CAPITOLO 5

Una saletta luminosa, un divanetto bianco e comodo, un profumo delicato diffuso nell'aria. Un lungo bicchiere di cristallo riempito con del tè alla pesca e tre cubetti di ghiaccio, lasciato al centro di un tavolino dall'aria molto costosa. Niente odore di sangue, nessuna macchia di strana provenienza, nessun losco individuo appostato alle spalle per tenerla sott'occhio.

Vell sentiva più pressione in quell'ambiente così tranquillo e dai tocchi femminili che nell'abitudinaria villa di Marius, piena zeppa dei suoi veresh e traboccante del suo ego.

Era stata fatta accomodare lì solo da qualche minuto, giusto il tempo di guardarsi attorno e constatare che quel posto oltre ad essere pulito le trasmetteva un'idea di calmo equilibrio; una sorta di confort zone che sembrava ritagliarla fuori e lontano da tutti i problemi che si era trascinata dietro dal Kansas.

Il veresh che l'aveva accolta era stato formale ma educato, rispettoso e gentile. L'aveva fatta sedere, le aveva servito del tè, le aveva chiesto se nell'attesa desiderasse qualcosa da leggere o da fare per ingannare il tempo.

Questo per Vell andava ben oltre le sue aspettative. Nessuno l'aveva mai trattata con tanto garbo e rispetto. Ed era proprio per questo motivo che la paura di una decisione avventata si era ben presto trasformata in un turbamento che la confondeva.

La chiamata di quella mattina era stata una scelta azzardata, fatta di pancia, fatta con la fretta di chi sa di avere alle calcagna qualcuno di pericoloso. Aveva agito d'impulso spinta dalla buona impressione che quel King le aveva fatto all'ultima cena dei Magister a cui aveva partecipato insieme a Marius. Quella sera, di un anno prima, mentre lei veniva sballottata tra le mani del proprio King e quelle di molti altri non meno sudici di lui, la femmina del King del Michigan non era stata lasciata sola un secondo, accompagnata e presentata a tutti, trattata come una donna degna e meritevole, un femmina sorridente e raggiante. 

Non aveva dimenticato quei loro scambi di sorrisi, quelle risa sommesse e quei bisbiglii durante la cena. Li aveva invidiati. Invidiati enormemente.

Il King del Michigan le era sembrato galante, un gentiluomo, un essere umano e non solo una bestia. Osservandolo aveva immaginato che forse non tutti gli harem erano come quello del Kansas e che forse c'erano molte realtà differenti oltre a quella che era stata costretta a vivere lei.

Era per questo che Vell si era procurata il suo numero, rovistando nella rubrica di Marius. Arthur King. Si chiamava così. A sentirlo pronunciare ad alta voce le ricordava un po' la figura di Re Artù. Un nome che la faceva sorridere accostato all'immagine di un leone mannaro. Forse era stato scelto per gioco, oppure i genitori avevano in serbo grossi progetti per lui.

Da una delle tre porte che si affacciava in quella stanza fece capolino Dakota. Vell la riconobbe subito: era lei la giovane leonessa che aveva incrociato a quella cena.

Nel petto sentì un peso grosso come un macigno, deglutì e chinò il capo ma la continuò a fissare di sottecchi, troppo curiosa.

Dakota le sorrise raggiante, tra le mani tratteneva un piattino con dei biscotti. «Ti ho portato dei dolcetti. Scusa l'attesa ma Arthur è stato chiamato dal padre e si perdono sempre in chiacchiere quei due.» Rise.

Così calma. Così serena. Il viso disteso e felice, i capelli lucenti raccolti in una lunga e splendida treccia. Indossava dei jeans e una maglietta con disegnato un coniglio intento a mangiare una carota. Non sembrava un abbigliamento formale, né imposto.

Lo stomaco di Vell si contorse come una serpe, stretto e chiuso. L'agitazione le fece tremare le mani. Con un movimento brusco si sistemò la gonna sgualcita che aveva salvato dalla pila di abiti consunti che si era portata via dalla villa di Marius.

