con la coda dell'occhio lesse il nome di Damian sul display. «Hai ragione. Ci penseranno Corey e Glenn.» Gettò il cellulare sul materasso, verso i cuscini. La suoneria cessò di squillare un attimo dopo e Marlene lo attirò nuovamente a se per riprendere da dove avevano lasciato.

Le bocche si completarono a vicenda, come due pezzi vicini di un puzzle. Tra le sue gambe, Amos si sentiva l'incastro perfetto.

Le cominciò ad abbassare leggermente i pantaloncini, pronto ad andare fino in fondo questa volta. Già si pregustava quegli attimi di piacere. Sarebbe stato qualcosa di diverso questa volta, totalmente diverso.

Ma il cellulare riprese a squillare di nuovo e a quel punto lui si fermò, con le braccia tremanti a lato della sua testa e lo sguardo perso nel suo. «Cazzo.»

«No, cazzo lo dico io.» disse lei coprendosi la faccia e scoppiando a ridere. Una risata contagiosa che lo coinvolse.

«Devo rispondere.» disse lui, infine. Con un bellissimo e raggiante sorriso stampato in faccia.

Si spostò da quella postazione rovente e si allungò sul letto afferrando il cellulare. Rispose col fiatone. «Damian... dimmi.» non aveva le forze nemmeno per incazzarsi.

In quel preciso istante il suo uccello gridava pietà. Quella situazione stava diventando una tortura.

«Amos? Sei a far joggings?»

Il pasura sollevò gli occhi al cielo chiedendo aiuto a chiunque ci fosse lassù per non bestemmiargli qualche improperio in faccia. «Damian, anziché dire stronzate... mi dici cosa vuoi e in fretta?»

Al di là della cornetta, il cervello addormentato del Mithpala sembrò realizzare che forse il suo pasura non era a farsi una corsa. Non in senso letterale, insomma. «Oh.» restò un attimo in silenzio. «Ecco... ti ricordi che oggi dovevamo andare da King, vero?»

Cazzo, no. Se l'era proprio dimenticato. Amos si stropicciò la faccia con entrambe le mani, cellulare compreso. «Devo per forza venire, vero?»

«Devi per forza, sì.»

Yu-uh che culo. Il suo pisello era così felice che si sarebbe auto-amputato da solo per andar in cerca di un altro padrone da far godere. «Sei un figlio di puttana, lo sai?»

Damian rise. «L'attesa aumenta l'eccitazione.»

«Oh, fanculo. Risparmiami queste stronzate zen del cazzo.» sbraitò mettendosi a sedere sul letto con stizza.

Non era un bene andare a trovare King nelle condizioni in cui si trovava ora. Era leggermente nervoso. Leggermente, eh.

«Mi dispiace, Amos. Ho veramente bisogno della tua presenza qui, altrimenti non te lo avrei chiesto.»

Amos imprecò sotto voce e annuì. «Va bene, sarò da te tra... non so quanti cazzo di minuti, okay?» e gli chiuse la chiamata in faccia, voltandosi verso Marlene.

Fino a quel momento, la fata era rimasta in ascolto e la reazione di Amos l'aveva divertita e non poco. Lo fissò ridacchiando. «Devi andare.»

«Già.» rispose seccamente lui.

Lei annuì, si allungò sul letto e gli sfiorò le labbra con le proprie. «Va bene, è giusto così.»

«Tu dici? A me non sembra per niente giusto.» brontolò lui, approfittando di quel bacio per attirarla a se.

«È la tua gente.»

Già, peccato che c'erano volte che Amos desiderava ardentemente non appartener ad alcun branco. E oltretutto la sua carica lo invischiava ancor più nelle faccende dei pardi, cosa di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Insomma, lui era un tipo introverso, solitario; non amava badare a se stesso figurarsi ad un gruppo di persone. Nonostante tutto però, Marlene aveva ragione, erano la sua gente. Sbuffò lasciandosi cadere sul letto e fissando il soffitto. «Ho l'uccello che mi esplode. Dannazione!»

Marlene scoppiò a ridere e distesa al suo fianco iniziò a disegnargli sul petto dei piccoli cerchi con l'indice. «Avremo tempo di riprendere da dove abbiamo lasciato.»

Amos sollevò leggermente la testa, osservandola sorpreso. «Quindi mi stai dicendo che non fingeremo che questo sia uno dei tanti errori che ci son capitati?»

Marlene ci pesò un attimo prima di rispondere sorridente. «In ogni caso è un bel errore.»

Oh su questo poteva scommetterci.

Amos si allungò su di lei, afferrandole il viso con una mano e baciandola profondamente. Assaporando ogni intreccio delle loro lingue e godendo per quella fusione di sapori così perfetta. Marlene aveva un sapore buonissimo, salato come il mare e dolce come una delle più succose fra le torte.

«Devi andare.» gemette lei, sotto il suo tocco. Mentre le mani del pasura le sfioravano il fianco nudo un brivido la percorse e si strinse un po' più a lui, sentendosi troppo nuda per non essere tra le sue braccia. Fortunatamente aveva ancora il reggiseno, altrimenti sai che imbarazzo.

«Già.» Solo in quel momento Amos scese dal letto e afferrò la camicia, indossandola. Cercò di allacciarsela ma dei bottoni non ve n'era più traccia così sorrise maliziosamente.

Marlene pensava che quell'uomo avesse il sorriso più erotico mai visto prima d'ora. Così provocante da arrivare dritto nel basso ventre senza nemmeno passare dal via. Si mise anche lei a sedere sul letto, con i capelli arruffati, le labbra gonfie di baci e le guance ancora tinte di rosso. Ancora non si era presa la briga di innalzare nuovamente la barriera. Era così fremente nella propria eccitazione, che non riusciva a imporre la magia della schermatura.

Ma ormai l'aveva vista, quindi tanto valeva godersi quegli attimi di libertà.

Quando lui si rassegnò al fatto che la camicia fosse da buttare si abbassò su di lei, molleggiando sulle gambe e restando piegato sulle ginocchia. Le prese le mani attirando il suo sguardo e inclinò la testa. «Ci vediamo stasera?»

Lei sorrise e annuì. Non vedeva l'ora di vederlo. Avrebbe lavorato con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia tipo paresi. «Si, ti prego.»

«Come funziona in questi casi? Ti vengo a prendere al lavoro?»

Lei annuì ancora.

A quel punto Amos le prese il viso con entrambe le mani e le stampò un lungo ed intenso bacio prima di rialzarsi. Si spostò verso la porta di casa e lei lo seguì goffamente. Il desiderio le bruciava ancora così tanto addosso che le gambe continuavano a tremarle senza sosta.

«E non mi dici niente ora che... beh, insomma... hai visto cosa sono?» domandò lei, indicandosi.

Lui fece spallucce. «E che ti devo dire? L'azzurro è sempre stato il mio colore preferito.» E facendole l'occhiolino uscì di casa.

Marlene si appoggiò contro il muro scivolando in terra e alzando lo sguardo al soffitto scoppiò a ridere felice.

L'azzurro era il suo colore preferito.

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