CAPITOLO 26

Marlene si richiuse la porta di casa dietro le spalle e ci si appoggiò contro sospirando. Lasciare Amos le sembrava ogni volta un'impresa sempre più difficile. C'erano momenti che lui la faceva sentire perfetta nel contesto dove si trovavano poi alla mente le tornava Victoria e quel castello idilliaco che si era creata, crollava lasciandole un sapore amaro in bocca.

Peanut la raggiunse facendo le fusa e la fata non poté far altro che prenderla in braccio stringendola a se. Se avesse continuato su quella strada, la gatta sarebbe rimasta la sua unica e sola amica. Victoria non le avrebbe mai perdonato l'avvicinamento ad Amos e soprattutto quello che avevano fatto a sua insaputa.

Forse le doveva parlare. Essere sincera era una delle qualità che preferiva di se stessa, non aveva mai detto bugie se non quelle piccole e a fin di bene. Solo che la bugia che riguardava lei e Amos stava diventando un macigno gigantesco da sopportare e non era sicura di riuscir a dire a Victoria tutto quello che era successo.

La reazione dell'amica la spaventava.

Marlene strinse Peanut a se e si andò a sistemare sul divano. «Ah, quanto vorrei essere un gatto.» disse fissando la gattina che inclinò la testa simpaticamente.

Le era capitato tantissime volte di guardar quei film d'amore dove la protagonista tra tutti gli uomini che poteva avere si innamorava proprio di quello sbagliato. Si era chiesta un milione di volte cosa dicesse alla testa di quelle donne, talmente tanto invaghite da perdere di vista tutto il resto. Ora che aveva incontrato Amos, comprendeva perfettamente che a volte le cose non vanno secondo i piani.

Lei non avrebbe mai pensato di invaghirsi di un mannaro, per di più ex della sua migliore amica e invece era lì, seduta sul quel divano a cuocersi nel suo stesso brodo.

Amos aveva un carattere così forte e carismatico che era impossibile non restarne affascinate. Non lo faceva apposta, era semplicemente la sua natura.

Marlene aveva tentato in tutti i modi di dimenticare quel ragazzo, eppure ad ogni incontro sembrava entrarle più in profondità. Era come se nonostante i suoi sforzi, fossero due calamite, sempre in tensione l'una verso l'altra.

Si lasciò sfuggire un sospiro e proprio in quel momento il telefono di casa prese a squillare frenetico. Sollevò lo sguardo verso l'orologio appeso al muro e verificò che non fosse in ritardo per il lavoro. No, mancavano ancora un paio di ore prima del suo turno. Aveva il tempo giusto di allungare i piedi e rilassarsi una mezzoretta per poi riprendere la solita routine.

E allora chi la chiamava?

Il pensiero che fosse Amos la fece arrossire. Avrebbe tanto voluto sentirlo ma non era sicura che il mannaro l'avrebbe chiamata. Dopo il modo in cui l'aveva liquidato quella mattina, forse non si sarebbe più fatto vivo. E probabilmente ne avrebbe avute tutte le ragioni.

Lei doveva far pace col cervello. Insomma... non poteva baciarlo un attimo prima e quello dopo urlare allo scandalo. Era certa di volerlo sotto ogni punto di vista ma se alla mente gli veniva Victoria, tutto quel desiderio scemava lasciandola in preda ad un forte senso di inadeguatezza.

Il telefono squillò ancora, così Marlene si alzò raggiungendolo. Essendo un modello di vecchia generazione, aveva giusto le funzioni base. La fata fece un grosso respiro prima di rispondere. Odiava non saper chi la chiamasse. «Pronto?» Attese la risposta.

«Pronto, Marr?»

Era Victoria. Per un attimo il cuore iniziò a martellarle in petto freneticamente. Si sentì sovrastata dal peso del suo segreto. Avrebbe tanto voluto gridarle che si era limonata Amos, giusto per porre fine ai suoi sensi di colpa invece rimase in silenzio.

