CAPITOLO 43
Era tornato a Detroit da poco meno di mezz'ora e già diverse cose erano andate storte secondo la sua tabella di marcia. Infatti, era la prima volta che Arthur prendeva un taxi e lo odiava. Odiava i sedili scomodi, l'odore di sigarette, di lercio e lo sgradevole sguardo del conducente che non aveva smesso di spiarlo dallo specchietto retrovisore da che era salito nel veicolo. Purtroppo però non aveva avuto scelta.
Aveva provato a chiamare David così tante volte che il cellulare ormai faceva il numero quasi in automatico. Eppure non aveva ricevuto alcuna risposta ed era strano considerato la meticolosità del proprio veresh. Non era mai capitato che David non rispondesse a una sua chiamata, costringendolo così a usare un mezzo diverso dalla propria auto di servizio.
Arthur cambiò posizione, spazientito. Continuava a tamburellare le dita sulla portiera e a guardare fuori. Il paesaggio gli sembrava diverso, noioso. Probabilmente il tassista stava facendo il giro più lungo per spillargli più soldi. Non gli importava. Voleva solo tornare a casa, rinchiudersi nel suo ufficio e pensare.
Dopo la chiacchierata col padre aveva avuto molto a cui pensare e ad esser sincero non era giunto a nessuna conclusione, se non quelle più distruttive. La sua franchezza lo aveva messo a spalle al muro e gli aveva aperto gli occhi su una verità che aveva accantonato a lungo, per molti motivi. Morali soprattutto. Eppure le sue parole erano affondate quanto una lama e per quanto avesse tentato di scrollarsele di dosso, non poteva negare che in parte, se non tutte, erano vere.
Amava Bröna. Lo aveva sempre saputo e lo aveva sempre rinnegato. Le aveva fatto male, l'aveva svilita, l'aveva resa la fragile creatura che adesso era e tutto per soffocare quell'amore che non voleva accettare.
Ma ora, che aveva parlato col padre, sentiva che le carte erano state scoperte. Si sentiva messo a nudo di fronte ai propri sentimenti, spoglio di ogni maschera. E ora l'unica cosa che poteva fare era scegliere cosa farne di quell'amore che ancora non riusciva a gestire.
O abbracciarlo totalmente o rinnegarlo del tutto. Non c'era una via di mezzo questa volta, o bianco o nero. E doveva decidere in fretta, per bene suo e di Bröna.
Rimase a fissare il paesaggio esterno mentre il taxi svoltava un paio di volte, sballottandolo sul sedile posteriore. Ad Arthur sfuggì un'imprecazione colorita ma il sollievo si dipinse sul suo viso quando finalmente si addentrarono nella via di casa. Pochi istanti e si sarebbe liberato del tassista.
Quando l'auto si avvicinò all'entrata della villa però rimase interdetto nel vedere che i cancelli erano spalancati e qualcosa, dentro di lui, si agitò furiosamente. Era già capitato varie volte che si dimenticassero di chiuderli, eppure, quel dettaglio insieme al fatto che David non rispondesse facevano da cornice a una situazione insolita, una nota stonata nella quotidianità del King.
Arthur si sporse sui sedili, per vedere meglio.
«La lascio qui?» biascicò l'uomo alla guida, lanciandogli un'occhiata dallo specchietto retrovisore.
«No, mi porti pure fino all'entrata.» David non glielo avrebbe nemmeno chiesto.
Il taxi risalì il vialetto e man mano Arthur iniziò a sentire una strana tensione attorcigliarsi nelle viscere. C'era qualcosa che non andava. Era una sensazione che provava sulla pelle, un sapore amaro che gli aveva intaccato il palato e la gola, una paura densa e forse immotivata. Eppure non poteva farne a meno, restava arpionato a quei sedili con la consapevolezza che fosse successo qualcosa.
Quando furono abbastanza vicini si accorse che sulla ghiaia c'erano segni evidenti di ruote e vicino all'entrata c'era ancora un furgone nero parcheggiato. «Ma che diavolo...»
«Sono centoventi dollari» se ne uscì il tassista, ignorando l'espressione perplessa e turbata del King.
Arthur gli lanciò una mazzetta di banconote, decisamente troppe per una corsa simile. «Si tenga il resto.» Non aveva voglia di restare a contrattare per il prezzo o aspettare che l'uomo spulciasse nei suoi spiccioli per dargli quanto gli spettava. Voleva entrare in casa. Subito.
Quando scese, il taxi sfrecciò via non appena richiuse la portiera, quasi temesse che in qualche modo Arthur potesse ripensarci riguardo il malloppo appena sganciato. Ma lui non aveva che occhi per casa propria, per la strana presenza del furgone e l'insolita tensione che crepitava nell'aria.
Avanzò di qualche passo e una zaffata metallica lo colse alla sprovvista. Barcollò e si coprì bocca e naso con la mano. Gli venne da rimettere e gli occhi mutarono in un giallo iridescente, animalesco. Ruggì.
Sangue. Sentiva odore di sangue.
