CAPITOLO 25

Amos arrivò al lavoro trafelato e con una buona mezz'ora di ritardo. Il capocantiere non gli disse nulla dato che solitamente era sempre un tipo che arrivava più che in orario ma quel ritardo non gli passò inosservato, lo avrebbe usato a suo discapito a tempo debito. Tra i due c'era da sempre stato attrito di fondo, entrambi cercavano di prevalere sull'altro e alla fine per un motivo o un altro nessuno dei due ne usciva vincitore.

Il pasura aveva estremamente bisogno di quel lavoro, quindi molto spesso era lui il primo a cedere, lasciando credere al suo capo di averla vinta lui. In realtà ad Amos non fregava un cazzo di quello che poteva pensare quel povero coglione, l'importante era che non gli rompesse troppo le palle.

Fin quando lui se ne stava nel suo posticino misero da cui credeva di controllare il mondo, ad Amos andava bene. Se scendeva dal suo finto piedistallo però, un pugno in faccia non gliel'avrebbe levato nessuno.

«White, sbrigati a cambiarti.» gli tuonò alle spalle.

Amos alzò il dito medio continuando a camminare. Era certo che lo avesse visto.

Quella giornata di lavoro sembrò partire con il piede sbagliato. Il mannaro non riusciva a mantenere la concentrazione sulle più banali mansioni che doveva svolgere. La sua mente continuava a rimbalzare al susseguirsi degli eventi di quella mattina. Tutto ciò che era successo gli provocava un tumulto di emozioni che non riusciva totalmente a spiegarsi.

Dopo il risveglio poco splendido, i minuti passati con Marlene erano il ricordo più piacevole che riusciva a portar a galla dalle sue memorie di mesi. Quella femmina era entrata come un tornado nella sua vita e ancora non riusciva a spiegarsi per quale motivo gli corresse dietro come un cagnolino. Eppure lo faceva.

C'erano momenti in cui era convinto di non piacerle e altri, come quello di quella mattina, che sapeva perfettamente di stuzzicare i suoi più perversi desideri.

Mentre si spostava verso il camion che aveva portato nuova merce tutta la sua concentrazione tornò a quello che avevano fatto quella mattina nella sua cucina.

I loro corpi così vicini, le loro labbra fuse insieme, la sua pelle così morbida e bollente... improvvisamente si ritrovò con una generosa erezione che spingeva duramente contro la tuta. Sollevò gli occhi al cielo. «Ho bisogno di una sigaretta, del sesso, un'altra sigaretta... e ancora dell'altro sesso.»

Afferrò un sacco di cemento da cinquanta chili sollevandolo con una mano, sovrappensiero. Pensare a Marlene gli fotteva il cervello. Si sentiva costantemente in bilico tra una felice erezione e una testata al muro.

«Simpatico White a sfoggiare così la tua prestanza muscolare.» lo canzonò scherzosamente un collega, passandogli alle spalle.

«Cazzo.» imprecò Amos, afferrando il sacco con entrambe le mani.

Sveglia, bello... qui non sanno che sei un fottuto mannaro. Si disse tra se e se.

Si spostò verso il centro del magazzino, scaricando il sacco di cemento sopra la pila degli altri sacchi e tornò verso il camion. Era un'operazione ripetitiva e noiosa che avrebbe terminato in molto meno tempo se gli fosse stato permesso il pieno uso della sua forza. Peccato che i suoi colleghi erano per lo più umani.

Uno squillo di un cellulare echeggiò in tutto il magazzino facendo voltare più persone nella sua direzione. Solo al terzo squillo si rese conto che proveniva dalla tasca della sua tuta. Lo aveva dimenticato lì, non lo aveva lasciato negli spogliatoi. Cazzo.

Lo estrasse rapidamente dalla tasca e accettò la chiamata spostandosi in modo da non essere visto. «Pronto.» ringhiò vicino al microfono dell'infernale aggeggio.

Se qualcuno lo chiamava per qualche banale stronzata, avrebbe assaggiato la sua ira.

«Sempre molto cordiale, vedo.» La voce di Damian tuonò al di là dell'altoparlante forte e decisa. Sembrava piuttosto tranquillo, forse non lo stava chiamando per ragguagliarlo sull'ennesimo sbudellamento di uno dei loro.

«Cazzo, Damian. Sono al lavoro, lo sai.»

«Sei tu che mi hai mandato un messaggio stamattina.»

