CAPITOLO 18

Con un ultima pennellata, Marlene terminò il dipinto che aveva cominciato quel pomeriggio. Si era ispirata a un paesaggio molto vicino a casa sua, quella in Scandinavia e mentre il pennello aggiungeva con tocchi rapidi e precisi di colore, per un attimo si era sentita più vicina ai suoi genitori. A guardar quel luogo conosciuto e vissuto per anni, aveva sentito la stretta morsa della nostalgia.

Si era buttata a capofitto nella pittura anche per sfuggire ai pensieri riguardanti la sera precedente. Dipingendo, la sua mente si era completamente svuotata e aveva passato ore piacevoli davanti al cavalletto, interamente immersa nelle sfumature delle sue emozioni impresse su tela.

Peanut le si era appisolata in braccio e più di una volta aveva dovuto pulirle il pelo da qualche schizzo di colore. Ormai quella gatta era abituata ai momenti di estro della padrona e a quanto pareva, trovava rilassante dormirle nella faldata.

Marlene posò il pennello sgranchendosi le braccia. Stare troppe ore in una posizione le faceva venire un mal di schiena allucinante.

Anche Peanut allungò le zampette e sbadigliò, scendendo con un balzo e andando alla ciotola del cibo. Insomma, i suoi cinque chili di ciccia, avevano una motivazione. O dormiva o mangiava. Bella la sua vita da gatto.

«Hai già mangiato. Quanto ancora vuoi mangiare? Tra poco rotolerai.»

La gatta in tutta risposta miagolò tornando a fissare la ciotola. Marlene scoppiò a ridere e alzando gli occhi al cielo prese una manciata di crocchette lasciandole cadere nella ciotola. «Fattele bastare fino a cena. Cicciona.»

Peanut iniziò a mangiar di gusto, alternando crocchette ad acqua. Ad ogni boccone faceva le fusa. Era rilassante vederla così.

Marlene si allungò verso il frigo afferrando una bottiglia di acqua fresca e ne sorseggiò il contenuto con ingordigia. Pitturare le metteva sete, neanche avesse appena tenuto una conferenza.

Il cellulare squillò rompendo il silenzio e la quiete che in quel giorno di riposo si era riuscita a creare. Lo raggiunse sperando vivamente che non fosse l'ospedale per qualche turno extra. Esitò un attimo prima di rispondere, non conosceva quel numero.

«Pronto?»

Al di là della cornetta ci fu un mugolio di dolore. «Marlene?» La voce calda e intensa di Amos la fece sobbalzare e fu costretta a reggersi alla sedia per non cadere.

Una vampata di calore le incendiò il viso.

L'aveva chiamata. Non ci poteva credere.

Dopo quello che era successo la sera prima, non pensava che avrebbe più pensato ad avvicinarla. Era scappata come una ladra. «Chi parla?» Finse di non riconoscerlo. Non voleva pensasse che fosse una povera disperata in cerca di un uomo.

Si sentì una risata trattenuta, sostituita da un ansimo affaticato. «Sono Amos.»

«Ah... ciao, Amos. Dimmi pure.» Essere fredda e distaccata non era il suo forte.

«Marlene... ho bisogno del tuo aiuto. Del tuo aiuto professionale

La fata si accorse subito che la voce del mannaro non era la solita di sempre. Era affaticato, parlava con affanno e respirava a scatti e rumorosamente. «Che succede, Amos?» domandò subito, allarmata.

«Ci hanno attaccato e,» il pasura dovette riprendere fiato. La ferita alla schiena gli strappava il respiro. Sentiva la fronte imperlata di sudore per lo sforzo. Non era certo di restare cosciente a lungo. «Io e un mio uomo siamo feriti.»

Marlene sapeva che non potevano andare in ospedale. Le creature sovrannaturali avevano solitamente medici personali per le loro questioni. Se la stava chiamando, era veramente nei guai. Se non sapeva a chi affidarsi oltre a lei, forse nel branco non c'era un medico. «Dimmi dove siete. Arrivo subito.»

Ci fu un lungo silenzio al di là della cornetta. Marlene si allarmò pensando che fosse svenuto, in realtà, Amos si stava chiedendo se fosse il caso farla venire a casa sua, piena di mannari incazzati. «Abito a Royal Avenue.»

Marlene si sorprese di quanto fossero vicini. Il mondo era veramente piccolo. «In venti minuti son da te.» Afferrò le chiavi dell'auto e corse nel bagno gettando in borsa un sacco di fiale contenenti diverse erbe. Erano erbe fatate, rimedi molto potenti che sicuramente le sarebbero serviti. Se lui aveva chiamato lei, forse la situazione era critica.