«Marr?»

«Ehi, Vicky...»

Nella voce di entrambe c'era disagio. Da una parte maturava la consapevolezza di aver combinato un vero casino, dall'altra il dispiacere di aver fatto qualcosa di proibito.

Inoltre Victoria dopo che le era passata la sbronza, ricordava alcuni sprazzi di nottata e sapeva che quando erano sopraggiunti i cacciatori era successo qualcosa, sia a lei che a Marlene. Non sapeva spiegarselo ma la sua mente ricordava due occhi blu accecanti e una lunghissima chioma blu scuro. «Marr... ecco io,» farfugliò sentendosi responsabile di ciò che era successo. «Come stai?» chiese infine.

Marlene sorrise. «Tutto bene, giusto qualche livido.» La ferita al labbro era quasi del tutto riassorbita, quella alla caviglia invece continuava a darle qualche problemino ma era sulla strada della guarigione. Forse quella frusta era di rame, in tal caso, capiva perfettamente il motivo per cui la rigenerazione dei tessuti tardasse ancora molto a fare il suo corso. Per le fate, il rame è altamente letale.

«Mi dispiace tantissimo, sono stata una stupida.» Non osava chiederle se ricordasse qualcosa. Temeva di essersi trasformata davanti a lei, di questo non ne aveva memoria.

«Sì, sei stata una stupida.» le confermò la fata. Non poteva di certo dirle che aveva fatto una cosa giusta. Anzi, aveva messo in grosso pericolo oltre che se stessa anche lei. Non era più una ragazzina, era tempo che crescesse e prendesse atto dei propri errori. E poi, ubriacarsi non era mai la soluzione migliore.

Victoria sospirò. Sapeva che aveva fatto una grossa cazzata, anzi si stupiva che Amos ancora non l'avesse chiamata per riempirla di insulti. La sera prima, ricordava vagamente che lui era venuto a prenderle. Si era sentita adagiare delicatamente sul letto e il suo naso aveva subito fiutato l'intenso e inconfondibile odore del pasura. «Credevo ce l'avessi con me, ho provato a chiamarti una decina di volte al cellulare ma non mi hai risposto.»

Marlene sgranò gli occhi. Dannazione, il cellulare. Lo aveva lasciato nel bosco. Doveva assolutamente recuperarlo ond'evitare che magari i cacciatori tornassero sul posto e usassero la sua scheda per reperire quanti più informazioni possibili sul suo conto. La mente le andò ai propri genitori, a sua sorella... e se li avessero chiamati? Se gli avessero teso una trappola? «L'ho perso nel bosco.»

Victoria si morse il labbro. «Te ne regalerò uno nuovo. In fondo l'hai perso per colpa mia.» disse subito dopo. Il soldo per lei non era un problema, la sua famiglia era così facoltosa che tutto ciò che voleva non faceva in tempo a diventarle desiderio che le veniva preso.

«Non c'è bisogno.» Marlene si guardò intorno alla ricerca di abiti nuovi e della borsa. Doveva correre al bosco e cercare quel dannato cellulare.

Il terrore che potessero trovarlo prima di lei e usarlo per risalire ai suoi contatti, la sconcertava.

«No, dico davvero. Ho fatto un casino e» A Victoria veniva da piangere. Non le era mai capitato di affogare i propri dispiaceri nell'alcool, soprattutto se questi dispiaceri derivavano da un uomo. Nella vita era sempre stata costretta a fingersi la migliore, la più brava, la più bella, la più forte e tenace. Era così che voleva la sua famiglia e lei era cresciuta in quel modo, ostentando sicurezze che non aveva. Lo faceva sin da bambina, da così tanto tempo che a volte non ricordava nemmeno la sua vera identità.

Eppure un anno prima, stare con Amos le aveva insegnato una delle più importanti regole di vita: essere sempre se stessi. Infatti lui, non si era mai piegato al volere di qualcun altro, mai finto per ciò che non era. Ed era proprio per questo motivo che lei lo ammirava. Amos non si piegava alle circostanze. Amos restava se stesso, sempre.

