CAPITOLO 28

Scalza. Con indosso solo la vestaglia.

Bröna strinse il lavello e guardò la propria immagine riflessa nell'enorme specchio del bagno.

Debole. Debole. Debole.

L'anello debole del branco, dell'intero harem.

La femmina debole.

La femmina fallata.

La femmina rifiutata.

Era tornata a casa e si era chiusa in camera annunciando un malessere. In realtà stava tutto sommato bene. Era cosciente della situazione, consapevole.

L'aveva accettato. Anzi, era una vita intera che aspettava questo momento, la scusa giusta per fare la cosa più giusta e forse al contempo la più egoista.

In realtà non era nemmeno la prima volta che ci pensava o che ci aveva provato.

Questa volta però era diverso. Non aveva paura. La morte non la spaventava più da un pezzo.

C'erano altre cose più spaventose. Come vivere una vita intera nelle sue condizioni, arrancando giorno dopo giorno, soffrendo minuto dopo minuto; con il cuore stretto in una morsa indissolubile di dolore, il cervello annacquato dalle medicine, la mente sgombra.

Glielo doveva.

Ad Arthur. Alle sue sorelle.

Si erano presi cura di lei sempre, anche quando lei non voleva. Anche quando diceva loro basta, che non ce la faceva più.

Non era questo in parte crudele?

Quanto si è disposti a veder soffrire una persona che si ama per il proprio egoismo?

Non era forse egoistica questa loro tenacia nel tenerla in quel mondo?

Viva ma morta dentro.

Viva in apparenza. Perché ormai non viveva più, sopravviveva.

Lo stomaco si torse nella solita e angosciante morsa. Era un dolore che sopportava silenziosamente. Ormai era una consuetudine.

I suoi stessi malesseri lo erano.

Il mal di testa, di stomaco, i tremori, le crisi di panico, l'insonnia, i giramenti, gli svenimenti, l'inappetenza, la spossatezza, la pressione bassa, il conati... sembrava una lista della spesa. E invece, era la ristretta lista della sua vita.

Le gambe le tremarono e scivolò in terra, posando la testa contro il muro freddo.

Marius aveva fatto bene i compiti a casa. Aveva studiato il fratello, l'harem ma soprattutto lei.

Era singolare questo suo interesse nei suoi confronti, visto che nessuno ne aveva mai provato prima.

Non è singolare. È determinante. A lui serviva una figura debole... e chi meglio di te?

Bröna si prese la testa tra le mani, soffocando i pensieri spregevoli su se stessa.

Fallata. Fallata. Fallata.

Debole. Debole. Debole.

Rifiutata. Rifiutata. Rifiutata.

«Stanca. Sono così stanca. Così tanto stanca.» Si accasciò sul pavimento, stringendo la testa, lo stomaco. Chiudendosi a riccio su se stessa.

Il suo corpo non reggeva più il peso delle giornate. La sua mente, ancora meno.

Marius voleva attirare Arthur sul suo territorio, voleva che si macchiasse della colpa di sconfinamento.

Per un King sconfinare senza permesso era una dichiarazione di guerra. Un po' come se un esercito di umani di un determinato Paese marciava armato su un altro senza permesso. Aveva lo stesso peso.

Il Paese assediato, era legittimato ad attaccare, a difendersi.

Bröna rise.

Quel Marius ne sapeva una più del diavolo. Costringere lei a dargli informazioni usando la minaccia dei cecchini. Un espediente che si sarebbe lasciato come ultima risorsa ma abbastanza spaventoso da farla cedere.

E per cosa poi? Per dargli praticamente il lasciapassare a Villa King, alle sue sorelle.

Il disgusto si rimescolò nello stomaco come in un pentolone traboccante. Diventò pallida e imperlata di sudore, scattò a carponi verso la tazza del water e vomitò.

Ancora. Di nuovo.