Amos strinse i denti premendosi una mano sulla spalla, continuava a sanguinare. Le ferite non accennavano a rimarginarsi. Essere mannari sembrava non dargli alcun vantaggio in quella occasione. «La mia casa la vedi subito, è l'unica azzurra della via.»

La fata chiuse la chiamata e uscì di casa quasi correndo. Quando si chiuse alle spalle il portone del condominio si fissò attorno sentendosi osservata. Forse era una sua impressione ma per un attimo le era sembrato di non essere sola in quella fredda serata. Si strinse nel cappotto ed entrò in auto frettolosamente. Non sapeva come mai quella sensazione non la abbandonasse, ma quando partì lasciandosi casa sua alle spalle si sentì sollevata. Che strano.

Ci mise venti minuti esatti per arrivare a casa di Amos. La vide subito, impossibile non riconoscerla. Stagliava in mezzo alle altre con vistosa prepotenza. Il colore era sicuramente molto più acceso di quanto immaginasse.

Quando scese dall'auto si sentì leggermente a disagio. Stava per entrare in casa dell'ex della sua migliore amica e non l'aveva per nulla avvisata. Doveva dirglielo. Non sapeva come l'avrebbe presa. Non voleva che tra loro si creassero fraintendimenti, credeva fermamente nella loro amicizia. Ed era certa che Victoria avrebbe approvato questo suo aiuto, in fondo anche lei era mannara e con ogni probabilità faceva parte dello stesso branco di Amos.

Una cosa che infastidiva particolarmente Marlene, era quella di non riuscire a classificare i mannari. Li riconosceva ma non riusciva a capire a quale sottorazza appartenessero. Non che le cambiasse qualcosa, ma era comunque seccante.

Si posizionò davanti alla porta e fece un profondo respiro. Non le servì bussare, Amos aprì ancor prima che alzasse la mano per colpire il portone. Era a petto nudo, madido di sudore e pallido. Troppo pallido.

Il sangue di una ferita alla spalla gli colava lungo il petto. Nonostante le sue condizioni pietose e poco affascinanti, Marlene non riuscì a non arrossire. Anche così era bellissimo. Una bellezza disarmante e quasi dolorosa.

Lui non disse nulla, limitandosi a deglutire e lasciandola entrare. Vederla lì da una parte lo sollevava, dall'altra azionava tutti i suoi malsani pensieri... quelli più sconci e poco consoni alla situazione. Fortunatamente, era riuscito a sgomberare casa, restando solo con Logan. Gli altri mannari erano andati da Damian a ragguagliarlo sulla ronda. Alcuni si erano offerti di restare ma aveva preferito mandarli via. Non sapeva come si sarebbero comportati in presenza dell'infermiera e soprattutto, al pensiero che la vedessero un moto di gelosia lo scuoteva ogni volta profondamente.

Non poteva essere geloso di una femmina con cui aveva condiviso poco e niente, eppure la sua bestia scalpitava al solo pensiero che qualche altro uomo posasse troppo il suo sguardo su di lei.

Con passo malfermo, la fata attraversò la porta. Era in casa di Amos. Inspirò a fondo e cercò di calmarsi. Si guardò attorno curiosa. Conoscendolo un poco, non avrebbe mai pensato la potesse avere tanto pulita e ben arredata, anzi, immaginava qualcosa di rozzo e che rispecchiasse più il suo carattere rude. Invece casa sua era una piacevole scoperta, gli accostamenti si sposavano perfettamente tra loro creando un ambiente veramente gradevole. «Dove vuoi che ci mettiamo per la medicazione?»

Amos barcollò verso la camera. Una fitta lancinante di dolore gli mozzò il respiro. Si fermò giusto un secondo, per dar tempo al male di scemare. «Prima lui.» Si spostò guardandosi alle spalle per accertarsi che lei lo seguisse e la condusse davanti al proprio letto.

Logan era steso a quattro di bastoni, con gli occhi chiusi. Le ferite continuavano a spurgare sangue e un vischioso liquido verde, non davano accenno a rimarginarsi. Si muoveva a scatti, girando la testa da una parte all'altra come se fosse preda di qualche incubo. Era completamente inzuppato di sudore, i capelli appiccicati al viso bagnati e impregnati di sangue.