Abiti lerci e macchiati di lui, impregnati del suo odore e insozzati della sua presenza.

Alle femmine del King del Kansas venivano date tuniche scelte da lui, che dovevano indossare anche se logore e finite. Nessuna scelta personale. Nessuna preferenza. Tuniche molto più simili a un completo carcerario.

Dakota si avvicinò cautamente, posò il piatto sul tavolino e si mise a sedere nella poltrona accanto a quella di Vell. Non troppo vicina, né troppo distante. «Stai bene?» Strinse i pugni sulle ginocchia, resistendo all'impulso di prenderle il viso tra le mani. Era rimasta turbata quando aprendo la porta le aveva visto i lividi sul volto: il labbro spaccato, i tagli sulle guance, l'occhio con ancora un alone violaceo. Che bestia poteva mai fare questo? Il suo istinto materno soffrì alla vista di quelle ferite e di quel dolore impresso in ogni gesto, incastrato in quelle iridi azzurre così profondamente da scavarle un solco nel petto. Quella ragazza aveva bisogno di un abbraccio, forse più di uno.

Vell distolse lo sguardo. «Certamente» rispose in fretta, brusca. Si sentì cattiva, maleducata; ma la vita nell'harem di Marius le aveva insegnato a diffidare delle altre leonesse. Meglio essere cauti, meglio non fidarsi troppo. A volte bastava allungare la mano per essere pugnalate di sorpresa. Non avrebbe commesso due volte lo stesso errore.

«Sicura? Stai tremando.»

Gli occhi di Vell incrociarono furiosi quelli di Dakota. Non era affar suo. Inutile fingersi amica. Non ci sarebbe cascata. «Ho detto che sto bene» ribatté duramente e subito sentì una pressione sul petto, un'agitazione sconosciuta. Lo sguardo di Dakota sembrava sincero, la sua preoccupazione genuina. Quand'era stata l'ultima volta che qualcuno le aveva chiesto se stava veramente bene? Quand'era stata l'ultima volta che qualcuno se n'era davvero interessato?

Questi pensieri ingarbugliarono la mente di Vell, troppo abituata a stare in guardia, sulla difensiva; troppo spaventata nel prossimo e all'idea di esser incastrata.

Il maggiordomo che l'aveva accolta sbucò da una porta e sorrise. «Sapevo che saresti venuta a curiosare.»

Dakota scoppiò a ridere e mostrò una linguaccia infantile. «Scusa, David. Volevo vederla.» Si voltò verso Vell e sorrise. «Abbiamo parlato a lungo prima che venissi e così eravamo tutte curiose.»

«Tutte?» chiese Vell, confusa.

Nello sguardo del maggiordomo brillò un'espressione divertita, si scambiò un'occhiata complice con Dakota e a grosse falcate raggiunse una delle altre due porte chiuse. Serrò la mano attorno alla maniglia giusto un attimo prima di aprirla di scatto.

Come un fiume in piena un groviglio di corpi cadde sul pavimento. Incastrate tra loro un numero indefinito di ragazze, intente a origliare senza farsi beccare.

«Ahia, Naomi... mi stai infilando un gomito nelle costole.»

«Io? Ma se sei tu che mi stai soffocando con le tue tette.»

«Linnette, aiuto! Toglimi quei capelli dalla faccia.»

«Ragazze, levatevi, cazzo! Pesate, stronze!» gridò una, quella più schiacciata tra tutte.

Tutte scoppiarono a ridere mentre cercavano con fatica di districarsi da quell'ingarbugliato tetrix di corpi, facendosi dispetti e scambiandosi battute taglienti ma in evidente tono giocoso.

Dakota sghignazzò e con la coda dell'occhio fissò divertita lo sgomento di Vell, rimasta immobile sul divano con ancora le mani strette sulla gonna. Aveva gli occhi sgranati e fissava la scena come si può guardare qualche apparizione rara o un mostro a sette teste.