Amos se l'era scordato. Gli aveva mandato un messaggio con scritto di chiamarlo non appena poteva visto che doveva parlargli riguardo il comportamento scorretto di Victoria. Lo aveva completamente rimosso dalla mente, non tanto perché fosse qualcosa di poco significativo quanto più per il fatto che la sua mente... e non solo quella, avevano costantemente pensato alle roventi forme di Marlene stesa su quel tavolo. Si massaggiò la base del naso, socchiudendo per un secondo gli occhi.

«Hai ragione.» Si guardò attorno assicurandosi che nessuno fosse nei paraggi. «Ti volevo parlare di Victoria.»

Damian rimase per un attimo in silenzio. «Che ha fatto? Ti da ancora fastidio e vuoi un mio intervento?»

Amos inarcò un sopracciglio sfilando dal pacchetto una sigaretta e portandosela alle labbra. Non avrebbe mai chiesto il suo intervento per una cosa tanto futile, non aveva otto anni, sapeva perfettamente rifiutare una donna. «No, no.» Si spostò verso una zona meno bazzicata e si accese la sua breve dose di relax. «Ieri notte si è ubriacata. E a causa della sua stupidaggine ha causato un incidente in auto insieme ad una sua amica.» Aspirò.

«Cosa?» Quella domanda rimbombò perfino nel magazzino da quanto fu strillata.

«Non è tutto.» Con la mano libera Amos si ravviò i capelli. Erano troppo lunghi ormai, ogni tanto finivano per infastidirgli e ostruirgli la vista. Strinse la sigaretta con i denti prima di parlare. «Da quell'incidente lei e la sua amica sono uscite pressappoco indenni... peccato che siano incappate nel gruppetto di cacciatori.»

Damian strabuzzò gli occhi, allontanando per un attimo il telefono dall'orecchio per assimilare meglio che poteva quell'informazione. «È viva? Sta bene, vero?»

«Oh si, anche troppo. È l'amica quella che ha riportato danni più gravi.»

«Ma l'amica è umana?»

Eh, bella domanda Damian. Pensò il pasura. Era umana Marlene? «Sì, sì... è umana.»

Aveva appena mentito al suo Mithpala. Non era da lui. Una delle sue poche regole era la sincerità. Eppure sapeva che se gli avesse detto che Marlene non era umana, Damian avrebbe scavato a fondo nella vita della ragazza e lui non voleva che qualcuno la infastidisse.

«È rimasta molto ferita dall'incidente e lo scontro con i cacciatori?»

«Più che ferita... diciamo che ha preso coscienza di un nuovo mondo.»

No, non poteva essere. Damian non poteva credere che Victoria avesse in qualche modo rivelato la loro natura. Era altamente pericoloso, inoltre a parte la stessa mannara, nessun'altro conosceva questa amica. Le era stato confidato un segreto molto fatale. Chi era questa donna? Potevano fidarsi? «Lei... lei ha detto che parlerà a qualcuno di noi?» gli tremò la voce, per un attimo.

«No, figurati. Sono molto amiche e manterrà il segreto.» Diede un'ultima aspirata alla sigaretta lasciandola cadere in terra e pestandola con il tacco dello scarpone. «Però sinceramente è ora che Victoria smetta di far la bambina. Non è più nei primi anni di lunazione. Ha già passato il periodo dell'autocontrollo precario per via della bestia.» aggiunse.

Amos questa volta aveva ragione. Damian si alzò dalla poltrona dietro la sua scrivania e cominciò a camminare avanti e indietro per il suo studio con crescente rabbia. Victoria era una delle femmine del branco che gli dava più problemi che soddisfazioni. Era irriverente, sconsiderata e poco incline alle regole. Troppe volte l'avevano graziata, facendole passare nefandezze di ogni tipo ma questa volta, aveva seriamente bisogno di farci una chiacchierata. «Victoria è sempre stata un'irresponsabile ma questa volta non posso lasciar cadere una cosa così tanto grave. Ha compiuto un'azione sciocca e che ha messo a serio pericolo non solo la sua incolumità ma anche la nostra di branco.» Si sfilò gli occhiali, stropicciandosi gli occhi. «Dovrò convocarla da me e parlarle. Se vuole continuare così, sarò costretto a farle lasciare il branco.»

Amos annuì. Era giusto che almeno una volta ogni tanto, Damian tirasse fuori le palle e mettesse un po' in riga la sua gente. Non c'era niente di male nel fare il vocione grosso, ogni tanto. «Perfetto. Ti serve anche la mia presenza?»

No, questa volta Damian avrebbe fatto da solo. Era una cosa che competeva a lui, non gli andava di radunar tutti i pasura per una semplice lavata di testa a Victoria. «No, grazie. Però ho un altro favore da chiederti.»