«Oddio, Logan!» Marlene lasciò cadere la borsa e si accovacciò al suo capezzale. Venne attanagliata dal terrore quando lo vide in quella condizione. Le ferite erano profonde e visto che non rimarginavano, era certa che sarebbero serviti dei punti. La pelle lacera continuava a rigettare un liquido verdastro veramente maleodorante. Con ogni probabilità si trattava di un veleno che reagiva solo sui mannari. Non aveva mai visto niente di simile, nonostante i suoi le avessero raccontato molti aneddoti a riguardo.

«Lo conosci?» La sorpresa nella voce di Amos la fece voltare in sua direzione. Sembrava seccato da quella rivelazione.

«Ci siamo conosciuti alla festa di Victoria.»

Il pasura si sentì come trafiggere il cuore da un coltello. Fu come se qualcuno glielo strapazzasse per bene. Era lei la ragazza a cui Logan stava portando da bere. Ora gli era tutto molto più chiaro. Un rombo gli scaturì dal petto. Cercò di trattenerlo ma sebbene fosse a denti stretti, gli uscì ugualmente con prepotenza e minaccioso. Vederla china ad accarezzare delicatamente le braccia del pardo, gli fece provare un lungo brivido di gelosia. Ne fu talmente scosso da obbligarsi ad appoggiarsi contro la parete a braccia incrociate.

Non poteva essere sfiorata da nessun altro uomo. Non poteva essere guardata o desiderata o... sorrise. Ma cosa cazzo stava pensando? Scosse un po' la testa. Lei non era sua. Non doveva farsi strane idee.

Si morse nervosamente la lingua mettendo a tacere la sua bizzarra gelosia. Doveva darsi una calmata, stava valicando i limiti dell'assurdo. «Lo puoi aiutare?»

Marlene alzò il viso da Logan, aveva gli occhi rossi e carichi di lacrime pronte a traboccare. «Ma che cosa è successo, eh?» La voce era incrinata dal dispiacere. Come potevano succedere queste cose? Ancora la fata non riusciva a credere alla crudeltà tanto pressante e presente nel mondo.

Amos scosse le spalle e senza ben capire il motivo decise di raccontarle l'accaduto. «Stanno uccidendo dei mannari e quindi eravamo a fare un giro da trasformati. L'idea era pattugliare la zona cercando indizi e magari beccare i bastardi in flagrante. Solo che ci hanno attaccato per primi... il gruppo era diviso, io e Logan da soli. Avevano armi strane e sofisticate. Armi fatte apposta per quelli come noi.»

Alla fata venne subito in mente l'enorme sacca di armi che aveva dovuto consegnare alla polizia. Sì, quel tizio doveva essere uno di loro. Uno in meno, per fortuna. Non si sentiva cattiva a pensare questo.

Qualsiasi cacciatore avrebbe fatto carte false per catturare una fata. Erano state decimate anche per questo. In quel momento si stavano accanendo sui mannari ma era certa che se avessero scoperto la sua presenza lì in Michigan, non avrebbero aspettato molto prima di andar a cercare anche lei. «Hanno usato del veleno per mannari. Non vi fa rimarginare e vi porta ad un crollo fisico. È un veleno che vi debilita fino alla morte.» Lo sapeva grazie ai suoi genitori. Le avevano insegnato moltissime cose riguardo i veleni e soprattutto riguardo le erbe che servivano per curarne gli effetti. Inizialmente non era sicura ma poi il colore verde del liquido, il fetore, la non rimarginazione, l'infezione rapida delle ferite, la febbre e il radica pallore... le avevano fatto trarre quella conclusione.

Le forze di Amos scesero drasticamente e fu costretto a sedersi nella piccola poltrona accanto al letto. Si sentiva sempre più debole, affannato e il corpo aveva preso improvvisamente a bruciargli. «Non ne ho mai sentito parlare.» Le confidò in tutta sincerità.

Marlene gli lanciò un'occhiata preoccupata. Il pasura stava impallidendo sempre più velocemente. Doveva curare Logan e passare subito a lui. Non c'era tempo. Quei veleni facevano effetto così rapidamente che a stento si riusciva ad eseguire una corretta cura. «I miei genitori mi hanno insegnato qualche nozione sui veleni.» Afferrò la borsa ed estrasse diverse boccette di erbe. «Mi servono alcune cose della cucina però.»

Amos alzò la mano segnandole la porta. «Serviti pure.» Un dolore alla schiena lo trafisse facendolo mugolare. Socchiuse gli occhi cercando di resistere.

La giovane entrò subito in modalità infermiera. Si attrezzò di acqua, una ciotola, una forchetta per mescolare l'intruglio e trovò delle bende nel bagno.

