CAPITOLO 42
New York. One Word Trade Center. Centoquattresimo piano. Sala d'aspetto del Consiglio degli Artigli.
Arthur continuava a tamburellare le dita sulle ginocchia. L'attesa lo stava snervando.
Per arrivare lì era partito subito dopo la chiacchierata con Bröna. Ci aveva impiegato poco meno di due ore di aereo. Tempo ben speso visti i dubbi che lo stavano assillando. Aveva bisogno di vedere suo padre. Forse sarebbe riuscito a tornare in serata. Anzi, senza alcun dubbio visto che solitamente il padre era molto sbrigativo.
Una anguish gli passò davanti. Arthur la fissò incuriosito. Nel suo territorio non ce n'erano, eppure i serpenti mannari lo avevano da sempre affascinato. Era riuscito a parlare con un Mamba, una volta, a una cena; ma si era convinto che i capobranco di questa razza di mannari dovessero costantemente lottare per il proprio posto. Non gli sembravano branchi particolarmente facili da gestire.
La porta della sala riunioni si aprì con un cigolio e alcuni membri del Consiglio uscirono parlottando e ridacchiando tra loro; suo padre, al seguito. Era in compagnia di una donna dai capelli rossi, Arthur l'aveva già vista alcune volte durante altre visite, si chiamava Yelleya ed era una Pira. Faceva parte di una rara e affascinante razza legata al fuoco ormai decimata dai cacciatori.
Non si accorsero di lui, erano troppo intenti a parlare con un altro giovane che Arthur riconobbe subito: Korra. Il drakos sorrideva e ogni tanto allungava la mano carezzando un braccio o una mano o una spalla dei due ragazzi che aveva accanto. Arthur ci mise un po' per capire chi fossero. E ne rimase così sorpreso che si alzò dalla poltrona su cui sedeva senza però muovere nemmeno un passo.
Arteca e Jamaar stavano molto meglio di come li aveva lasciati in quel bosco tempo addietro. Indossavano entrambi una divisa nera con troppi foderi e troppe armi, aderente al corpo come una seconda pelle; lasciava ben poco spazio all'immaginazione, delineando il fisico tornito che sembrava essere diventato ancora più prestante. I capelli lunghi erano raccolti in una coda alta e degli occhiali sottili e neri erano l'unico ornamento del viso, sembravano far parte di un look creato a puntino per loro... non certo per nascondere la loro cecità.
Arthur era convinto che il tempo gli avrebbe fatto riacquistare la vista e invece, così non sembrava. Non per ora, almeno.
Quando il padre lo vide sollevò una mano per salutarlo e liquidando gli altri lo raggiunse a passo svelto. «Arthur! Figliolo! Come mai qui?» Lo abbracciò di slancio e da sopra la sua spalla Arthur vide lo sguardo attento e curioso di Korra posarsi proprio su di loro. Li fissò un attimo e poi prese a bisbigliare con Arteca e Jamaar che sembravano essersi trasformati in tutto e per tutto nelle sue guardie personali. Di sicuro, con bestioni simili accanto, qualsiasi malintenzionato sarebbe stato scoraggiato da qualsiasi azzardo. «Di solito mi chiami sempre qualche giorno prima.»
«Sì, hai ragione. Mi scuso per questa irruzione ma...» Si grattò la testa, infilando le dita negli intricati riccioli. «Avevo alcune domande da farti.»
Lo sguardo del padre si fece sottile e curioso. «Sembri preda di un grande dilemma, figliolo.»
Arthur rise. «Oh, sì. Lo sono.»
«Vieni, allora. Andiamo nel mio studio. Qui ci sono troppe orecchie sovrannaturali che possono farsi gli affari nostri.» Lanciò un'occhiata a Yelleya che in tutta risposta rise. «Vedi? La curiosità è femmina... non importa di che razza!» Ignorando gli altri membri del Consiglio sfilò lungo il corridoio, assicurandosi più volte che il figlio lo seguisse.
Non appena raggiunsero il suo studio, il King si chiuse la porta alle spalle, lasciando ad Arthur il tempo di accomodarsi. Quando vide che il figlio non accennava a parlare gli si mise a sedere accanto, dopo aver versato due abbondanti bicchieri di whiskey. «Tieni. Forse ti servirà.» Gli porse il bicchiere.
Arthur lo strinse un attimo tra le dita prima di tracannarne il contenuto. Non voleva usare questo genere di mezzucci per sciogliersi la lingua ma a mali estremi... estremi rimedi, no?
«Problemi con i sudditi?» chiese il padre. Arthur negò con la testa. «Problemi d'affari?» Altro diniego.
