CAPITOLO 47
Lo schiocco di una porta e dei passi decisi, pesanti.
Marius avanzava spedito lungo il corridoio del capannone. L'energia mannara aleggiava attorno a lui con così tanta intensità che il suo passaggio provocava un'onda in grado di scuotere perfino gli oggetti. Era teso ed eccitato. L'idea che Vell fosse finalmente a sua portata di mano lo induceva ad aumentare il passo. Voleva vederla. Voleva ricordarle cosa si era lasciata alle spalle. Annichilirla con il proprio potere. Sottometterla e infine giocare con lei come si può fare con una puttana.
Non voleva ucciderla, no. Non subito, per lo meno.
Aveva grandi progetti per lei. La sua idea era quella di renderle indimenticabili tutti i momenti che d'ora in avanti avrebbero trascorso insieme. Le avrebbe reso gli ultimi istanti di vita un tormento che l'avrebbe perseguitata perfino negli inferi. Era la sua vendetta, il suo riscatto per l'onore macchiato.
«Lei dov'è?» La voce di Marius fece trasalire la iena mannara che stava comodamente seduta sulla poltrona, i piedi allungati sul tavolino. Lo scagnozzo si rizzò in piedi cercando di dare contegno ai vestiti e per poco non si mise sull'attenti.
«Si – Signor King... la aspettavamo per stasera.»
«Non devo certo chiedere il permesso a te per presentarmi qui prima.» Marius lo fissò dall'alto al basso, storcendo il naso. Vederlo lì a bighellonare mentre avrebbe dovuto tener d'occhio Vell lo fece indispettire a tal punto che dovette serrare i pugni per non assestargli un manrovescio. Ricorse a tutto il proprio autocontrollo per passar sopra quell'insubordinazione. D'altronde ora non aveva tempo per punirlo. Ma non si sarebbe certo dimenticato. A tempo debito gli avrebbe ricordato qual era il suo posto. E chi era lui. «Lei dov'è?» Aveva già fatto quella domanda due volte, non l'avrebbe ripetuta una terza. Un subordinato intelligente avrebbe risposto subito, senza cadere dalle nuvole e presupporre un fantomatico orario a cui doveva presentarsi. Il fatto che lo stesse facendo aspettare minava la freddezza con cui cercava di celare l'impazienza di quella visita.
«Lei è... cioè, certo! S – sì, ma certo. Mi segua.» Si affrettò a muoversi lungo il corridoio, girandosi come un cagnolino che resta in attesa del padrone.
Marius era in estasi, a stento conteneva la sua euforia e con altrettanta fatica riusciva a mantenere un'espressione neutra che non palesasse quanto in realtà bramasse quell'attimo.
Voleva Vell. Subito. Ora.
Era qualcosa che gli martellava fisso in testa, con insistenza e violenza. Pregustava l'attimo in cui le avrebbe avvolto le mani attorno alla gola, scopandola e soffocandola allo stesso tempo. Lasciandola giusto l'attimo prima che perdesse i sensi, per poi tornare di nuovo a farlo e farlo ancora. Finché quel gioco non lo avrebbe stancato.
Le porte del capannone si aprirono con un cigolio, l'aria fredda gli passò in mezzo alle gambe mentre i suoi occhi già la cercavano.
La vide in un angolo, le iridi gialle, il viso distorto in una maschera di terrore misto a rabbia e i denti allungati e pronti ad azzannarlo. Un basso ringhio riempiva il vuoto dello stabile.
Se ne compiacque.
La voleva così, arrabbiata e pronta a combattere.
Non se ne faceva nulla di una bambolina rotta e remissiva.
Il sinnal, l'unico dei tre incaricati, si alzò di scatto, sull'attenti. E quando Marius lo raggiunse chinò il capo quasi volesse sparire. «Dove sono gli altri?» domandò seccato il King; con la coda dell'occhio, contò le leonesse restati e già in parte seppe darsi una risposta.
«Loro sono... ecco...» Parve visibilmente a disagio. Non gli andava di dire a voce alta quanto i suoi colleghi fossero impazienti di stuprare due vere leonesse, anziché femmine di razze qualsiasi che gli davano il piacere di una sola notte e via. «Nelle altre stanze» concluse, pentito per non essersi impegnato di più nel frenarli.
Marius emise un sibilo di disapprovazione prima che la mano si muovesse. Lo schiocco del colpo amplificò l'intensità del rumore vibrando per tutto lo stabile. Il sinnal sussultò, la testa scattò di lato e dalla guancia prese a colare copiosamente sangue. Sul suo volto spiccarono quattro profondi squarci.