Prese tutto il necessario, senza chiedere il permesso. Era certa che Amos le avrebbe lasciato far tutto, pur di salvare lui e il suo amico.

Tornò in camera iniziando a mescolare le erbe, amalgamandole con un poco di acqua.

Esistevano cacciatori esperti che conoscevano l'arte delle erbe e questo li avvantaggiava molto contro le creature sovrannaturali. In fondo, ognuna di esse aveva qualche erba velenosa per tutta la sua razza. Questo valeva anche per le fate.

Nessuna razza era indistruttibile. Ognuno aveva i suoi punti deboli.

Quelle che stava mescolando ora Marlene, provenivano direttamente dalla Scandinavia, raccolte direttamente dai boschi del luogo e incantate con amore e magia dalla madre che era certamente più esperta e potente di lei. Erano erbe curative rafforzate con magia fatata. Una potentissima panacea.

Quando il miscuglio divenne una poltiglia verde scura e puzzolente, Marlene comprese che era pronto. Si spostò verso Logan, pulendogli le ferite e applicandogli dei punti rudimentali di sutura con il filo che si era preventivamente portata da casa. Una volta fatto questo, applicava l'intruglio sulle ferite, fasciandolo subito dopo.

Era un lavoro particolarmente lungo, perché ad ogni pulizia, la ferita spurgava altro liquido verde e doveva ricominciare. Con la coda dell'occhio poi, osservava Amos seduto sulla poltrona che accusava di minuto in minuto gli effetti del veleno.

Ben presto ricoprì ogni taglio suturato di quella sostanza.

Logan si contorceva con fatica e mugolava di dolore. Sembrava soffrire molto ma la fata era consapevole che una volta applicato l'intruglio, si sarebbe ripreso velocemente. Quelle erbe erano un toccasana per tutte le creature sovrannaturali, mannari compresi.

«Ecco, queste erbe dovrebbero spurgarlo dal veleno, disinfettarlo e aumentarne la rigenerazione. Si riprenderà presto.» Si pulì le mani contro i pantaloni e fissò Logan felice. Il ragazzo sembrava aver finito di muoversi tormentato e ora dormiva con un'espressione rilassata in viso. Quando Marlene sollevò lo sguardo dal pardo, immaginò di veder un Amos infastidito, invece quest'ultimo aveva un'espressione completamente riconoscente. Si era accasciato sulla sedia, bianco cadaverico ma sembrava vigile e attento.

«Grazie.» Le disse in un sussurro che arrivò a Marlene in un brivido.

Non aveva una bella cera. Vederlo così debilitato e precario spaventò tremendamente la giovane. Se fosse successo qualcosa al pasura non se lo sarebbe mai perdonata. «Forza, alzati. Devo medicare te.» Le era rimasto ancora parecchio miscuglio. Sarebbe bastato per medicare anche le sue ferite.

Amos si alzò dalla poltrona e un mancamento lo fece barcollare in avanti. Subito Marlene lo afferrò per la vita e lo sostenne. Sorreggere un bestione simile, non era proprio un giochetto da ragazzi. Per sua fortuna, aveva esperienza sul campo quindi non si scoraggiò dalla stazza. «Non era proprio così che speravo andasse tra noi.» Le bisbigliò facendola arrossire.

Con molta lentezza, Amos si sorresse da solo e appoggiando entrambe le mani contro il muro lasciò che Marlene lo medicasse. Serrava i denti sopportando stoicamente il dolore. Con abilità degne di una infermiera, la giovane suturò la prima ferita sulla schiena, disinfettandola dal liquido vischioso e maleodorante che spurgava. «Sicura che questi punti una volta rimarginato non mi si inglobino nella pelle?»

«No, tranquillo son punti biodegradabili. La parte interna si scioglie dopo due settimane e quella esterna viene via tranquillamente.» Con le dita gli applicò sulla schiena martoriata la poltiglia. Il tocco fece rabbrividire entrambi.

Amos si lasciò sfuggire un sospiro tremulo e chiuse gli occhi mentre le abili e delicate mani di Marlene gli passavano le bende attorno all'addome, chiudendo diligentemente la ferita sulla schiena. Anche in quella situazione di estremo pericolo, l'attrazione fra loro era quasi dolorosa.

«Questa è a posto. Girati che ti medico quella alla spalla.»

Lui si girò di scatto, appoggiando la schiena al muro e fissandola di sottecchi. Era così concentrata nel mettere i punti... così bella con la bocca socchiusa. «Grazie.»