Doveva solo prender coraggio e fare la domanda che tanto lo assillava. Non era difficile, no? «Pensavo...» Roteò il bicchiere vuoto, focalizzando lo sguardo sul fondo, sull'ultima goccia di liquore che roteava nel cristallo ad ogni minimo movimento. «Pensavo a te e alla mamma.» Lo disse tutto d'un fiato.
L'altro King non si scompose. «Forse allora saresti dovuto passare a casa, così da poterci vedere entrambi.»
«No. In realtà è più un consiglio che vorrei chiedere a te.»
Jonathan King era un uomo acuto, ed era anche per questo che era entrato a far parte del Consiglio degli Artigli; ma una cosa che lo contraddistingueva era la facilità con cui leggeva le persone. Tanto più i propri figli. «Sei venuto per parlarmi del tuo rapporto con l'harem?» domandò, senza girarci attorno.
Arthur si sentì colpito sul vivo, strinse le spalle e assottigliò le labbra. Annuì.
«E cosa vuoi sapere, figliolo?»
«Come mai hai scelto la mamma? Cioè... come mai hai scelto solo la mamma?»
Bella domanda. Era facile per i King mantenere il loro status di Erus, avere un harem, godere del piacere di tante donne ed essere felici in una abbondanza che non a tutti veniva concessa. Ma a loro sì. Per loro i rapporti sentimentali avevano più vie. E una di queste era anche la monogamia. Certo, decidere di percorrere quella strada aveva anche le sue rinunce; non per niente Jonathan aveva dovuto sciogliere il proprio harem e cedere il proprio posto di Magister al figlio. Ma ripensandoci, era stata la scelta migliore della sua vita e se fosse tornato indietro altre mille volte... non avrebbe scelto diversamente da ora. «Quando scelsi tua madre... lo feci perché i miei occhi non vedevano altre che lei. Era, ed è, il mio faro nella notte, il mio paradiso personale, la mia quiete dopo la tempesta. Non importava quante donne potessi avere nel mio letto, quante fossero disposte a giacere con me; perché io sentivo il bisogno di avere al mio fianco solo e unicamente lei.» Sorrise. «Io credo che ogni King arrivi a un punto della propria vita dove capisce cosa è più giusto per lui. Capisce se l'harem è la realtà che più lo appaga o se è di un amore unico e totalizzante ciò di cui ha bisogno.»
Arthur iniziò a tormentarsi il labbro con i denti, fino a sentire il metallico sapore del sangue in bocca. «Sì, bé... proprio questo mi chiedevo. Come si fa a capire?»
«Immagino che già il fatto che tu sia qui... voglia dire che in te ci sono diversi dubbi.»
«Immagini bene.»
«Hai iniziato a sentire la necessità di una sola femmina? Qualcosa che vada al di là del semplice ruolo di Prae? Qualcosa di più? Di più esclusivo?»
Arthur non rispose. In realtà non sapeva bene cosa dire. Dentro di lui si sentiva spaccato a metà. Dopo la notte passata con Vell il suo cervello era un centrifugato di confusione. «Ho passato la notte con una nuova leonessa dell'harem. Una a cui ho dato asilo di recente. È scappata da un King violento.»
«Bene. E cosa c'è di male in tutto questo?» In realtà il padre sapeva già dove voleva andare a parare il figlio. Aspettava solo trovasse il coraggio necessario per dirlo.
«Lei ha sviluppato un odio viscerale per gli harem. Il suo desiderio più grande è quello di avere un partner normale, una relazione normale... come due persone normali.» Più ripeteva la parola normale più si rendeva conto di quanto per lui fosse un concetto lontano anni luce. Lui non era normale. Non lo era mai stato.
«E ti piace a tal punto da voler abbandonare tutte le altre per stare solo con lei?» domandò il padre, sorseggiando il whiskey e fissando il figlio divertito. I problemi di cuore di Arthur lo avevano da sempre affascinato. Arthur aveva una forte repulsione per la sua natura mannara, tanto da ricercare sotto ogni forma, una parvenza di umanità. L'harem era uno dei tanti impedimenti a questa fallace condizione mentale in cui sperava di crogiolarsi. Anche se il padre sapeva bene quale fosse il maggiore impedimento.
«No. Questo no» rispose di getto Arthur, senza alcun bisogno di pensarci. «Ma è tanto che ci penso. All'harem, alle ragazze, al fatto che anche a me piacerebbe avere una relazione semplice e senza troppe complicazioni. Solo che non capisco chi voglio. Qual è l'unica che voglio? Come si capisce?»
«Questa è una risposta che non posso darti io. Devi scavare nel tuo cuore. Devi capire veramente cosa vuoi. Ed è facile in realtà, Arthur. È una risposta che abbiamo a portata di mano, anche se a volte non abbiamo coraggio di ammetterla.» Allungò il braccio e posò il bicchiere. «Lo hai detto a Bröna?»