Quando il King abbassò la mano, gli artigli tornarono semplici dita umane. «Va' a prendere la borsa che ho lasciato nella mia auto... e poi, quando torni, chiama a rapporto quegli scarti dei tuoi colleghi.»
Il mannaro fece una rapida reverenza prima di scappare dal capannone con la mano premuta sulle ferite ancora sanguinanti.
Sarebbe potuto andargli peggio. Si sentiva fortunato ad averci rimesso solo una guancia che, fortunatamente, nel giro di un giorno sarebbe tornata normale. Non era però sicuro che sarebbe andata altrettanto bene agli altri sinnal.
Quando non vi fu più alcuna distrazione, tutte le attenzioni di Marius si concentrarono in quel fragile corpo raggomitolato in terra, in cerca di fuga. Vell era così stretta in se stessa da fondere le gambe al petto. Il desiderio di svanire o scappare erano forti, quello di uccidere altrettanto.
«E così, siamo di nuovo qui, eh?» Poche parole che però trasudarono soddisfacimento. Sapeva che l'avrebbe riavuta a sé. Lo sapeva da quando era scappata. Non c'erano stati dubbi per lui, solo frustrazione che ci volesse troppo tempo. Era sempre stato un tipo impaziente. «Stavo pregustando questo momento da tanto.» Gli occhi di Marius si inchiodarono in quelli di Vell che subito ebbe un sussulto.
I mesi alla villa di Arthur King non avevano minimamente assopito quel terrore così radicato in lei. Marius la spaventava ancora. E a ricordarglielo era bastato uno sguardo.
Chinò la testa e fece un respiro profondo.
Controllo. Era l'unica cosa a cui poteva aggrapparsi per non trasformarsi in una bestia selvaggia in trappola e in cerca di fuga. Non voleva dargli quella soddisfazione.
«Non dici nulla?» La stuzzicò lui, beandosi dei suoi tremori. Vedere che aveva ancora questo potere su di lei lo faceva sentire forte, migliore, potente. Esercitare la propria supremazia era una delle condizioni migliori del suo essere King. Amava schiacciare gli altri sotto il suo volere.
«Sei rivoltante» borbottò Dakota, non riuscendo a trattenere il proprio disgusto. Si era talmente abituata alla presenza di Arthur e ai suoi modi di fare che spesso dimenticava quanto gli altri King fossero pomposi imbecilli misogini e maschilisti. Si sentiva fortunata ad essere nell'harem giusto, con le sorelle giuste e il più meraviglioso degli Erus a prendersi cura di lei.
Marius ghignò a quell'insulto e senza perdere tempo l'afferrò per i capelli, reclinandole la testa indietro ed esponendo la gola. Voleva ucciderla per educare le altre all'obbedienza e sottomissione. La loro insolenza lo sconvolgeva e al contempo eccitava. «Il tuo King non ti ha educata a dovere» le sibilò vicino alla faccia, stringendole i capelli fino a farla gemere. Il dolore era potere. La paura era potere. Quelle sensazioni gli si scioglievano sulla lingua come il più dolce dei nettari. «Lo sai che potrei ucciderti, vero?»
«E allora fallo! Meglio morire subito piuttosto che dover sopportare ancora la tua stupida faccia e il tuo ego smisurato!»
La mano di Marius si sollevò, pronta a colpire. Il braccio ebbe un fremito, trattenendo a fatica il desiderio di calarlo con violenza. Il King strinse le dita a pugno, sino a sentire le nocche scrocchiare, ma non abbassò la mano per colpirla; sulle labbra spuntò un sorriso spietato. «Astuta! Davvero! Per un attimo ci sei quasi riuscita...» La lasciò di scatto, facendola crollare in terra. Dakota puntellò le mani per risollevarsi e gli rivolse un'occhiata furente. «Ma non sono stupido come credi. So quello che stavi cercando di fare!»
«Davvero? Mi sorprende» lo provocò ancora la leonessa. Le altre, vicino a lei, sussultarono. Sapeva di star giocando con il fuoco in quel momento, eppure non poteva fare altrimenti. Marius era lì per far del male alle sue sorelle, e a Vell in particolar modo. L'unico modo per distrarlo da quell'intento era far sì che focalizzasse le sue attenzione su altro. E cosa c'era di meglio se non una leonessa indisciplinata pronta a tenergli testa riempiendolo di insulti? «E dire che dalle sciocchezze che dici non sembri aver una mente brillante.» Si rialzò a sedere, sfidandolo con lo sguardo.