Marlene alzò la testa dal miscuglio di erbe e sorrise. «E siamo a due.»

«Quello di prima era per Logan, questo per me.» Il colorito del pasura già sembrava più roseo. Il biancore aveva lasciato posto a un tenue rosa pallido.

Delle ciocche ribelli, gli ricadevano sul viso. Senza pensarci la giovane gli infilò una mano nei capelli ravviandoglieli. Erano bagnati fradici. Entrambi si sorpresero di quel gesto così intimo. Marlene abbassò immediatamente la mano e accennò un timido sorriso. «Lo faccio molto volentieri, in fondo è il mio lavoro.» Continuò a medicarlo con cura, le gote rosse per la sfrontatezza del gesto.

Tra di loro era calato un silenzio imbarazzante.

Nessuno dei due sapeva che argomento sollevare per far un po' di conversazione spicciola. Ad Amos in realtà piaceva anche sentirla parlare, strano per uno come lui.

«Ecco, ora sei a posto.» Marlene staccò le mani dalla ferita ma prima che potesse allontanarsi Amos gliene afferrò una e la fissò dritto negli occhi. Una scarica di eccitazione pervase entrambi e rimasero a guardarsi per un lunghissimo minuto in completo silenzio. Continuavano ad esser pervasi da una intensa carica sessuale. «Sicura che questa roba non rende impotenti, vero?»

La ragazza cercò di trattenersi ma poi scoppiò in una sonora risata. Si piegò in avanti coprendosi la bocca per cercare di non far troppo rumore. In fondo, Logan dormiva ancora sul letto vicino a loro.

Amos si grattò la testa imbarazzato. «Ehi, ero serio.» La sua vita da latin lover sarebbe stata spacciata, in quel caso. Il sorriso della giovane si allargò maggiormente e il pasura non poté far altro che perdersi in quella bellezza. «Sai... vederti ridere è bellissimo.»

La risata di Marlene le morì in gola e il viso le avvampò come se alla base del collo qualcuno le avesse acceso una miccia. Si alzò di scatto sfilando la mano dalle sue e a passo svelto uscì sul terrazzo per prendere aria.

Stare vicino ad Amos la scombussolava così tanto che a volte aveva bisogno di allontanarsi per ritrovarsi.

Non passò molto che lui la seguì fuori dal balcone. Si appoggiò distante da lei e la fissò di sottecchi. Ormai si era convinto che lei lo evitasse. Non capiva se lo faceva per via di Victoria, per il suo carattere di merda, per la sua natura mannara o per qualcosa che magari le era stato raccontato. Appoggiò i gomiti alla ringhiera e sollevò lo sguardo al cielo. Si era fatto buio, le stelle brillavano in quella notte sgombra da nuvole. «Non so cosa ti abbia detto Victoria... però preferirei che fossi tu a giudicarmi, senza farti condizionare.»

Marlene gli lanciò un'occhiata e sospirò. Fosse stato così facile... e invece no. Victoria era innamorata di lui. Non gli aveva detto nulla, se non che lo amava ancora e disperatamente. «Il problema non sei tu.»

Amos scoppiò a ridere e raddrizzò la schiena. «Non iniziamo con queste perle vecchie una vita. Se non mi vuoi conoscere non c'è bisogno che ti arrampichi sugli specchi. Sono abbastanza grande da accettare un rifiuto.» In verità avrebbe volentieri bestemmiato ma si morse la lingua. Non le avrebbe dato l'idea di uno che supplicava.

Cazzo, Amos White non è uno che supplica nessuna femmina.

La fata lo fissò indispettita. Non si arrampicava su nessun specchio. «Victoria ti ama ancora e io sono la sua migliore amica. Non si può e basta... capisci?»

Amos le si avvicinò. Il colorito era quasi tornato normale. Nonostante fosse ancora imperlato di sudore, sembrava decisamente molto più sano di venti minuti prima. Le erbe fatate, erano definite così proprio per la celere guarigione che procuravano.

Marlene si voltò giusto un attimo a fissare Logan ancora steso nel letto, per lui il discorso era diverso. Lui aveva subito un grosso salasso ed inoltre le sue ferite erano decisamente più profonde. Gli sarebbe servito tutto il giorno di riposo per rimettersi.

Le dita di Amos giocarono con l'orecchino che aveva al lobo, fissò avanti a se in un punto indefinito. «Capisco... ma non me ne frega un cazzo. Detta sinceramente.»