Il cuore le si era accartocciato in petto come una pallina di carta stagnola. Mai prima d'ora aveva sentito tanto forte e chiaro quel vuoto che l'aveva accompagnata da sempre.

Aveva mai riso a quel modo con le sue sorelle? Aveva mai riso a quel modo nella sua vita?

Chinò il capo e si sentì spregevole. Per un attimo un'ondata d'invidia l'aveva travolta così prepotentemente da lasciarla disorientata.

«Ragazze! Ragazze, ora basta!» le riprese Dakota, alzando la voce per sovrastare il brusio.

Tutte si bloccarono sul posto. Alcune si schiarirono la voce con un colpo di tosse, altre sollevarono la mano in segno di saluto, le gote rosse d'imbarazzo. «Ehm, sì... scusa. Ciao!»

«Cia – ciao» farfugliò Vell in evidente stato confusionale.

David si affrettò ad aiutarle ad alzarsi da terra. Una ad una. Come un padre amorevole rassettò i loro vestiti elargendo buffetti qua e là e bisbigliando rimproveri affettuosi. Gli occhi di Vell continuavano a rimbalzare da un gesto all'altro con un crescente smarrimento. Non capiva. Tutti quei comportamenti premurosi e felici la facevano sentire un pesce fuor d'acqua.

Le ragazze si affollarono tutte attorno a lei, alcune le passarono delicatamente le mani sulle spalle, altre le carezzarono gentilmente i capelli.

Troppo vicine. Troppo gentili. Troppo tutto.

A Vell mancava il respiro. Si sentiva accerchiata, in trappola.

«Come ti sei fatta quei tagli?» chiese Hazel, la più curiosa.

«Te le ha fatte il tuo King?» domandò Phoebe.

«È per questo che sei qui da Arthur?» aggiunse Naomi.

Dakota le fulminò tutte con un'unica e severa occhiataccia. «Ragazze, basta! Non fate le scortesi!»

Le altre sei chinarono lo sguardo, il viso imbronciato e rosso. «Scusaci, Dako» borbottarono sommessamente, come bimbe appena sgridate dalla mamma.

Erin si lisciò i lunghi e fluenti capelli neri. Gongolò un attimo sul posto prima di bisbigliare qualcosa: «Comunque a me piace.»

Naomi e Linnette risero. «Sì. Ha proprio dei bei lineamenti.»

Cearra annuì, gli occhi scintillanti di euforia. «Ad Artur piacerà. Ha capelli così lunghi... un po' rovinati ma ci penso io. Tranquilla, un paio di maschere e torneranno luminosi e in forza.»

Vell si sentiva sopraffatta da tutto quel trambusto, da tutte quelle attenzioni, tutte quelle chiacchiere e quelle risate. Non era abituata. Non riusciva a stare al loro passo.

Lei e le sue sorelle si erano sempre scambiate sguardi biechi e crudeli, parole sommesse e velenose. Non avevano mai condiviso niente. Non avevano mai riso insieme. Non avevano mai avuto quell'espressione serena.

Il respiro le uscì a scatti, si portò una mano al petto e la vista le si appannò giusto un attimo.

Sopraffatta.

Proprio in quel momento l'altra porta sempre rimasta chiusa si aprì e Arthur fece capolino con una mano incastrata nei ricci ribelli. «La prossima volta che mi passate mio padre vi sculaccio tutte quante.» Nessuna inflessione crudele nel tono di voce, nessuna minaccia. Il viso rilassato e sorridente, un'espressione malandrina trattenuta nello sguardo.

Le ragazze risero tra loro. «Oh, sì... ti prego, sculacciaci... siamo state molto cattive!» gridò una, facendo ridere tutte le altre.

Le gote di Arthur si tinsero di rosso, bofonchiò qualcosa sottovoce e si passò la lingua sulle labbra in un gesto che tutte conoscevano anche fin troppo bene.

Bastava poco per scatenare una reazione a catena. Il desiderio serpeggiava sempre nell'aria, tra loro non calava mai. Era come un'onda, si ritirava quieto per un po' prima di tornare impetuoso come prima.