Arthur sollevò la testa di scatto. «Cosa? Che voglio sciogliere l'harem e scegliere una sola donna?» Sbuffò una risata secca, scosse il capo e strinse il bicchiere. «No, certo che no. Le ho detto che sono confuso ma... non posso. Non a lei.»
«E perché mai?È tua sorella. Lo capirebbe.»
«Appunto. Lo capirebbe! E so che in qualche modo accetterebbe anche questo! Anche se la distruggerebbe!» sbottò Arthur, arrabbiato più con se stesso che con Bröna. «Lei mi asseconda in tutto, troppo. Accetta pur soffrendo. Si distrugge fino ad annullarsi. È arrivata a un punto di non ritorno, lo sai. Ha cercato così tante volte di togliersi la vita pur di scappare da quello che prova per me... ma io... non ci riesco. Non riesco ad accettarlo. Non posso permetterle di porre fine alla sua vita così! Dannazione! Non - non posso!» Sbatté il bicchiere sul tavolino davanti a sé. «Sono così egoista che non riesco ad allontanarla da me come invece dovrei, che non riesco a staccarmi da lei, che non riesco a pensare ad una vita senza di...» tacque e il padre inarcò un sopracciglio nascondendo un sorriso. I due si scambiarono un'occhiata e Arthur avvampò di colpo. «Io volevo dire che... cioè... è mia sorella. Diamine! E io sono un fratello così protettivo che...»
Jonathan sorrise. «Sai, tua madre e io lo sapevamo. Sin da quando eravate bambini.» Si alzò dal divano iniziando a camminare per la stanza, giocando con alcune carte della scrivania, pensoso. «Siete sempre stati molto legati. Sembravate due splendide metà in grado di completarsi alla perfezione. Ed era quasi un peccato foste nati fratelli... ma ho sempre pensato che fortunatamente, nel mondo mannaro dei King, questo problema non sarebbe esistito per voi.»
Arthur cercò di respirare ma l'aria gli rimase incastrata in gola. Deglutì a fatica, senza dire una parola. Sentiva le gambe molli e il cuore frenetico che continuava a bombardargli in petto. Era così scioccato da quella rivelazione che aveva perso potere sul proprio corpo, non riusciva a muovere nemmeno un muscolo, troppo travolto dalla verità, troppo spaventato.
«Non l'abbiamo mai spinta verso di te. Le abbiamo dato un'istruzione normale e l'abbiamo semplicemente lasciata libera di amare. E la sua scelta è stata chiara fin da subito, figliolo.»
«Ma lei è... è mia sorella» bisbigliò Arthur, sentendo le parole morire in gola. Cercò di tirare un lembo della camicia sgualcita ma notò che le mani gli tremavano visibilmente.
«Lo so. Ma tu la ami... non è vero?»
No. Non la amo, no. Fu il primo pensiero di Arthur. Sordo, doloroso, così forte da bucargli la testa. Sgranò gli occhi e si prese la testa tra le mani. Il respiro si fece corto, veloce, rumoroso. Il cuore sembrò appallottolarsi in petto, come un foglio di cartapesta stretto stretto nei pugni, con rabbia. «Io... io...» Scosse il capo. «Non sono venuto qui per parlare di Bröna.»
«Lo so... ma ti ho fatto una domanda precisa, Arthur.» Forse il padre in quel momento stava facendo una parte crudele, che non amava e non gli apparteneva. Ma se il figlio era andato lì con un problema, ed era un problema di evidenti proporzioni bibliche per interpellarlo, allora doveva scuoterlo abbastanza da metterlo di fronte all'evidenza. «Ti ho fatto una domanda, Arthur!» ripeté, scandendo ogni parola con deliberata lentezza.
L'altro prese fiato, con fatica, come se avesse disimparato a respirare. «Io non...» No. Non la amava. Non poteva amarla. Era inumano e immorale. Era disgustoso e osceno. Erano fratelli. Fratelli!
Gli venne da vomitare. Si tappò la bocca.
«Se è del mio giudizio che ti preoccupi... voglio che tu sappia che il mio unico rammarico è quello di vederti infelice. Di veder infelici entrambi.» Sospirò. «Arthur, io non te faccio una colpa, okay? L'amore funziona così, va anche in direzioni che non ci aspetteremmo mai. E tu, hai una possibilità che molti non hanno... quella di godere di un amore reciproco in grado di renderti una persona felice, migliore; un amore in grado di dissipare le ombre e di trasformarsi nella tua salvezza.»