La risposta del pasura la spiazzò un attimo. Era così sincero che a volte la destabilizzava. «Tu sei sempre così?»

«Così come?»

«Arrogante e sfacciato.»

Ci pensò un attimo prima di risponderle. «Sì, credo di si. Perché?»

I due si guardarono. C'erano attimi in cui i loro occhi sembrano legarsi indissolubilmente. Come se non volessero più staccarsi. Come se attorno a loro non esistesse altro. «Perché a volte, credo che tu menta.»

«In che senso?» Si accigliò. Marlene continuava a rivelarsi una sorpresa costante. Nessuno aveva mai messo in discussione le sue parole o il suo modo di fare.

«Beh, credo che tu ti sia creato una corazza.» La ragazza iniziò a giocare con i capelli, nervosamente. «Mi sembri solo uno che ha paura di farsi male.»

Amos aprì la bocca per dire qualcosa ma si ritrovò a boccheggiare il nulla, privo di voce. Nessuno prima d'ora aveva mai pensato qualcosa di simile sul suo conto. Spesso lo definivano uno stronzo privo di cuore o un bastardo figlio di puttana ma mai nessuno aveva pensato anche solo lontanamente che tutto il suo carattere servisse solo a far da scudo. Aveva paura. Non ne andava fiero ma il passato gli aveva dato parecchie motivazioni per essere diffidente. «Forse.» farfugliò.

Marlene cercò di raddrizzare la schiena e una ventata le scompigliò i capelli.

Subito il profumo raggiunse prepotentemente le narici di Amos, che digrignò i denti mentre gli occhi in un baleno mutarono. L'erezione scalpitò improvvisamente tra le gambe, chiedendo a gran voce un po' di libertà. Gli sfuggì un ringhio in un soffio.

Marlene si voltò in sua direzione. Non capiva quanto la sua vicinanza riusciva a scombinare ogni parte di lui. Si avvicinò e istintivamente lui fece un passo indietro, voltandosi a guardarla. Sentiva la bestia scalpitargli sotto pelle.

C'era qualcosa di strano quella volta. La bestia sembrava troppo vicina all'orlo, troppo presente. Sentiva di non aver pieno controllo su di lei. Si sentiva debole e troppo a rischio. Marlene stessa era a rischio.

Quando lei si accorse degli occhi, per un attimo temette per la propria incolumità. I mannari erano creature affascinanti ma al contempo pericolose. Sapeva che lui non voleva farle male, ma la sua natura? Di quella non era certa. «Stai bene?»

Amos scosse la testa. Digrignò i denti sentendo una fitta allo stomaco. Che stava succedendo? Nelle profondità del suo essere, la bestia ruggì. «Io non... non... vattene.» Un brivido gli scivolò lungo la schiena come lava e ghiaccio fusi insieme. Gli occhi diventarono completamente gialli, mutati. I denti si allungarono, come gli artigli.

Marlene si avvicinò ancora, preoccupata. Il suo profumo richiamava la bestia. Com'era possibile? «Amos, hai gli occhi gialli.»

Lui si appiattì al muro cercando di respirare piano. Forse quell'attacco da parte dei cacciatori aveva indebolito il suo autocontrollo. Solitamente non era così debole, sapeva controllarsi bene. Solitamente controllava bene la propria parte animale. Ora gli sembrava una scheggia impazzita dentro di se, era come se sbattesse contro le pareti della sua umanità per costringerlo a mutare. «Lo so, cazzo. Lo so.»

La fata non sapeva se andarsene o se aiutarlo. Sapeva di c'entrare indirettamente con la sua perdita di controllo e voleva in qualche modo rimediare. Gli posò una mano sui bicipiti e cercò di calmarlo. «È tutto okay. Tranquillo.»

«No. Non è tutto okay.» La voce gli uscì diversa, alterata dalla bestia. La natura mannara stava prepotentemente scalpitando per risalire in superficie e uscire. Non gli era mai capitato. Questa reazione lo spaventava.

«Amos... calmati. È tutto a posto. Siamo solo io e te.»

Al ragazzo sfuggì un sorriso. «Credo sia questo il problema. Non – non riesco a gestire la bestia.»

Una scarica di terrore immobilizzò Marlene. Si riscosse subito, comprendendo che farsi intimorire, ora, era l'ultima cosa che doveva fare. Gli afferrò il viso con entrambe le mani e lo costrinse a guardarla. «Guardami. Respira piano. Fai respiri profondi.»