David si schiarì a voce con un colpo di tosse e solo in quel momento Arthur si accorse che tra le ragazze, seduta sulla poltrona e nel più completo imbarazzo, c'era anche Vell. Il viso gli andò a fuoco e improvvisamente si sentì come un quindicenne colto in fallo dai genitori mentre si sta vedendo un porno. «Ma – ma che ore sono?» farfugliò guardando l'orologio e accorgendosi che era in ritardo di mezzora sulla tabella di marcia.

«Tranquillo, Art... le abbiamo fatto compagnia noi» gli disse Naomi, passandogli a fianco e stampandogli un bacio sulla guancia prima di uscire di scena.

«Già, quattro chiacchiere tra leonesse» aggiunse Linnette, defilandosi dietro la sorella.

Dakota afferrò sotto braccio Phoebe e Hazel, le più vicine. «Forza, andiamo, ragazze! Arthur vorrà parlare da solo con Vell.» Tutte la seguirono parlottando concitatamente tra loro.

David fece un inchino imbarazzato. «Le chiedo scusa, Signore. Non sono riuscito a fermarle.» In realtà villa King era molto più vivace da quando Arthur era diventato Magister al posto del padre e questo portava un sacco di leggerezza nel cuore del maggiordomo.

Inoltre, essere l'unico veresh della casa lo faceva sentire in qualche modo speciale. Arthur non aveva voluto saperne di altri come lui. L'idea di uomini evirati solo per il gusto di antiche tradizioni lo disgustava a tal punto che si era fermamente impuntato con tutto se stesso per non volerne nessuno. Se non David, il veresh del padre, che per lui era più una sorta di secondo padre visto che lo aveva cresciuto sin da piccolo.

«Fa lo stesso, David. Presumo che prima o poi la signorina Brass le avrebbe dovute incontrare.»

Vell si sentì mancare il respiro. Nessuno l'aveva mai chiamata signorina. Puttana, troia, vacca; così sì. Ma mai signorina.

Il maggiordomo annuì. «Allora vi lascio soli, così potete parlare.» Con un veloce inchino si defilò dalla stanza, richiudendo la porta e lasciandoli soli.

Arthur sospirò stancamente e andò a sedersi dove qualche attimo prima c'era stata Dakota. Parlare con il padre lo prosciugava.

Vell tenne lo sguardo chino, sbirciandolo senza farsi vedere. Era molto più giovane e bello di come lo ricordava. Questo l'agitò ancor di più, forse perché Marius non poteva certo definirsi di bell'aspetto e nemmeno giovane.

Fu Arthur il primo a spezzare quel silenzio. «Mi spiace per il trambusto. Le ragazze son vivaci e curiose.»

Vell annuì, strinse la gonna fino a sbiancarsi le nocche. Un brivido le scivolò lungo la schiena quando realizzò che erano soli e che avrebbe dovuto vuotare il sacco. Poteva mai avanzare una simile richiesta? «Non fa niente.» In realtà quell'intrusione l'aveva messa a disagio, le aveva imbottito la testa di confusione e le aveva tolto le parole. L'harem del Michigan era molto diverso da quello del Kansas. Molto.

«Presumo che lei sia qui per qualcosa di specifico, non è così?»

Vell arrossì. Le dava addirittura del lei. Le mani tremarono. «Sì, esatto.»

«Perfetto! Sono tutto suo... tutto orecchie.»

Tutto suo...

La giovane sollevò lo sguardo, schiuse le labbra e lo fissò imbarazzata. Arthur aveva accavallato le gambe e poggiando i gomiti ai braccioli aveva posato la guancia contro una mano tenuta a pugno. I capelli ricci e rossi gli avvolgevano il capo come una criniera o un sole.

Vell deglutì, sentendosi a disagio. E questa volta non per tutta la situazione ma unicamente per la presenza di Arthur e l'attenta espressione che le stava riservando. «Qua – quando questa mattina l'ho chiamata, ero disperata.»