Questa volta Marius non riuscì a trattenersi e le arrivò un manrovescio. Il colpo fu così forte che il dolore gli riverberò lungo il braccio e dovette massaggiarsi la mano per riprenderne la sensibilità. Dakota scivolò a terra, battendo il viso contro il pavimento. «Sei solo una lurida p-» si bloccò, il piede pronto a calciarla stridette sul pavimento. Rise. Si passò la lingua tra le labbra. «Sai, mi è venuta un'idea» sibilò, afferrandola per un braccio e tirandola in piedi. Dakota restò immobile, decisa a non far trapelare nulla se non il proprio disprezzo e pronta a subire la sua furia ma lui fece qualche passo indietro gustandosi il piccolo ritaglio che quella visuale gli offriva: uno spaurito gruppetto di donne che si stringevano l'un l'altra, facendosi forza capitanate da una; e poi una, distante da loro, raccolta in se stessa e alienata dal gruppo.
Marius puntò in lei il proprio sguardo. Una resa dei conti che aveva minato la tranquillità dei suoi sonni. «Alzati» le ordinò. Vell però rimase immobile, un fremito la percorse. «Alzati subito.»
Per un attimo Vell pensò di ignorare anche quel comando, fronteggiarlo e lasciarsi distruggere; alla mente però le venne il ricordo dolceamaro di quella piacevole quiete che aveva ottenuto nella sua breve libertà.
Si fece coraggio e si alzò, abbracciando il proprio corpo quasi a voler tener i pezzi della sua anima uniti insieme.
Sul volto di Marius si palesò un sadico compiacimento. La sua mente sadica aveva elaborato un gioco crudele e già ne pregustava i risvolti. «Raccontami: quanto ti è piaciuta la tua vita da donna libera, eh?»
Vell restò in silenzio, mordendosi il labbro. Non voleva rispondere a quella domanda tanto ovvia e che ormai aveva solo il sapore di un triste passato. Un attimo fuggente che mai più avrebbe vissuto.
«Allora?» tuonò lui, facendola sobbalzare. «Nel nuovo Harem ti hanno tagliato la lingua?»
Lei scosse il capo, umettandosi le labbra e cercando coraggio e voce per parlare. In realtà, la voce c'era, era lì, forte e chiara; odiava solo l'idea che quella risposta lo avrebbe reso felice. Felice della sua infelicità.
«Avanti, Vell! Raccontami di quanto ti è piaciuto vivere libera!» berciò lui, con scherno e la sua tipica arroganza.
«E va bene! Hai ragione! Okay?» gridò infine lei, esasperata e furiosa; portata ai suoi limiti. «Ho amato ogni singolo secondo di quella libertà. Ogni. Fottutissimo. Singolo. Secondo.» prese fiato. «E farei di tutto pur di riaverla» aggiunse. Le costò caro ammettere quella dolorosa verità. Si sentiva beffata da lui e dal destino, che sin dagli albori le aveva sempre ricordato quanto squallida fosse la sua vita. Lei non era nata sotto una buona stella, questo lo sapeva bene.
A Marius però, quella risposta di pancia, piacque parecchio perché confermava in tutto e per tutto i suoi sospetti: Vell rivoleva quella libertà ed era determinata e disperata abbastanza da far tutto pur di ottenerla di nuovo. Ora doveva solo capir quanto in là fosse disposta a spingersi.
Preso così da uno slancio di puro entusiasmo, sfilò il coltello dalla guaina nello stivale e glielo lanciò ai piedi. Lei sgranò gli occhi, sorpresa; e poi fissò quella lama con rassegnazione e lo sconforto di chi sa di non aver più scelte.
Era una trappola, lo sapeva.
Sapeva che lo scotto da pagare per la sua fuga, alla fine di tutto, sarebbe stato la morte; eppure era certa che gliel'avrebbe resa più difficile di così. D'altronde anche la morte stessa in certi casi era una forma di libertà. E lui non la voleva libera, ma sua.
«Prendilo.»
Vell trasalì. Quell'ordine esplicito e così imperativo suonò tanto come una condanna. Nella sua testa sentiva il veloce e inesorabile ticchettio dei secondi che le scorrevano via senza che potesse arrestarli. La sua vita le stava scivolando tra le dita. Non ne era mai stata padrona, in realtà.
«Avanti! Forza!» gridò Marius, impaziente. «Non volevi la libertà? Cosa aspetti, eh?»
Era calato un silenzio assordante; di quei vuoti che fanno presenza e rumore a modo loro.