«Sì, dimmi tutto.» Il pasura si guardò attorno assicurandosi nuovamente che non ci fosse nessuno nelle vicinanze.

«Domani devi prenderti un giorno libero.»

Amos imprecò mentalmente. Il capocantiere non ne sarebbe stato felice e anche se lui non era un tipo che chiedeva permessi era sicuro gli avrebbe fatto storie. «Motivo?»

«Stamattina mi son sentito con Amarok.»

«Cosa vuole quella faccia di merda?»

A Damian sfuggì una risatina. «Niente di bello, purtroppo. Hanno rinvenuto l'ennesimo cadavere di uno del loro branco e mi ha chiesto se andiamo insieme da Arthur King. Gli vuole parlare.»

Amos si lasciò sfuggire un fischio di disapprovazione. Cazzo, andare da King per una qualsiasi questione era come urlarla ad un megafono. Non tanto perché lui la diceva a mari e monti ma perché se necessario, smuoveva l'intero Michigan per risolverla. Amos sperava che restasse più circoscritto il problema e invece sembrava che i piani alti dovessero saperlo. «E tu che gli hai risposto?»

«Secondo te?»

Il pasura sbuffò. «Senti, bello... adesso devo proprio andare. Ho il capocantiere che mi tiene il fiato sul collo da stamattina. Per domani... considerami uno dei tuoi.»

«Va bene. E grazie per avermi detto di Victoria.»

Strano a dirsi ma questa volta Amos non lo aveva fatto per il branco. Lo aveva fatto per Marlene. Chiuse la chiamata senza dirgli altro e si spostò nuovamente all'interno del cantiere per continuare i vari lavori che doveva portare a termine.

Quella chiamata gli aveva fatto momentaneamente staccare la testa dai pensieri erotici su Marlene ed era stato un bene, dato che non poteva permettersi l'ennesimo errore sul posto di lavoro. Se si fosse fatto male o avesse attirato troppo l'attenzione, la sua stessa copertura da finto umano sarebbe saltata.

Passò il resto della mattinata a scaricare sacchi di cemento, portare a destra e a manca mattonelle da posare e aiutare i colleghi in qualche ordinario lavoretto di amministrazione. Si fermò giusto all'ora di pranzo, quando lo stomaco brontolava così forte che sembrava la sua bestia appena sveglia.

Si mise a sedere al bordo di un marciapiede con il suo scarno panino e dopo averlo estratto dall'involucro lo addentò. Una leggera brezza di vento gli scompigliò i capelli facendolo socchiudere gli occhi per godersi quell'unico attimo di pace.

«White! C'è la tua donna!» gli gridò un collega da lontano.

Donna? Amos non ricordava di aver una donna fissa.

Si voltò giusto in tempo per veder Nebbie sorridere riconoscente al suo collega e raggiungerlo con in mano una scatola.

Un brivido gli colò lungo la schiena. Si irrigidì e fissando il panino mezzo mangiato si rese conto che gli era passata la fame.

Per quale motivo era venuta lì? Aveva delle novità importanti? Improvvisamente iniziarono a formicolargli braccia e gambe dalla tensione. Non si alzò per raggiungerla ma aspettò che lo facesse lei.

«Ehi, ciao.» Nebbie sorrise impacciata e gli si mise a sedere affianco, tenendo in grembo quella scatolina di latta.

«Che sei venuta a fare qui?» domandò lui, andando dritto al sodo. Se doveva saper di essere il padre di quel bambino, meglio che glielo dicesse ora che era seduto.

Il solo pensiero lo fece rabbrividire ancora. Non era sicuro di voler diventare padre, non a ventisei anni e soprattutto non di Nebbie, cazzo.

«Volevo solo vederti... e portarti questo.» Gli allungò la scatolina in latta e Amos la prese titubante.

Quando l'aprì, il contenuto lo lasciò ancor più sconcertato. Alzò il viso verso di lei e non poté far a meno di guardarla corrucciato. «Mi hai portato il pranzo?» domandò confuso.

Lei annuì sorridente. «Sì, ho pensato che un buon piatto di pasta ti avrebbe sfamato più di un misero panino.»

Su questo aveva ragione ma ancora Amos non riusciva a comprendere il motivo di quell'azione. Nebbie non faceva mai nulla a caso. Aveva sempre un secondo fine. Senza nemmeno assaggiare il cibo, lo richiuse e glielo porse. «Ti ringrazio ma non posso accettarlo.»

«È solo un banale piatto di pasta con il sugo.»