«Immaginavo. Aveva la voce che tremava... e son certo che ha pianto tutta la notte.» Inchiodò il proprio sguardo nel suo poi gli occhi indugiarono un attimo e scivolarono sulle ferite come una carezza. Anche senza muoversi dalla propria poltrona la sensazione che provò la leonessa fu come se venisse toccata. «Vederla è solo una conferma alle mie supposizioni.»

«Ah.» Vell si sentì nuda su quel divano. Seppur vestita, seppur completamente coperta, si sentì spoglia di tutto. Troppo guardata. Osservata come mai era stata osservata prima d'ora. Uno sguardo capace di scavarle la carne, facendosi strada in quel petto arido di sentimenti; raggiungendo e toccando il fondo dell'abisso della propria anima. Stropicciandosi la gonna annuì. «Presumo che allora abbia intuito cosa voglio chiederle.»

«Già. Chiusa la chiamata infatti ne ho subito parlato con le ragazze.»

«Pa – parlato? Con le ragazze?» Vell si portò le dita a una tempia. Le era venuto mal di testa. Si sentiva sballottata qua e là in balia di sentimenti che le sembravano una tempesta in petto. Non lo capiva. Non lo capiva quell'Harem così brioso, né quel King tanto tranquillo e all'apparenza disponibile.

«Non vuole forse chiedermi protezione?»

Vell avvampò, il viso le prese fuoco come una pira. Lo fissò di sottecchi, sondando la sua reazione, i suoi movimenti. Non sembrava schifato o incollerito, aveva solo un'espressione curiosa, quasi fanciullesca. «E mi – mi vorrebbe? Insomma... sono scappata da un altro harem.»

Arthur aggrottò la fronte, scandagliandola. «E a ragion veduta, oserei.»

Vell trasalì. Quella gelida occhiata al suo corpo segnato le fece più male delle ferite stesse. Non capiva se quell'espressione improvvisamente truce fosse il risultato di uno spregevole pensiero sulla sua persona o magari sul vecchio King che l'aveva ridotta in quello stato. Fece un profondo respiro, strinse la stoffa della gonna, chiuse gli occhi un secondo e pregò nella sua buona stella. Sempre che ne avesse mai avuta una. «Ha ragione. L'ho chiamata proprio per quello. Proprio per poterle chiedere protezione finchè non troverò un altro posto dove andare.» Era una cosa momentanea. Non era sicura che restare fissa in un posto fosse la scelta migliore. Oltretutto conoscendo Marius avrebbe fatto di tutto pur di ritrovarla, calpestando anche chi le avesse offerto una mano e a lei non andava di mettere in difficoltà nessuno.

Il peso delle proprie scelte doveva essere suo e suo soltanto.

Arthur si accigliò. «Un altro posto dove andare? Quindi non vuole chiedermi di entrare a far parte dell'harem?»

Il cuore le risalì in gola e quando deglutì fu come ingoiare sabbia. Ecco l'altro fondamentale punto che temeva affrontare. Sarebbe stata davvero così ardita da chiedergli una simile cosa? «Ecco, a dire il vero...» si umettò le labbra secchie. Non trovava le giuste parole per quella richiesta. O meglio, le trovava ma erano troppo sfrontate perfino per lei.

«A dire il vero?» la sollecitò Arthur, sporgendosi dalla poltrona e osservandola incuriosito. Il viso incastrato nei palmi delle mani, i gomiti sulle ginocchia.

Quando Vell si voltò in sua direzione, la vicinanza con il viso di King la fece sciogliere. Si sentì il volto caldo e bollente e poi un brivido, scivolò giù fino ai piedi portandosi con sé questa ventata di fuoco. Come una secchiata di acqua calda o una folata di scirocco. «So che entrare in un harem è l'unica possibilità per ottenere protezione... tuttavia, ho una condizione da proporle.»

Arthur sorrise divertito e inclinò leggermente il capo, un boccolo riccioluto gli scivolò sul viso nascondendogli un occhio. «Bene. E di che condizione si tratta?»