Pensava di essersi già svuotata di ogni cosa, e invece, continuava a buttare fuori la propria debolezza.

Quando si sentì di nuovo libera, tenendosi alla tazza, si lasciò scivolare in terra, la fronte contro la tavoletta.

Pulì la bocca con un lembo di vestaglia e dalla tasca sfilò il coltello che aveva rubato dall'argenteria.

Puro argento. Al cento per cento.

Così affilato da tagliare l'aria.

Un regalo di uno dei tanti ricconi umani per un compleanno di Arthur. Non l'avevano mai usato, altrimenti si sarebbero ustionati le mani.

Ma che ne sapevano gli umani delle debolezze dei mannari?

Lo strinse tra le dita che le tremarono.

«Non lascerò che mi usi come una pedina per i tuoi giochi» sibilò, stringendo tra le mani l'impugnatura in argento. Il metallo le crepitò sui palmi, un fumo scuro si levò dalla pelle bruciata. Bröna strinse i denti.

Doveva farlo.

E questa volta non per se stessa o per porre fine ai suoi dolori, né per qualche capriccio o attirare l'attenzione.

Questa volta doveva farlo per tutte le persone che amava, a partire da Arthur a finire con le sue sorelle.

Doveva farlo per strappare di mano a Marius il vantaggio che avrebbe ottenuto, per costringerlo a rimettere in discussione i suoi piani e sfruttare i suoi mezzi subdoli senza però usare lei.

No, Bröna preferiva morirei piuttosto che essere usata come arma contro la sua stessa famiglia.

«Ti toglierò questo vantaggio. Te - te lo toglierò...» Spinse il coltello sul polso e chiuse gli occhi.

Non c'era altra soluzione. Ci aveva pensato per tutto il ritorno in auto.

Aveva vagliato milioni di altre possibilità. Anche l'idea di scappare lontano o di spifferare tutto ad Arthur.

Impossibile. Tutto impossibile.

Dirlo non avrebbe cambiato nulla, avrebbe solo complicato le cose. Scappare invece avrebbe reso reale ciò che al momento era solo una minaccia.

Lei però non dimenticava che lo scopo principale di Marius era uccidere Arthur sul proprio territorio, denunciando l'accaduto come legittima difesa.

Quindi, uccidersi, era come recidere il filo che li collegava, come troncare sul nascere quel disgustoso piano che la includeva.

Bröna aveva deciso. Non era mai stata tanto sicura. Avrebbe fatto di tutto per mettergli i bastoni tra le ruote e rendergli se possibile le cose più difficili.

Sospirò. «Non ho paura. Non ho paura. Non ho paura. Non ho paur-» Un mantra. Lento, sussurrato, continuo. Lo ripeteva piano mentre affondava la lama del coltello nella carne e tagliava.

Un taglio lungo e preciso. Dal polso fin alla piega del gomito. Seguendo in parte la vena, in modo da aprirla, distruggerla.

Così era più complicato che gliela sistemassero come per le volte prima. E l'argento avrebbe annullato la rigenerazione rapida dei tessuti.

Strinse i denti. L'aria le uscì in un sibilo. La testa girò dandole l'idea che fosse la stanza stessa a girare. Si abbandonò contro il water e fissò il braccio.

Il sangue uscì con un getto simile a un fiume che rompe gli argini. Lo guardò mentre le si riversava addosso, macchiandole la vestaglia bianca, allargandosi come una pozza sotto il suo corpo.

Rosso come l'amore, la passione.

Rosso come il martirio, la fede.

Rosso come la ferocia, la vendetta.

Rosso come la regalità, la dignità.

Il tempo le sembrò fermarsi e il dolore si diffuse nel corpo, nello spirito e nella mente. Guardò il braccio squarciato e un debole sorriso le spuntò dalle labbra. «Posso fare solo questo» rantolò, la voce ridotta un sospiro.

Era l'unica cosa che la sua debole esistenza poteva fare per loro.