«Perché sei qui, Nebbie?» domandò lui, serio.

Non era certo andata lì per portargli da mangiare. Non lo aveva mai fatto nemmeno quando erano insieme, figurarsi ora che si erano mollati. A meno che lui non fosse il padre di quel bambino.

Un altro brivido lo assalì.

La mannara si strizzò nervosamente le mani. Sembrava sul punto di una crisi di pianto ed Amos non era assolutamente in vena di consolarla. «Ho detto a Kevin del bambino e,» Si umettò nervosamente le labbra, «E gli ho anche detto che forse non è suo ma tuo.»

Amos strabuzzò gli occhi e quella che gli uscì fu una secca risata. «Mi stai prendendo in giro, spero.»

Lei scosse la testa e due lunghi goccioloni di lacrime le rotolarono sulle guance. «Doveva saperlo.»

«Non potevi aspettare di andare dal medico ed esserne certa al cento per cento?»

«Ci devo andare tra non molto. E poi son sicura che sia tu il padre.»

Quell'affermazione fu per Amos come un pugno nello stomaco. Come faceva ad esserne sicura? Lui era sempre stato molto attento in ogni loro rapporto sessuale, inoltre non l'avevano mai fatto nel suo periodo di estro e non vedeva come poteva averla ingravidata. Erano solo supposizioni e vaneggiamenti suoi, non aveva nulla di concreto tra le mani. Non ancora.

Non sapeva se incazzarsi o ridere istericamente di tutta quella situazione. Non riusciva a capire come mai Nebbie si fosse convinta che tra i due fosse proprio lui il padre. O non aveva mai scopato con Kevin, oppure voleva semplicemente incastrarlo.

Si alzò dal marciapiede e la fissò dall'alto al basso. «Kevin che ti ha detto di questa cosa?»

A quel punto la ragazza scoppiò in un pianto inconsolabile. Si coprì il viso con le mani e continuò a piangere singhiozzando. «Mi ha mandato a fanculo. Contento?» strillò.

«Io? Ma se hai fatto tutto da sola.»

Nebbie si alzò furiosa. «Gliel'ho detto perché era giusto che sapesse che sei tu il padre.»

«Ma non lo sai ancora, cazzo! Non è detto che sono io il padre... dannato me e quella volta che ti ho scopato!» ribatté lui in un ringhio, troppo furioso per curarsi dei colleghi che si erano fermati ad assistere alla scenetta.

La mannara cercò di afferrargli la mano ma lui si scostò con un brusco movimento. «Amos, io ti amo. Voglio stare con te. Voglio crescere insieme il nostro bambino.»

Il pasura trattenne per un attimo il respiro, gli veniva da vomitare. Tutta quella situazione gli dava il vomito. Non tanto per il bambino, che era una benedizione divina, quanto più l'idea che fosse Nebbie la donna con cui avrebbe dovuto condividere una cosa così tanto importante. «Io non posso.» Scosse energicamente la testa. No, non poteva stare con lei. «Non posso rimettermi con te. Devi capirlo.»

Nebbie scoppiò a piangere ancora, allungando le mani per stringerlo ma lui la bloccò per le braccia. Non voleva nessun contatto con lei. Era stata troppo cattiva e meschina nei suoi confronti. Non aveva alcun diritto a toccarlo.

«Senti Nebbie, io ti aiuterò con tutto me stesso se il figlio è mio ma... non chiedermi di tornare con te. Questo... Questo non posso farlo.»

Le gambe della mannara cedettero leggermente e Amos fu costretto a sostenerla per evitare che crollasse in ginocchio davanti a lui. «Hai un'altra? Ami un'altra?» domandò piangendo e biascicando le parole in maniera quasi incomprensibile.

Marlene.

Fu solo un veloce pensiero, che però gli incendiò interamente il viso. Cercò di riprendersi subito ma fu sempre troppo tardi, ormai lei lo aveva visto. Aveva notato quel suo rossore improvviso e aveva capito che c'era qualcun'altra che gli aveva rubato il cuore.

Si sollevò staccandosi da lui con furia e lo fissò arrabbiata, stringendo i pugni così forte da farsi diventar le nocche bianche. «Sei un bastardo.» strillò così forte da far fermare altri colleghi.

C'era una bella schiera di operai che stavano sghignazzando per quell'insulto teatrino che Nebbie aveva messo su. Se qualche minuto prima era circoscritto a un paio, ora con la coda dell'occhio Amos ne contava oltre la decina.

Ottimo. Si prospettava una bella giornata del cazzo.