La disperazione di anni insorse tutta di colpo. Sentire il padre elargirgli a quel modo il proprio benestare, con una leggerezza che lui non riusciva ad accettare, lo fece arrabbiare ancor più di ciò che provava e della presa coscienza dei propri sentimenti. Perché? Perché non lo disprezzava? Perché non gli diceva quanto era riprovevole? Perché gli dava una soluzione così facile e al tempo stesso così distante dall'umanità a cui tanto cercava di tenersi aggrappato? «Ma lei è mia sorella» gridò, alzandosi di colpo dal divano, serrando i pugni. Le vene sul collo pulsavano furiosamente, gli occhi erano sgranati in un'espressione di orrore e ribrezzo. Provava schifo per se stesso, per i propri sentimenti, per la debolezza con cui li aveva appena ammessi; anche se già li conosceva da tempo e già li combatteva strenuamente.
«E allora?» gridò di rimando il padre. «Siamo mannari. Siamo leoni. Funziona così per noi.»
«No. No. No. Io non sono...» tacque. In realtà lo era. Non era umano. Non c'era nulla di umano in lui. Per quanto tenacemente cercasse di convincersene, bastava vedere i propri impulsi o semplicemente il modo in cui la luna chiamava la sua bestia ogni mese. «Io sono.. sono umano» disse, la voce rotta da un singhiozzo. Era stato un male andare lì. Una sciocchezza.
«No, Arthur. Non lo sei. E lo sai perfettamente. Per quanto tu ti possa illudere, sei conscio che non sei umano.» Jonathan lo raggiunse, appoggiandogli le mani sulle spalle e scuotendolo un poco. «Ho sempre ammirato questo tuo desiderio di essere vicino alla natura umana. Ti ha reso un King migliore, un uomo migliore. Ma al tempo stesso, ti ha soffocato.» Aveva sempre voluto dirlo al figlio e quella era l'occasione giusta. Era arrivato il momento di essere sinceri. «La tua non accettazione di te stesso ti ha portato a soffocare la tua parte mannara. L'hai disconosciuta, rifiutata. E così facendo non hai fatto altro che farti male e fare male a chi ti sta attorno... a te, a Bröna, alle altre ragazze.» Lo scosse un po', come se cercasse di farlo rinsavire. «Perché non puoi essere felice? Perché non vuoi? A chi mai potrebbe interessare chi ami? Sono scelte tue, personali, che non danno fastidio a nessuno.» Lo fissò affranto, consapevole forse di chiedergli troppo, consapevole di ferirlo. «Perché non puoi semplicemente ammettere di amarla?»
Arthur si tirò indietro con uno scatto, sbattendo i polpacci nel divano. «No. Io non posso.» Amare Bröna gli avrebbe fatto perdere quel briciolo di umanità a cui restava arpionato. Amarla voleva dire ammettere di aver passato una vita intera a frenarsi, a ferirla, a ferirsi senza motivo. Amarla voleva dire accettare la sua natura mannara, voltando totalmente le spalle alla sua umanità. Amarla lo spaventava e gli faceva temere di perdersi. «Non posso farlo. Non - non posso. Non posso» gridò infine, liberandosi dalla presa del padre. Lo guardò spaesato, spaventato; con gli occhi annacquati di lacrime e terrore. «Perché non mi dici che faccio schifo? Perchè non mi dici che è qualcosa di innaturale? Perché non mi dici che sono immondo e perverso? Perché non mi cerchi di dissuadere?» Mentre gli gridava quelle domande lo aveva afferrato per il completo, stringendo furiosamente la presa. «Perché? Perché padre? Perché?» urlò, fuori di sé.
Jonathan gli sferrò uno schiaffo così potente da farlo ricadere sul divano. Si dovette perfino massaggiare la mano. «Perché dovrei farlo? Queste sono cose che pensi tu, non io.» Lo guardò con distacco e nel suo sguardo si lesse tutta la delusione che in quel momento poteva provare per il figlio. «Cosa sei venuto a fare qui, Arthur? Sei venuto per trovare delle risposte o mettere a tacere la tua coscienza?»
Arthur non rispose. Girò il capo tagliando il contatto visivo, mostrando la guancia già livida. Gli occhi presero a colar lacrime silenziose.
«Sii uomo e prendi una decisione una volta per tutte.» Fece qualche passo indietro, verso la porta. «E abbi il coraggio di abbracciarla senza alcun rimpianto.» Afferrò la maniglia e si fermò un attimo. «Bröna non merita di soffrire in eterno per il tuo egoismo. Se non la vuoi... lasciala libera.» Il padre rimase con la mano sulla maniglia ancora un istante prima di lasciarsi lo studio e il figlio alle spalle, prima di lasciarlo solo con i suoi incubi e le sue nuove realtà spaventose.
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