Fu pervasa da un brivido di freddo. Un gelo che entra nelle ossa e si estende fino ad annebbiar le menti.

Cercò di sollevare la testa. Non era finita lì. Doveva farlo anche all'altro braccio, aver la certezza che fosse qualcosa di irreversibile.

Allungò la mano alla ricerca del coltello e la scia di sangue si aprì a ventaglio come se disegnasse. Quando le sue dita lo afferrarono si bruciarono i polpastrelli. Digrignò i denti.

«Poco. Manca poco.» Riuscì a stringerlo nel palmo, le bruciò le carni ma lei resistette all'impulso di lasciarlo.

Quando fece per sollevarlo, il braccio le ricadde in terra.

Debole.

La vista annebbiata. Le poche forze che scivolavano via come il sangue che perdeva.

«Devo - devo finire...» rantolò, stringendo il coltello debolmente. «...finire.»

Il freddo. Le sembrava una coperta gettata addosso. Lo sentiva partire dalla punta delle dita e diramarsi in tutto quel corpo sbagliato.

Sbagliato. Rifiutato.

Crollò a terra, nella pozza del suo stesso sangue. Il coltello sfuggì lontano e il viso le si rigò di lacrime quando si accorse che non riusciva più a muoversi abbastanza per raggiungerlo.

Gli occhi pesanti si chiudevano, piano, sempre più a lungo.

Forse sarebbe bastato così. Forse l'altro braccio non serviva.

La porta si aprì con uno schianto, strappandosi dai cardini e Naomi apparve sulla soglia con il viso stravolto da una smorfia di rabbia e paura.

Dietro di lei, tutte le altre.

L'odore del sangue doveva averle messe in allarme. «Brö! Merda! Merda! Merda!» gridò, irrompendo nel bagno allarmata alla vista di tutto quel sangue.

Il panico. Dilagò peggio di una epidemia.

Grida, urla, pianti.

Dakota afferrò un asciugamano alla velocità della luce. «Arthur! Arthur chiama Quinn! Chiama Quinn» gridò istericamente, gettandosi a terra ai piedi di Bröna. La afferrò di peso, incurante del sangue e con il panno le tamponò il braccio, premendole sullo squarcio per arginare la ferita. «Che diavolo hai fatto, eh? Che diavolo hai fatto?» Sembrava arrabbiata eppure piangeva così forte che i singhiozzi la scuotevano da cima a fondo.

Con le ultime forze Bröna tentò di liberarsi dalla presa, di afferrare il coltello che Naomi fece saltare via con un altro calcio. «Voi non capite. Io devo farlo. Devo!» gridò, la voce che le raschiava la gola, che faticava a uscire.

Dakota la tirò indietro, scivolando nel sangue. Il viso stravolto e pallido di terrore. «Non puoi, Brö. Non così, Brö. Non così.»

L'altra si afflosciò fra le sue braccia, troppo debole per fare resistenza come avrebbe voluto. Gli occhi le si riempirono di lacrime che rotolarono sulle guance creando una scia pulita in quel mare rosso. «Mi dispiace, Daki. Mi dispiace. Mi dispiace.» Piangeva. «Non ho potuto fare altro.»

«Zitta! Zitta! Non dire così, stupida» Dakota affondò il viso nei suoi capelli, piangendo. «Adesso arriva Quinn e cauterizza la ferita col suo potere.»

«Mi dispiace. Mi dispiace. Sono debole, debole, debole... ho potuto fare solo questo... solo questo.» Gli occhi le si chiusero ma li riaprì per guardare Dakota. Con la mano sana le raggiunse il viso carezzandoglielo. «Mi dispiace, Daki. Mi dispiace tantissimo... tantissimo.»

Poi il buio. Un buio che non perdona.

Le grida, i pianti, le voci lontane che la chiamavano, la voce di Arthur e quella di Quinn.

Il vuoto.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top