«No, aspetta, Vicky... lascia stare. Veramente.» Marlene allungò la mano afferrando la borsa e controllò che al suo interno ci fossero le chiavi dell'auto. «Ora però devo proprio andare, mi devo preparare per il turno di lavoro.»

Da una parte era vero, dall'altra aveva premura di raggiungere il posto dell'incidente per cercare il suo cellulare. Doveva trovarlo assolutamente.

Victoria si afflosciò come un salvagente bucato sulla poltrona su cui sedeva e annuì tristemente. «Va bene,» La stava per congedare ma poi le venne un'idea carina. «Senti, che ne diresti questa sera di venire da me? Una cena intima, per sdebitarmi. Porta anche Nick. Ricordo perfettamente che l'hai piantato in asso per colpa mia.»

Un altro invito, con Nick fra l'altro.

Marlene storse il naso. Non era in vena di uscite.«Io... non saprei...»

«Marr, sarà solo una cena... per sdebitarmi.»

La fata si morse nervosamente il labbro. Non aveva alcuna intenzione di uscire con Nick. Evidentemente dividersi al Brums era stato un segno del destino. La loro coppia non era fatta per andare al di là del semplice rapporto lavorativo. «Ecco, io... non saprei, con Nick poi...» riprese a farfugliare.

Non aveva nulla contro il collega, però ogni volta che lo aveva vicino si sentiva strana e a disagio. E non era quel genere di disagio che si provava in compagnia del tipo che ti piace, era più qualcosa di simile all'intolleranza. Come se la sua vicinanza la infastidisse.

«Avanti, Marr... una cena. Solo una semplice cena.»

Marlene imprecò sotto voce. Non sapeva bene come, ma Victoria la convinceva sempre. «E va bene. Solo una cena, ma senza alcolici. Direi che dopo quello che ti sei scolata ieri sera, sarai a posto per un paio di anni.»

A quel punto Victoria ridacchiò. «Hai ragione, meglio evitarli per un po'.»

Si salutarono velocemente e con altrettanta fretta Marlene si vestì con abiti puliti e corse all'auto.

Quando il freddo di quella giornata le pizzicò il viso, si strinse nel suo amabile trench imbottito e raggiunse il veicolo, prontamente parcheggiato davanti casa. La strana sensazione di essere osservata si fece nuovamente sentire non appena annusò l'aria, prima ancora di aprire la portiera dell'auto.

Quella sensazione le regalò un intenso brivido di malessere. Si guardò attorno ma non vide nulla di anomalo. Forse stava diventando paranoica.

Salì sulla vecchia e sgangherata auto e partì ad acceleratore spiegato per raggiungere il luogo dell'incidente il prima possibile.

Durante il tragitto non fece altro che pensare all'enorme pericolo che i suoi parenti potevano incorrere. La sua razza era stata decimata ai tempi della Purga, così era stata chiamata dai cacciatori di sovrannaturali. Un nome usato spesso nella storia del mondo. Ad ogni modo, il gruppo sostanzioso di volontari si era impegnato a rader al suolo interi branchi e tra questo anche quello di Marlene.

La fata infatti faceva parte di una ormai decimata sottocategoria del suo popolo, un tempo conosciuta come Eidi. Una già precaria e quasi totalmente sconosciuta razza di fate legate ai boschi, sottorazza delle Huldre. A causa della Purga, i pochi esemplari nati erano stati decimati. Si era trattato di un vero sterminio e per le motivazioni più becere. Il mercato nero, pagava a caro prezzo sangue e organi.

Le Eidi però erano gioviali e per lo più pacifiche. Amavano aiutare il prossimo e spesso usavano le loro conoscenze erboristiche per salvare vite, soprattutto umane.

Dopo lo sterminio, le poche rimaste si erano rifugiate in piccoli e sperduti territori della Scandinavia, dove avevano intrapreso una vita fatta di schermature e terrore.