«Niente sesso. Niente contatti di alcun genere. Troppo a lungo sono stata il giocattolo sessuale di un King e non ho intenzione che la cosa si ripeta. D'ora in avanti sarò io e io soltanto a scegliere l'uomo a cui concedermi. Quando vorrò e nel modo che vorrò» lo disse tutto d'un fiato con lo sguardo impiantato sulle mani. Poi proseguì: «È disposto a proteggere una femmina che non potrà toccare, né obbligare a seguirla nelle sue stanze? È disposto a concedermi diritti e doveri dell'harem pur privandosi della componente sessuale?»

Vell esalò un respiro tremulo. Lo aveva fatto. Lo aveva detto. Aveva imposto delle condizioni. Aveva dettato le sue regole.

Per un secondo si sentì immensamente potente, capace di tutto, capace di poter finalmente decidere della propria vita.

Arthur si ritirò contro lo schienale della poltrona, picchiettò le dita sui braccioli e sorrise divertito. «Mi sembra una richiesta ragionevole.»

«Co – co – cosa?» La leonessa alzò di scatto la testa, gli occhi sgranati e grossi come due palline da ping pong, la gola secca e la bocca schiusa per lo stupore.

Lui si passò due dita sulle labbra e sorrise, nello sguardo si accese un'espressione maliziosa. «Signorina Brass... deve sapere che non ho mai obbligato nessuna femmina a giacere con me. Non sono quel tipo di persona. Mi prendo solo ciò che mi viene concesso... nulla di più.» Schiuse leggermente le labbra e si pizzicò con i denti la punta dei polpastrelli.

Vell deglutì, distolse immediatamente lo sguardo stringendo le cosce. Un'imbarazzante e audace vampata di calore la fece sussultare, agitandosi proprio lì, in mezzo alle gambe.

Era la prima volta che il suo corpo reagiva così spontaneamente e in maniera così evidente.

Respirò a lungo cercando di darsi un contegno, distese le mani sulla gonna ormai stropicciata e si voltò a guardarlo.

Arthur non aveva abbassato lo sguardo, la stava ancora fissando e studiando. «Avrei una condizione anche io... sa, i giochi se si fanno, si fanno in due.»

Vell si strinse nelle spalle e d'istinto, quasi per abitudine, un pensiero orribile fece capolino nella sua mente. Che condizione poteva essere? Qualcosa di terribile? «Mi dica pure. Ma – ma ricordi che le ho detto che non mi concederò e non accetterò alcun contatto.»

«Non si tratta di quello.»

«Ah, no? E – e di cosa?» Sorpresa, sgomento, confusione. Era tutto così diverso, meno intriso di violenza ma non meno spaventoso. Era come scavalcare le soglie di un nuovo mondo e questo le faceva paura.

«Vorrei che venisse ad abitare qui con tutti noi. Mi sentirei più tranquillo... e potrei assolvere meglio il mio ruolo di protettore, non crede?»

Niente sesso. Niente pretese sconcertanti. Niente accenni di violenza. Niente torture. Niente di ciò che aveva combattuto per tutta una vita.

Si limitò ad annuire. Non aveva obiezioni a questo. Anzi, a dir il vero se così non fosse stato non avrebbe nemmeno avuto idea di dove andare a dormire.

Arthur si alzò dalla poltrona, strinse lo schienale e la fissò con un sorriso. «Sono felice che abbia accettato la mia proposta. Le ragazze saranno entusiaste.» Lasciò la presa e andò verso la porta da cui era arrivato. «È la benvenuta qui. Spero si troverà bene, spero... bé, spero possa ripartire da zero.»

Vell sussultò. Il cuore le sprofondò fin nello stomaco. Si pulì i palmi sudati delle mani contro la gonna. Fissò la schiena di quel King mentre spariva dietro la porta e si sentì schiacciata, vinta da tutte quelle emozioni.

Ripartire da zero... era un sogno a cui aveva smesso di credere da molto tempo.

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