Gli occhi di Amos sfavillarono nel buio, danzando come animati da vita propria. I denti più lunghi e appuntiti del solito gli punsero la lingua, facendogli colare una goccia di sangue a lato della bocca. Cercò di ascoltare i consigli della fata. Socchiuse per un attimo gli occhi e iniziò a respirare lentamente. «Sono tranquillo. Sono tranquillo e non voglio scoparti in forma animale.» Ripeté cercando di auto convincersi.

Il volto di Marlene divenne paonazzo ma cercò di accantonare momentaneamente le sue parole. Non c'era tempo per imbarazzarsi, ora. Se voleva aiutarlo doveva giocare la sua carta d'infermiera e attivare la sua professionalità. «Sei solo in preda ad un attacco di panico.»

Amos inarcò leggermente la schiena, improvvisamente sentì le ossa sfaldarsi. No, non poteva trasformarsi davanti a lei. Spalancò gli occhi fissandola completamente terrorizzato. Non sapeva cosa sarebbe successo nel caso in cui si fosse trasformato. E se l'avesse uccisa? «Non - non riesco a pensare ad altro. Non riesco a fermare il processo di trasformazione, cazzo. Cazzo!» I respiri si fecero piccoli e sempre più veloci. La vista sembrò sfarfallare. Gli tremarono improvvisamente le gambe. Era nel panico. Panico più completo.

«Prova a pensare a qualcosa di bello. Di rilassante.»

Il pasura sollevò lo sguardo verso quello della fata, il profumo così persistente della femmina gli entrava nelle narici, gli scivolava addosso, sulla pelle. Era come una carezza calda che lo tormentava, lo eccitava. «Tipo?» domandò quasi istericamente.

Perfetto, bella figura del cazzo stava facendo. Farsi prendere da un attacco di panico proprio davanti all'unica femmina che poteva lontanamente interessargli sul serio.

Un genio insomma.

Si sentiva come uno di quei novellini che alla prima luna si facevano prendere dallo smarrimento e crollavano in una crisi isterica. E la cosa ancora più assurda, era che nemmeno alla prima luna gli era capitato.

«Tipo... tipo...» Non lo sapeva nemmeno lei. Cosa poteva distrarlo abbastanza? Un'idea le balenò in mente. Non era sicura fosse la scelta giusta sotto molti punti di vista, inoltre poteva non dare l'esito sperato ma non aveva tempo per pensare ad altre alternative. Anzi, non aveva altre alternative. «Tipo questo.»

Si allungò rapidamente verso di lui, appoggiandogli le labbra sulle sue e con un movimento deciso gl'infilò la lingua in bocca. Amos trattenne il fiato, il cuore gli martellava in petto come una scarica di bacchette sulla batteria. Istintivamente le sue mani si spostarono sulla schiena di lei, attirandola a se. Il cervello sembrò svuotarsi completamente e finalmente ricambiò il bacio. Le loro lingue si intrecciarono in una danza erotica e sensuale. Marlene si inarcò contro il suo corpo accorgendosi immediatamente della consistente erezione. Si lasciò sfuggire un mugolio di piacere quando Amos mosse il bacino lasciando che i loro sessi si sfiorassero, attraverso i vestiti.

Entrambi si avvinghiarono quasi a volersi fondere. Le labbra unite in una bruciante e famelica voglia di appartenersi, di mescolarsi fino a diventar un'unica cosa. Il primo a staccarsi fu Amos, per riprendere fiato ma lei gli afferrò con i denti il labbro inferiore e affondò le mani nei capelli. L'intraprendenza di Marlene lo fece sciogliere come lava. Improvvisamente si sentì bollente, pronto e così prossimo all'esplosione. Si sarebbe venuto nelle mutante? Buon Dio... non gli era mai capitato.

Troppe cose che non gli erano mai capitate stavano invece accadendo con Marlene.

Gli passò le dita sulla schiena, lasciandole scivolare sotto la maglietta. Gli artigli si erano ritirati, i denti e gli occhi erano tornati normali.

Non era un metodo ortodosso ma stava decisamente funzionando.

La fata si staccò da lui, inalando rumorosamente aria dal naso, come se non respirasse da interi minuti poi gli appoggiò le mani al petto e si scostò quanto bastava per fermare quell'amplesso.

Era sicura che se non si fosse fermata ora, non avrebbe più avuto le forze per farlo successivamente.

La carica sessuale che si respirava nell'aria era così densa da scuoterla nel profondo, nell'intimo. Si sentiva bagnata e vogliosa.

«Aspetta.» disse tra un ansimo e un altro.