«Mi hai fatto le corna e ci siamo lasciati. Io non ti devo niente, Nebbie. Soprattutto il mio amore.»

La mannara gli andò addosso, colpendolo al petto con forza. Le unghie si tramutarono in artigli e gli strapparono la tuta con estrema facilità. Gli occhi le mutarono, diventando gialli. Amos la bloccò, stringendola al petto prima che subisse qualche altra mutazione e diventasse troppo palese la sua natura mannara.

C'erano troppi umani in giro.

Nebbie respirò il forte profumo del pasura, aveva il classico odore di quei dopobarba maschili mescolato ad un intenso aroma di bosco. Rimase qualche minuto così, con il viso affondato nel suo petto. Continuava a tremare e il suo cervello lavorava frenetico pensando a come riuscirlo ad aver tutto per se. Se il figlio era suo, avrebbe fatto di tutto per spingerlo ancora una volta nel proprio letto e tra le proprie gambe. Se il figlio era di Kevin... beh, avrebbe sempre potuto corrompere il medico e fargli falsificare il test di paternità.

Non le interessava nulla di quel bambino. Voleva solo riprendersi Amos. Quel bambino era stato giusto il mezzo per riavvicinarlo.

«Sei tornata normale?» le chiese lui, da sopra la testa.

Era così alto che la sovrastava.

Tra le sue braccia Nebbie si sentiva piccola e indifesa ma anche estremamente protetta. Alzò lo sguardo verso il suo, gli occhi le erano tornati normali. «Sì.» bisbigliò fissandolo con bramosia.

Cosa l'aveva spinta a fargli le corna? In lui c'era tutto ciò che poteva desiderare. Era stata una sciocca, se lo ripeteva sempre ogni volta che ci pensava.

Non appena Amos sentì l'odore dell'eccitazione della femmina, la staccò da se e la fissò di sottecchi. «Vattene, Nebbie. Non farmi usare le maniere forti.»

Lei avrebbe mandato al diavolo tutto e tutti pur di star ancora una volta con lui. Ma lui non la voleva. Lui sembrava interessato ad un'altra donna.

«Lei è bella?» domandò infine, mordendosi il labbro per l'agitazione.

Amos aprì la bocca per risponderle con scortesia poi però il ricordo di Marlene di quella mattina lo fece sorridere come uno sciocco. «Sì, molto.»

Nebbie strinse i denti, gli occhi gonfi e rossi pronti a traboccar di nuovo. Si limitò ad annuire e stringendosi i fianchi si allontanò a passo svelto senza nemmeno voltarsi.

Il pasura si passò una mano sul viso, sospirando. Era stanco. Stanco di tutti.

Aveva bisogno di una pausa dal lavoro, dal branco, da Nebbie, da Victoria e perfino da Marlene. Tutto quello di cui aveva bisogno erano un paio di pacchetti di sigarette e qualche cassa di birra. Peccato che non potesse defilarsi così.

Gettò la scatola col pasto che le aveva preparato in un bidone poco lontano e raggiunse i colleghi che stavano dissipando la calca.

Quando fu abbastanza vicino al gruppetto estrasse una sigaretta dal pacchetto e se l'accese. Bennett, il collega che lo aveva accompagnato in ospedale tempo addietro, si avvicinò sghignazzando. «Ehi White, hai scopato quella sbagliata?» domandò indicandogli la tuta lacera che lasciava intraveder il petto glabro e muscoloso del pasura.

Amos aspirò una ricca boccata di fumo e alzando un sopracciglio fissò Bennett. Non era giornata. «Non sono affari tuoi.»

Ma l'altro rise sardonicamente dandogli alcune pacche sulla spalla. «Anche io, una volta me ne sono fatta una che voleva fregarmi. Voleva lasciassi mia moglie e scappassi con lei.» Gli diede un'altra pacca sulla spalla. «Ma non starle ad ascoltare queste. Son tutte puttanelle. La metà di loro mentre si lavora te, ne lavora altri cinque o sei.»

Amos lo afferrò per il bavero con una mano e alzandolo da terra lo avvicinò alla faccia. «Ho detto che non sono cazzi tuoi.» gli ringhiò addosso, sputandogli in faccia il fumo. Gli occhi gli balenarono per un attimo di giallo.

Quando lo posò a terra, Bennett annuì frenetico e si defilò con gli altri colleghi.

Amos lasciò scrocchiare le ossa delle spalle con un lento movimento del collo e gettò la sigaretta terminata a qualche metro da se. A quel punto decise di rientrare per finire il turno di lavoro.

Era meglio che non lo infastidissero quel giorno. Meglio per tutti. 

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