Così, dopo una lunga pausa di esitazione, Vell decise prendere il coltello. Si chinò e nel momento in cui impugnò l'elsa fu attraversata da cima a piedi da una scarica di adrenalina e speranza.
Forse poteva farcela.
Forse poteva sorprenderlo con un attacco e ucciderlo.
«Dà una sensazione di potere, vero?» le chiese, come se le avesse letto nella mente. Lei non gli rispose. «È fatto con argento puro... ma son certo tu non l'abbia dimenticato.»
Vell rabbrividì e ogni cicatrice sul suo corpo parve bruciare. Ricordava ogni singola tortura, anche quelle subite grazie a quel pugnale. Erano le più lente e dolorose. L'argento della lama annullava totalmente la rapidità del periodo di guarigione dei mannari. Anzi, grazie all'argento, il decorso diventava particolarmente lento e sofferente.
Uccidere un mannaro con un'arma di quel tipo diventava molto più facile di quanto si credesse.
«So che vorresti usarla contro di me» le sussurrò all'orecchio, dietro di lei. Quando l'aveva raggiunta? Quando era riuscito ad arrivarle alle spalle? «ma sono un King e la mia morte farebbe muovere il Consiglio... ti darebbero la caccia ovunque e finiresti per morire o, peggio ancora, finire nell'ennesima gabbia... ancora una volta schiava degli altri. E tu questo non lo vuoi, vero?»
Vell serrò la presa sull'elsa. Sentiva i suoi pensieri esposti, nuda di fronte a lui; che sembrava leggerle dentro tanto bene.
Era uno scacco matto quello.
Si sentiva soffiata via dalle mani quella minuscola chance di salvarsi e vivere.
«L'unico modo per guadagnarti quella dannata libertà... è quello di ottenere il mio consenso.» L'afferrò per la coppa, tirandola indietro. La schiena di Vell impattò contro il suo petto e quel contatto le diede il voltastomaco. «E tu sei disposta a tutto pur di ottenerlo, dico bene?»
Lo odiava. Lo temeva. Avrebbe preferito morire piuttosto che stare altri anni sotto di lui, a subire le sue sevizie. Ma aveva ragione: era disposta a patteggiare, a trattare con lui. «Sì» la risposta le uscì tra i denti, tagliente e cattiva, sputata fuori con un tono a metà tra l'umano e la bestia che era in lei. «Sì... tutto» ripeté.
Sì, voleva la sua libertà. Voleva la sua occasione di vita. Voleva il suo riscatto.
Lui glielo doveva. Il mondo glielo doveva.
Marius sorrise. Un sorriso malvagio e pieno di crudele premeditazione. «Allora, dimostramelo... e uccidila.» La lasciò di scatto, spingendola in avanti, verso Dakota. Vell quasi cadde ma l'altra leonessa subito la prese, tenendola nel suo abbraccio quasi volesse proteggerla.
Vell rimase immobile alcuni istanti, in quel calore gentile e pensò di non aver capito bene. Poi d'un tratto, tutto le sembrò fin troppo chiaro. Voltò gli occhi per cercare quelli di Marius e trovò uno sguardo perverso, compiaciuto; la faccia di uno che sa di aver vinto la partita.
«Hai detto che vuoi la libertà, no? A ogni costo!» Allungò la mano e indicò Dakota, ritta e fiera, piena di sdegno. «Te la darò, lo prometto... a patto che tu scelga: loro... o te stessa. È facile, devi solo scegliere.»
Scegliere il branco o egoisticamente se stessa. Scegliere di lottare insieme per un destino incerto o uscire da lì con certezza, ma sola.
«Lei non farebbe mai una cosa del genere, bastardo!» Dakota strinse a sé Vell, facendole da scudo col proprio corpo e la propria integrità. «Non è un mostro come te.»
Marius anziché reagire a quegli insulti scoppiò a ridere, senza staccare gli occhi da quelli di Vell, quasi si fosse instaurata una tacita connessione tra i due. Era focalizzato su lei, lei soltanto. Le altre erano un triste contorno che non lo interessava minimamente. «Non siamo poi così diversi... io e te» le disse, abbassando gli occhi sulle mani della leonessa. Vell serrava il coltello con forza. In lei c'era una scintilla di rabbia ma anche determinazione. «Non c'è posto per gente come noi in un branco... siamo fatti per comandare su noi stessi o morire tentando.»
E aveva ragione. Vell sapeva che aveva ragione. Per quanto assurdo fosse, lui la capiva molto meglio di altri.