Nessuna Eide andava in giro a cuor leggero. Forse l'unica ad aver fatto un simile azzardo era stata proprio Marlene.

La giovane parcheggiò proprio davanti al tratto di strada dove l'auto di Victoria aveva sbandato ed era uscita dalla carreggiata per infilarsi nel bosco. Scese richiudendosi lo sportello alle spalle e fissò l'infittirsi degli alberi con un certo timore.

Era mattina, il sole era alto in cielo, eppure il timore non smetteva di assillarle la mente. Si era annidato in lei, pronto a insinuarsi nei suoi pensieri fino a farla tremare.

Si fece forza e oltrepassando il guard rail rotto scese nel bosco.

Le ombre degli alberi rendevano l'atmosfera inquietante, il sole veniva coperto dai fitti rami che si allungavano verso il cielo come mani tese.

In terra una lunga striscia delimitava la scia che l'auto di Victoria aveva lasciato dalla notte precedente. Dell'auto non c'era più traccia, con ogni probabilità l'amica aveva chiamato un carro attrezzi per farla recuperare.

Un rumore di rami rotti la costrinse a guardarsi attorno. Il brivido che ne seguì le bloccò ogni movimento, troppo preda delle sue paure. Tremava così forte da non riuscir a mettere un passo dietro l'altro.

«Avanti, non fare la fifona. Non c'è nessuno, Marr.» disse a se stessa, cercando di infondersi coraggio.

Oltrepassò alcuni arbusti e si ritrovò nel piccolo spiazzo dove la notte prima erano state attaccate. Inspirò a fondo cercando di non ricordare gli eventi della notte precedente. Se ci pensava, era spacciata. Sarebbe scappata a gambe levate senza voltarsi e invece doveva trovare quel dannatissimo cellulare.

Iniziò così a muovere le mani nelle foglie secche e nel terriccio alla ricerca dell'agognato apparecchio. Ogni tanto sollevava la testa restando in attesa. Non sapeva nemmeno lei cosa attendesse.

Era come se si aspettasse da un momento all'altro di essere attaccata.

Quando le mani raggiunsero finalmente qualcosa di piccolo e compatto, sollevò come un trofeo l'ormai distrutto telefonino. «Ti ho trovato!»

«Anche io!» le rispose qualcuno dietro, agguantandola per la vita e sollevandola di peso.

Marlene sgranò gli occhi terrorizzata, non riuscì ad emettere nemmeno un grido. Si ritrovò ben presto a scalpitare cercando di liberarsi da quella presa di marmo. L'enorme braccio che le cingeva la vita non stringeva abbastanza da farle male eppure nonostante i suoi tentativi di ribellione non aveva intenzione di lasciarla andare.

«Lasciami!» gridò lei, spingendo con la schiena contro il petto dell'aggressore e le mani contro il suo braccio. L'idea era quella di aprirsi un piccolo varco nella presa e sgusciare via.

L'uomo rinserrò la presa, abbastanza da spezzarle il fiato. «Stai ferma, femmina... non ti voglio uccidere.» grugnì la voce alle sue spalle, muovendosi verso la strada.

La testa di Marlene creava pensieri, vie di fuga e strategie a velocità allarmanti. Non aveva intenzione di restare appesa nell'abbraccio di quel tizio aspettando che la caricasse chissà dove e la smerciasse al mercato nero.

Tentò di assestargli un calcio ma lui la sollevò scuotendola. Se non si fosse liberata da quella stretta, la sua vita sarebbe finita. E lei non aveva intenzione di morire in quel bosco.

Come la sera prima, si guardò attorno alla ricerca di un'arma. Avrebbe potuto abbassare la schermatura ma non era sicura che si trattasse di un cacciatore. Rischiava di far sapere a troppe persone la sua natura fatata.

Abbassò lo sguardo per veder a quanto era sollevata da terra e fissando il muscolo brachioradiale le venne una geniale idea. Così si chinò abbastanza da avvicinare il viso al braccio e affondò i denti stringendo la presa.

