CAPITOLO 25

Bröna quel giorno si era svegliata di buon umore. Non aveva il solito mal di testa, la solita fiacca, né quel dolore vivo e pulsante che a volte le toglieva le forze.

Stava bene. Si sentiva bene.

Indossando uno dei suoi completini casual, decise di scendere in soggiorno senza la solita vestaglia del pigiama. Era raro per lei, visto la sua cagionevole salute. Arthur e le ragazze erano abituati a vederla con quelle vestaglie che la rendevano molto più cadaverica di quanto già non fosse.

Sbirciò la sua immagine riflessa nello specchio e si fece un sorriso. Non aveva nulla di speciale, nemmeno le forme ai punti giusti. Aveva una seconda scarsa di seno e un sedere invisibile. Forse era uno dei motivi per cui non piaceva ad Arthur. Oltre al fatto che fosse la sorella, ovviamente.

Armeggiando con i capelli si fece una treccia morbida e tutto sommato si vide carina. Merito probabilmente del vestitino a pois. «Potresti esser di meglio... ma ce lo facciamo bastare, eh?» disse alla sé dello specchio, sperando che quella immagine graziosa le infondesse un po' di coraggio.

Scese di sotto già con le scarpe ai piedi, altra cosa singolare per lei visto che come il fratello amava camminare scalza per la Villa.

Non si stupì quando sentì il vociare delle ragazze, sorrise, si rassettò nervosamente la gonna e fece il suo ingresso in sala, dove c'erano tutti.

Suscitò subito un coro d'approvazione e Arthur per poco non incespicò nei propri passi quando alla sua entrata si alzò dal divano per raggiungerla. «Sei stupenda» le disse sincero, strappandole un sorriso timido.

«Grazie... era parecchio che non indossavo abiti normali... e bé, oggi mi sento meglio e... insomma, ho voluto farlo.»

Il sorriso di Arthur fu contagioso. Bröna non riusciva a smettere di regalare qua e là le sue rare espressioni radiose. Quando il suo fisico non faceva i capricci e stava bene, anche il suo umore ne giovava parecchio. «A cosa dobbiamo questa tua apparizione tanto elegante?»

Un altro complimento. Un altro imbarazzante momento in cui le gote di Bröna prendevano fuoco. «Ecco, oggi sto meglio... e volevo fare un salto al centro commerciale.»

Il sorriso di Arthur sfumò in un attimo, lasciando spazio a una preoccupazione viva. «Centro commerciale? Sei sicura? Insomma... potremmo farci arrivare quello che ti serve da internet... o magari potrebbero andarci le ragazze per te.» Era preoccupato. L'ultima volta che Bröna era andata in un posto affollato le era preso un attacco di panico talmente forte da aver crisi respiratorie. Quinn aveva dovuto usare la materializzazione per raggiungerli in fretta.

Lei scosse il capo e sorrise. «Ti ringrazio, Arthur. So che ti preoccupi per me... ma sento la necessità di uscire un po'.» Non voleva dirgli che si sentiva quella casa troppo stretta, che l'arrivo di Vell l'aveva destabilizzata ancor di più e che, dopo quello che era successo alla cena di gala, sentiva il forte desiderio di darle una padellata in faccia. Non voleva dirgli nulla di tutto questo, così sorrise. «Ho voglia di fare shopping» aggiunse.

Lui annuì, turbato. «E va bene. Ma voglio che ti porti David, altrimenti non sentirò ragioni.»

Bröna roteò gli occhi al cielo, sbuffando. «Come vuoi tu, paparino» lo prese in giro, strappandogli una smorfia disgustata e divertita al contempo.

Per dispetto lui le scompigliò i capelli, prendendosi in tutta risposta un calcio negli stinchi che suscitò le risate di tutte le altre. «Allora prima che te ne vai, andiamo a far colazione, okay?»

«Devo? Non ho molta fame.»

«Devi, sì... se vuoi che ti lasci andare al centro commerciale. Non voglio che ti venga un improvviso calo di zuccheri mentre sei nei camerini» la rimproverò, passandole un braccio sulle spalle e tirandola verso la cucina. «Potreste... ecco, insomma... chiedere a Vell se... se vuole unirsi a noi?» domandò girandosi verso Dakota e rivolgendole uno sguardo supplichevole.

Erano due giorni che Vell si era chiusa in camera e non voleva saperne di niente. Nemmeno del cibo.

Sembrava che dopo quella disastrosa cena di gala avesse deciso di troncare i rapporti con tutti con un bel taglio netto.

Arthur iniziava a sentirsi sempre più impotente di fronte a quella chiusura ermetica che stava mettendo; trincerata in camera e lontana da tutti, perfino dalle ragazze. Non aveva più voluto veder nessuno. Non apriva più nemmeno la porta.

«Bé, se non vuole uscire... potremmo lasciarla morire lì dentro» propose Bröna, riportandolo alla realtà.

Arthur le pizzicò una guancia. «Bröna...» disse con rimprovero, fissandola come si può fissare un bambino dopo una marachella.

Lei fece spallucce. «È una bella camera... morirebbe nel lusso.»

Arthur trattenne una risata. «Bröna non voglio che dici queste cose... nemmeno per scherzo.»

Gli occhi della giovane leonessa si legarono a quelli del fratello, inclinò leggermente la testa e lo fissò confusa. «Ah, perché... scherzavo?»

Lui le tappò la bocca. «Zitta, bisbetica. Tu non sei così stronza.»