Le gambe scattarono veloci con il cuore che aveva preso a battere freneticamente. Nella mente si proposero scenari disgustosi e terrificanti. Non riusciva a calmarsi. Fece i gradini a due a due, accorgendosi che la porta era aperta. L'odore di sangue permeava l'aria, affondando nelle sue narici con devastante forza.
Varcò la soglia travolto da un tumulto di emozioni e odori e la prima cosa che fece fu guardarsi attorno, per cercare le ragazze ma il cuore gli sprofondò in petto.
La Villa era un disastro. Sembrava lo scenario di una lotta senza esclusione di colpi. Il candido arredamento bianco era coperto di sangue, come il pavimento. Strisce rosse e macabre che deturpavano il candore di quella dimora, lo profanavano. Gli oggetti erano sparpagliati ovunque, rotti.
La paura lo colse alla bocca dello stomaco. Fu costretto a sorreggersi a un mobiletto che a sua volta sembrava stare in piedi per miracolo. Distrutto. Demolito. Ogni cosa di lui e della sua vita sembrava andata a rotoli, come la villa.
Un pianto sommesso attirò la sua attenzione. Debole come il vagito di un neonato. Si spostò di lato per veder da dove provenisse e improvvisamente la vista gli iniziò a sfarfallare e le gambe per poco non cedettero sotto il peso di un timore che aveva serbato per mesi.
«Bröna...» rantolò, vedendola china in terra, mentre stringeva al petto un corpo così insanguinato da risultare irriconoscibile; continuava a dondolare, cullandolo nella sua stretta e piangere. Arthur non riusciva a vedere di chi si trattasse, ma era certo che non vi fosse più nulla da fare. Il sangue si allargava sotto di loro come una pozza, invadendo i suoi sensi. C'era odore di morte e paura. «Bröna» ripeté, avvicinandosi cauto.
La giovane ringhiò ferocemente, gli occhi trasformati in bestia, gialli come il sole, vuoti. Strinse al petto il corpo e solo allora Arthur riconobbe David. «Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace.» lo continuava a ripetere tra le lacrime, dondolando e accarezzando il viso bianco del veresh. Era morto. Non c'era alcun dubbio, non c'era più nulla da fare.
Quando Arthur fece un altro passo verso di loro Bröna ringhiò ferocemente, come se non lo riconoscesse. Era tesa, in allerta, i sensi di bestia estesi e pronti a difendersi e difendere. «Sono io, Bröna... sono Arthur.» La leonessa sollevò il capo e solo allora il King notò i tagli, i lividi, le percosse. Il suo corpo era lo scenario di una lotta furiosa, di un accanimento senza mezze misure. Le corse incontro temendo che ogni parte di lui si frantumasse proprio lì, davanti a lei. E le prese il viso tra le mani. «Sono io, leannan. Sono io.»
Ma Bröna non lasciò David. Lo strinse al petto, sebbene gli arti del maggiordomo fossero abbandonati mollemente in terra. «Ho provato...» disse, la voce rotta dai singhiozzi. I fremiti la scuotevano con forza. «Ho provato. Ho provato a salvarli... ho provato...» Continuava a piangere, ad accarezzare David, a dondolare, a farfugliare frasi sconnesse. Sembrava non le importasse che il suo corpo fosse una mappa di violenza. Il dolore fisico non era abbastanza per seppellire quello del cuore. «Sono ancora qui. Li sento. Qui. Sono ancora qui.» Strinse David. «Lo devo proteggere. Lo devo proteggere. Ho provato. Ho provato...» Singhiozzò. «Scusa, David. Scusa. È tutta colpa mia. Tutta mia.»
«Chi è ancora qui?» Arthur tese le orecchie, si guardò attorno. Sentiva dei rumori provenire dalle stanze ai piani superiori ma al momento Bröna aveva la precedenza su tutto il resto. Si protese per carezzarla e l'occhio gli cadde sul maggiordomo. Il veresh aveva un'espressione contrita, sofferente. In lui si poteva leggere una ultima ed estenuante lotta, una tenacia che gli era restata aggrappata fino all'ultimo respiro. Arthur buttò giù un boccone amaro e sentì delle calde lacrime rigargli il viso. Due dita si allungarono, tremanti, a sfiorare il viso tumefatto e deforme dell'uomo. Gli sfuggì un singhiozzo a vederlo ridotto in quello stato, spettro del carismatico maggiordomo e amico che era stato. Come un padre. Come un fratello maggiore. «Chi è...» deglutì, sforzandosi di parlare. «Chi è stato a fare questo? Dove sono le ragazze?» Ma in cuor suo sapeva già la risposta, ancor prima che Bröna parlasse.
«Loro sono venuti e io... io lo avevo detto alle ragazze. Era pericoloso... pericoloso... pericoloso. Avrei fatto meglio a morire ma no, loro erano sicure...» Bröna carezzò David, con le dita incrostate di sangue e ricoperte di tagli. Non rimarginavano. Era così debole che nemmeno la rigenerazione rapida dei mannari stava agendo sul suo corpo. «Ho dovuto chiamare Marius. Mi ha minacciato. Lui voleva che... che...»