Amos si fermò, scontento. La fissò aspettando una sua mossa. Non avrebbe fatto nulla che lei non avesse desiderato.

«Non possiamo.» aggiunse quasi dispiaciuta.

Il pasura deglutì e l'unica parola che gli uscì fu talmente roca da darle i brividi. «Perché?»

«Perchè – perché no.» Marlene si portò le dita tremanti alla bocca. La sentiva gonfia e bollente. Quello che qualche attimo prima era successo l'aveva incendiata di desiderio. Se la razionalità non avesse ripreso possesso del suo cervello, si sarebbe lasciata scopare su quel balcone.

Si scostò da lui con prepotenza. Victoria. Oddio... Victoria.

Per Amos quel rifiuto era peggio della pugnalata dei cacciatori. Peggio di un calcio nelle palle. «Cosa? Ma... no! Andavamo bene... andavamo alla grande.» Non riusciva a crederci. Prima lo baciava poi ritrattava. Ora lo stava addirittura fissando sconvolta.

Marlene rientrò in stanza come un razzo, afferrò la borsa e corse verso l'uscita di casa.

Lui ovviamente le corse dietro.

Non fece in tempo ad aprire la porta che lui le afferrò il polso fermandola. «Aspetta. Ehi, aspetta.»

La fata si voltò con il viso talmente paonazzo da sembrare in fiamme. Il respiro corto, il cuore che le batteva come un martello pneumatico in petto. «No, Amos. Devo andarmene. Devo» La voce le morì in gola senza riuscir a finire la frase.

«Ho fatto qualcosa di male?» le domandò lui, leggermente spaesato.

Quella femmina lo confondeva. Lo voleva? Non lo voleva? Che diamine le passava per la testa?

A vederlo così confuso, Marlene si sentì un vero schifo. Non avrebbe dovuto. Non avrebbe dovuto baciarlo. No. Dannazione.

Eppure era stata la cosa più bella che le era mai capitata. In quel momento si era sentita così viva che non aveva saputo fermarsi... non subito per lo meno.

Si umettò nervosamente le labbra. Ancora sentiva il suo dolcissimo sapore in bocca. Ancora fremeva per poterlo toccare di nuovo, per poterlo assaggiare di nuovo. Senza fermarsi. Senza limiti. Scosse la testa scacciando quei desideri così sbagliati e sospirò. «Devo andare.»

Amos venne come colpito da un'altra fitta nello stomaco. Le lasciò il polso, facendo ricadere il braccio lungo il fianco. «È perché sono un mannaro? Per Victoria?»

Marlene scosse la testa e gli occhi le si gonfiarono di lacrime. Cercò di ricacciarle indietro tirando su col naso ma queste rotolarono giù, traditrici. «Mi dispiace.» farfugliò afferrando il pomello della porta ed aprendola.

Lui non la fermò. Si limitò a fissarla mentre correva verso la macchina salendoci frettolosamente. Non appena fu certo che partisse senza alcun problema, la richiuse e appoggiò la fronte contro il legno dell'uscio. Strinse gli occhi cercando di scacciare tutti i pensieri negativi che lo stavano sovrastando, i nervi delle braccia vennero scossi da un tremito.

I loro mondi erano troppo diversi. Lei non faceva per lui. Era troppo pura per un tipo come lui. Per reggere il peso del suo animo così sporco.

Doveva lasciarla andare. Doveva smettere di essere così egoista.

Si appoggiò con i pugni a lato della testa, facendo leva per staccarsi dal portone poi si spostò raggiungendo la camera.

Logan si era girato e aveva gli occhi leggermente socchiusi, sembrava cosciente.

Amos gli si avvicinò con un sorriso sollevato. «Ehi, bello.»

«Ehi.» gracchiò l'altro, sfinito. Si sentiva come dopo una maratona, anzi... come dopo esser stato tirato sotto durante una maratona.

«Riposa. Sono qui, fratello.» Il pasura gli passò istintivamente una mano sulla guancia. Era uno stronzo... uno dei peggiori ma era legato profondamente al proprio branco. Era qualcosa che andava al di là del semplice affetto. Si sentiva parte di un nucleo, di una famiglia. Quella che lui non aveva mai avuto.

Si abbandonò nella sedia affianco al letto e allungò le gambe, esausto.

Sul volto di Logan si dipinse un'espressione rilassata.

Con Amos affianco, si sentiva tranquillo, protetto.

Con Amos affianco, sapeva che non gli sarebbe mai capitato nulla di male.

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