L'uomo gridò di dolore e allargò le braccia lasciandola cadere su un mucchio di foglie. Quando Marlene si voltò gli occhi le erano diventati del suo solito blu incandescente e i denti umani erano mutati in quelli affilati tipici della sua razza. Davanti a se, l'uomo gigantesco si massaggiava il braccio con rabbia. I capelli lunghi gli ricadevano sul viso ricoprendo i tratti del volto. Non appena alzò lo sguardo, Marlene comprese che era in un grosso guaio.

L'uomo la fissò torvamente fissandosi il braccio già in via di rimarginazione. «Ti ha dato di volta il cervello, ragazzina?»

Marlene non riuscì a dire nulla. Chiuse la bocca e cercò di calmarsi. Gli occhi le tornarono normali ma restò comunque vigile. Non poteva fidarsi di lui, solo ora si rendeva conto che quell'uomo aveva il tipico odore dei mannari inoltre, tra loro c'era già stato un breve scontro e quello sguardo lo avrebbe riconosciuto tra milioni.

Un occhio solo, l'altro deturpato da una grossa cicatrice, la fissava carico di rabbia. «Che c'è? Non hai mai visto una cicatrice in vita tua?» domandò aspramente Amarok, segnandosi l'occhio.

La fata deglutì nervosamente. Era chiaro, fin troppo. Lui era l'orso che le aveva tagliato la strada quella notte che era diretta al lavoro. Averlo davanti a se, era la conferma che le mancava. L'odore di mannaro le permeava insistentemente nelle narici.

«Che ci facevi qui? Lo sai che c'è stato un incidente in questo luogo, ieri notte?»

Lei annuì febbrilmente e alzò il cellulare rotto. «Lo – lo so. E - ero una delle ragazze dell'incidente. Cercavo solo il mio cellulare.»

L'espressione del mannaro sembrò rilassarsi leggermente. «Sei venuta solo per il cellulare?»

Marlene annuì ancora. Era così spaventata da quella figura tanto gigantesca che non era sicura di riuscire a reggersi in piedi con le proprie gambe.

«Dannate nuove generazioni del cazzo, giusto ai selfie pensano.» borbottò tra se e se il bestione.

«I – io temevo che con il mio cellulare loro potessero» la fata non terminò la frase ma Amarok annuì ugualmente avendo compreso perfettamente l'idea della giovane.

Le allungò la mano, aiutandola a rimettersi in piedi e non appena lei si rassettò i vestiti dalle foglie lui la osservò serio. «Non è un posto per te, qui.»

«E per te?» domandò flebilmente Marlene. Non era il caso di far la sfacciata con un armadio simile, eppure non poteva negare di esser curiosa. Cosa ci faceva in quel posto? Questioni del branco? Cacciava?

Da quando aveva conosciuto Amos, la natura mannara l'affascinava.

Amarok sorrise. Aveva una dentatura bianca e perfetta. Se non avesse avuto quella cicatrice a deturpargli il volto, sarebbe stato un uomo di incredibile fascino. «Sono il carrozziere. Secondo te, chi ha tolto l'auto da quel pantano del cazzo, eh?»

La giovane arrossì. Non aveva pensato affatto a qualcosa di ordinario come il lavoro. Si spostarono verso la strada, camminando uno a fianco all'altra silenziosamente e solo una volta sbucati dal bosco Marlene notò il furgone con caricata sopra l'auto. Come aveva fatto a non notarlo prima? Evidentemente era troppo concentrata sul ritrovamento del cellulare per averci fatto caso.

«Mi spiace averti spaventato. Credevo fossi la classica ragazzina impicciona.» Amarok era uno che a fatica si scusava. Inoltre aveva preso la questione dei cacciatori molto sul personale dopo le perdite del suo branco. E infatti andava spesso a caccia di quei bastardi che erano praticamente diventati la sua nuova ossessione.