Dakota le carezzò debolmente il braccio, cercando di farla tornar in sé. «Non lo ascoltare. Non ti lascerà mai andare... nemmeno se ci uccidessi tutte quante.» C'era un pozzo nero nello sguardo di Vell che la spaventava, un punto di non ritorno che sembrava a un passo dall'oltrepassare. «E poi, Arthur starà sicuramente arrivando...»
«Arthur? Arthur King?» Marius esplose in una risata sguaiata. «Probabilmente starà ancora piangendo sul cadavere della sorella.»
Quell'affermazione impietrì le altre, già oltremodo spaventate. Si strinsero l'una all'altra, gli sguardi pieni di terrore e smarrimento. Dakota ebbe un brivido e l'urgenza di vomitare.
Bröna.
La sua piccola, testarda e coraggiosa, Bröna era morta. No. Non voleva crederci.
«Bugiardo!» lo aggredì, verbalmente. Anche se avrebbe voluto farlo con unghie, morsi e la sua natura mannara.
«Tu credi? E allora perché non è qui con voi? Credevi forse che l'avrei risparmiata?» scrollò le spalle con fare annoiato. «Era solo una piccola psicopatica ingrata! Le avevo promesso suo fratello... tutto per lei. Ma lei scelse il branco, scelse voi tutte.»
Cearra scoppiò in singhiozzi, coprendosi la bocca con la mano. Il dolore e la paura le stavano scavando una voragine in petto. Phoebe la tirò a sé, stringendola con amore e cullandola piano, nella speranza che la sua vicinanza le donasse un po' di conforto.
«Comunque è tua la scelta, Vell... sai che mantengo sempre le mie promesse, ma non ripeto le mie offerte... soprattutto di questa portata.»
Lo sapeva. Sì.
Ci aveva vissuto anni a stretto contatto. Sapeva che non mentiva. Sapeva che era fermo nelle sue promesse e che quando offriva qualcosa, accadeva solo una volta. Una sola.
E a Vell non interessava di nessuno, se non di sé. Né di Dakota, né delle altre, né di Arthur.
A lei interessava solo la propria libertà. Il resto era una di quelle cornici che non le sembravano necessarie.
Strinse ancora un attimo il coltello prima di decidere. E lo fece con una tale disinvoltura che quel gesto abominevole le parve quasi naturale. Si ruotò di poco, decisa, e con tutta la forza che aveva in corpo lo piantò nel ventre di Dakota.
L'altra leonessa sgranò gli occhi, sorpresa, aggrappandosi alla sua spalla. In faccia un'espressione stupita mista a un fortissimo e lancinante dolore. Quando tentò di parlare, tossì sangue e alcuni schizzi finirono sul viso di Vell, totalmente distorto in una maschera di pura brutalità. Nessun pentimento, nessun dispiacere.
Vell era un anima allo stato brado, interessata solo a se stessa e alla propria sopravvivenza. C'era un mostro anche in lei e Bröna ci aveva sempre visto lungo.
La spietatezza con cui aveva affondato la lama in Dakota, nel suo ventre, aveva radici oscure; radicate in un brutale istinto di sopravvivenza, alla stregua di una bestia, un animale. In quel gesto, c'era tutta la sua disperazione; una disumanità che le aveva consumato ogni valore e principio.
«Tu non...» provò a dire Dakota, stremata, gorgogliando con la bocca piena di sangue e reggendosi sempre più debolmente mentre la lama affondava dentro di lei ancor di più. Vell fece pressione usando il proprio peso e tirò in alto la lama. Uno squarcio simile era mortale... non c'era via d'uscita.
Quando ritirò la mano, e il pugnale; il corpo di Dakota crollò a terra esanime, scomposto. Vuoto. Morto. Gli occhi sgranati e terrorizzati, specchio di quegli ultimi istanti. Un blocco immagine eterno su una triste verità: si era fidata e aveva protetto la persona sbagliata.
Il capannone si riempì di grida disperate e pianti. Di paura, di singhiozzi, lacrime e di agonizzanti lamenti.
«Complimenti! Hai ottenuto la tua libertà» le bisbigliò Marius, alle spalle. «ma a quale prezzo?»
Vell chinò lo sguardo, fissando prima il coltello insanguinato poi il corpo di Dakota ormai privo di vita, la pozza di sangue allargarsi sotto di lei e raggiungerle i piedi.
Lasciò che la macchia la raggiungesse, la contaminasse.
A quale prezzo aveva ottenuto la libertà? Non le importava. Non c'era prezzo adeguato alla sua libertà. Nemmeno la morte di qualcun altro.
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