Arthur si spostò di lato, per abbracciarla. Le prese il capo costringendola a posarglielo sul petto e Bröna aspirò rumorosamente il suo odore. Per un attimo le lacrime smisero di scendere. «Hanno portato via le ragazze... tutte» disse, in un bisbiglio, contro il suo petto, stringendo i pugni contro la sua camicia. «Sono venuti. In tanti. Pensavamo di poter combattere Marius ma Vell... lei...» singhiozzò di nuovo.
«Cosa ha fatto Vell?» pronunciare quel nome gli ricordò il motivo per cui molti King non accettavano di dar rifugio a leonesse sfuggite da altri harem. Ora lo capiva meglio, capiva il prezzo da pagare.
«Dakota le aveva detto di fuggire. Di andarsene prima che... che arrivassero... era la scelta migliore per lei.» Bröna tremò. «Volevamo fuggisse ma lei... lei si è infuriata e ha iniziato a gridare... a rompere cose e poi...» Scosse il capo, ricominciando a piangere. Allungò la mano per stringere quella del maggiordomo, si piegò a baciargliela, tra le lacrime, tremando come una foglia. «David... oddio, David... è tutta colpa mia. Mi dispiace. Mi dispiace. Se solo fossi morta quando dovevo... io... ora tu...»
«Bröna,» Arthur le prese il viso tra le mani e la costrinse a guardarlo. Non voleva essere severo con lei, soprattutto in quel momento e soprattutto nelle condizioni in cui era ma aveva bisogno di sapere com'erano andate le cose. «Cos'è successo dopo?»
La leonessa tirò su col naso, fece un respiro profondo. Annuì, deglutendo. «Sono arrivati loro, le iene di Marius. Mentre le ragazze litigavano.» Si pulì le lacrime con le mani ma non fece altro che sporcarsi ulteriormente di sangue. «Vell ha tentato di scappare... anche le altre hanno cercato di aiutarla ma poi...» riprese a piangere. Si prese la testa tra le mani, stringendo le dita nei capelli, tirandoli. «Loro erano tanti. Troppi. E poi... poi alcuni hanno iniziato a picchiarmi e...» Continuava a scuotere la testa come se non riuscisse a mettere insieme i pezzi, o non volesse. «Dicevano che era un regalo per te ma David... David è intervenuto e...» gli lanciò un'occhiata e affondò il viso nelle mani, piangendo così forte che l'intero corpo fu assalito da sussulti. Lui l'aveva difesa. A costo della vita.
Arthur la sollevò da terra quasi di peso. Erano mesi che non la prendeva così ma il suo corpo era come lo ricordava: minuto, fragile, leggero come una piuma. «Ce la fai a camminare? Ti devo portare alla clinica Brown. Subito.» La tenne stretta a sé, lasciando che posasse i piedi in terra ma sostendendo tutto il suo peso. Aveva paura a lasciarla. Temeva che facendolo non l'avrebbe mai più stretta tra le braccia. «Devo portarti al sicuro. Devo... devo andare a riprendere le ragazze... devo...» gli uscì un ruggito incontrollato, furioso e bestiale. La sorella gli strinse con forza la camicia, fissandolo con occhi spaventati.
«Non puoi andare da solo, Arthur. Non puoi andare...» rantolò lei, aumentando la presa, terrorizzata. «È quello che vuole. È quello che si aspetta.»
«Ed è quello che avrà.» Arthur sentiva la bestia scivolargli sotto pelle, pronta ad uscire, pronta a prendersi la vendetta che tanto agognava. Non avrebbe lasciato impunita la morte di David, o le percosse a Bröna, o lo sconfinamento e il rapimento del suo harem. Questa volta ci sarebbe stato un bagno di sangue e non si sarebbe tirato indietro. Niente diplomazia.
«Ti prego, Arthur. Ti prego» lo supplicò Bröna. «Chiama il Consiglio... fatti aiutare... ma non andare da solo, ti prego.» E proprio in quel momento tre iene scesero dalle scale, le braccia cariche di oggetti trafugati, lo sguardo vigile e ferino.
Arthur fece solo in tempo a girarsi prima che uno sparo echeggiasse nella stanza. Si trovò spinto lontano, strappato dall'esile corpo della sorella che in un ultimo sprazzo di forze lo aveva allontanato con coraggio da sé. Il colpo la prese in pieno addome, mentre aveva usato se stessa come unico scudo per il fratello. Un estremo e significativo gesto del suo amore per lui, forse l'ultimo.
«Bröna! No!» gridò lui, terrorizzato.
Sotto di lei si allargò una pozza di sangue, veloce, come l'acqua di un torrente. Si voltò a guardarlo con il terrore dipinto in viso, sputando un copioso getto rosso che dalla bocca le scivolò lungo il mento. Frastornata si portò le mani allo stomaco, tossendo. «Arthur...» rantolò, barcollando un attimo, prima che le gambe cedessero.
Lui trasalì, il cuore stretto in una morsa di puro orrore. Tutto improvvisamente sembrava diventato un incubo. «No, no, no, no, no.» E nel protendersi ad afferrarla cadde a terra insieme a lei, mentre gli uomini di Marius scappavano indisturbati.
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