Non poteva dormire sonni tranquilli se là fuori, nel bosco, qualcuno ammazzava i suoi.

Veder qualcuno sulla scena di un'aggressione lo aveva fatto agire d'impulso.

Marlene annuì e gli regalò un sorriso sincero. Era un mannaro che difendeva il suo branco, nulla di più. Non le aveva fatto male, stava solo controllando la zona.

Per un certo verso si sentì cattiva ad aver pensato subito male di lui, giudicandolo solo per l'aspetto. A dire il vero un po' di timore glielo aveva messo anche l'allarmismo di Victoria quando gli aveva raccontato del suo avvistamento, ma forse quell'uomo era cattivo solo con chi lo faceva incazzare. «Ti ringrazio molto per aver recuperato l'auto della mia amica.»

Lui strinse le spalle. «È il mio lavoro.»

Si spostarono verso l'auto di Marlene e quando lei salì abbassò il vetro del finestrino. Amarok strinse la portiera e la fissò con quell'unico occhio molto intensamente. «Non andare in giro da sola per i boschi. Ci sono cose pericolose lì in mezzo.»

E aveva ragione, dannatamente ragione.

Marlene si mosse il labbro. «Cose pericolose.» ripeté come incantata.

Il mannaro la fissò e annuì. «Esatto. Tipo i cacciatori che vi hanno attaccato l'altra notte e nel tuo caso, meglio che fai attenzione anche ai mannari.»

La fata alzò la testa immediatamente, fissandolo ad occhi sgranati. Quindi sapeva che erano state aggredite dai cacciatori? Chi glielo aveva detto? A quanto pareva, le voci giravano in fretta tra i sovrannaturali. Avrebbe voluto porgli alcune domande, ma tra le tante, una le premeva di più. «Perché anche i mannari?»

Armarok rise. «Credi che non mi sia accorto di cosa sei? Eide.»

Fu come se qualcuno comprimesse il petto di Marlene con estrema tenacia. Il respiro le si mozzò completamente, lasciandola boccheggiante. Un terrificante dolore allo stomaco cominciò ad attanagliarla. La paura serpeggiò silenziosa nella sua mente, facendole trarre conclusioni sempre più spaventose. Tentò di dire qualcosa ma la voce divenne sempre più flebile e si ritrovò costretta a scuoter la testa per dar un senso a tutti i suoi pensieri.

Amarok si staccò dall'auto. «Tranquilla, non mi stimoli l'appetito nemmeno un po'.»

Marlene rilasciò l'aria espirando rumorosamente. Improvvisamente si sentì tutta un fremito, consapevole che la sua identità tanto segreta alla fine non lo era nemmeno un po'. Come lo aveva scoperto lui, quanti altri lo potevano sapere? «Come – come lo sai?»

«Tempo fa ne conobbi alcune.»

«Tempo fa?»

Le mani di Amarok strinsero la lamiera della portiera fino a farla scricchiolare. «Gente cordiale che è stata catturata dai cacciatori.» La frase gli terminò in un ringhio.

Ah, erano morti. Marlene si incupì. Peccato, per un attimo aveva sperato di trovar altra sua gente. «Mi dispiace.»

«Anche a me. La vostra gente è più perseguitata della nostra.»

I due si scambiarono una lunga occhiata prima di separarsi. Amarok si allontanò dall'auto senza aggiungere altro e risalendo nel furgone partì senza guardarsi indietro.

A quel punto Marlene accese la propria auto e fissando ancora un'ultima volta il bosco, ripartì.

Nonostante le divergenze tra razze, la diversità di pensiero e gli antagonismi... a volte un sentimento riusciva a stringere tutti in una comune comprensione. La paura.

La paura univa tutti, non importa se diversi tra loro. La paura uccideva, accecava di dolore, mieteva vittime... e lasciava i pochi superstiti stretti, in un cordoglio collettivo.

La paura non faceva distinzione, prendeva tutti.

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