«Sarà» disse, poco convinta. Bröna avrebbe voluto dargli ragione, avrebbe voluto essere migliore di quello che era, al pari di come lui la vedeva; eppure in cuor suo sapeva che in quelle parole c'era un pizzico di verità.

Vell era un cumulo di macerie e problemi. Così rotta che lei stessa, rotta a sua volta, lo vedeva chiaramente. Sin da subito aveva immaginato che avrebbe dato a tutti del filo da torcere. E non si era sbagliata, no. Quello che era successo alla cena di gala, e dopo, non aveva fatto altro che confermare i suoi pensieri.

Vell era pericolosa. Pericolosa per la quiete della Villa intera. E anche se non voleva vederla morta, era dell'idea che fosse meglio allontanarla. Il prima possibile.

Peccato che fosse l'unica a pensarlo.

«Vado a chiamarla io» si offrì Dakota, come sempre intermediaria. Il suo ruolo nell'harem era forse quello più importante.

«Ti ringrazio, Daki» Arthur si allungò stampandole un bacio sulle labbra che si prolungò abbastanza per trasformarsi in qualcosa di più intenso.

«Ehi, ehi... lo sai come funziona qui: dai a una, dai a tutte» berciò Naomi, afferrandolo per la cravatta e attirandolo in un bacio intenso con tanto di lingua.

Dakota sghignazzò abbandonandoli in cucina mentre tra bisticci e risa si contendevano i baci di Arthur come caramelle. Lei intanto salì le scale raggiungendo la zona notte, dove in fila c'erano tutte le stanze da letto delle ragazze.

Quando fu di fronte a quella di Vell si strofinò le mani sui jeans, tesa. Non sapeva come iniziare il discorso. Sapeva solo che un discorso lo meritava. Insomma, erano successe cose di cui era necessario parlare.

Prese un respiro profondo e bussò. «Vell?» Niente. «Vell, sono io... Dakota.» Niente.

La leonessa attese ancora qualche istante poi bussò ancora. «Vell, sono preoccupata per te. Ti prego. Lasciami entrare.» Niente.

Dakota fece un respiro profondo cercando di mantenere la calma. Era una fortuna fosse andata lei. Naomi avrebbe già fatto saltare la porta in un attimo, entrando come una furia. Però, per quanto fosse la più equilibrata dell'harem, quella situazione stava iniziando a innervosire anche lei. Bussò ancora. «Aprimi, Vell! Parliamo come due persone adulte.» Niente. Dalle labbra le sfuggì un'imprecazione. Raro da parte sua.

Decise di adottare un metodo più duro visto che in quei giorni la gentilezza non aveva fatto breccia. Bussò ancora una volta, sarebbe stata l'ultima. «Vell, aprimi. Subito. Se non lo farai, stai pur certa che butterò giù la porta a calci e ti trascinerò fuori da lì per i capelli.»

Nel silenzio si sentì un piccolo trambusto poi la porta cigolò e un piccolo spiraglio le fece capire che aveva aperto. Dakota tirò un sospiro di sollievo e posando la mano sulla maniglia aprì la porta varcando la soglia.

La stanza era buia, così tanto che a malapena si riconoscevano i contorni del mobilio. Ci misero un po' gli occhi della leonessa per adattarsi a quel buio.

Riconobbe a figura di Vell sul letto, raggomitolata al centro. Si abbracciava le gambe, tirate al petto e non si muoveva.

La prima cosa che fece Dakota fu attraversare la stanza, aprendo serrande e tende di botto e lasciando entrare la luce mattutina. «Stare chiusa qui dentro non ti aiuterà.»

Vell sollevò gli occhi dalle ginocchia, li aveva arrossati e cerchiati di viola. Doveva aver pianto tanto e dormito poco in quei due giorni. «Ah,  no?» chiese, con arroganza.

Dakota sospirò rumorosamente, lisciando tra le dita la tenda e fissando fuori la pioggia. «Ho pensato molto a cosa dirti dopo quella sera.» L'altra rimase in silenzio e scivolò sul bordo del letto, poggiando i piedi in terra come se fosse sul punto di scappare. Teneva la testa china e serrava le mani sul materasso. Dakota avrebbe tanto voluto farsi un giro nella sua mente in quel momento, per capire cosa stesse pensando. «Sai, quando vedi l'uomo che ami rientrare a casa con quello sguardo, quel dolore negli occhi ancora bagnati di pianto e quel turbamento... è difficile non incazzarsi. Molto difficile. Soprattutto dopo aver saputo cos'era successo.»

Vell strinse la presa sul materasso, lo stomaco aggrovigliato come una serpe. «Lui mi... mi odia?»

«Ti sembrerà strano ma no. Arthur è un buono di cuore... un cuore d'oro. È uno che difficilmente porta rancore, soprattutto verso persone che nella vita hanno sofferto tanto... come te.» Dakota strinse la tenda tra le dita, trattenendo il mare di emozioni che a fatica riusciva a domare. «Ciò non toglie che meriti delle scuse... sentite. Profonde. Vere.»

Su questo Vell non aveva nulla da obiettare. Quella notte, a mente lucida, si era resa conto che le sue pretese avevano superato lo stesso limite che ogni volta Marius superava con lei. Aveva obbligato qualcuno che non voleva a qualcosa di cui lei invece aveva bisogno.

Si era fatta schifo. Si era sentita uno schifo.

Era stato un gesto egoistico, fatto d'impulso e irrazionalmente, nato dallo shock e da un bisogno cieco. Cieco perfino di fronte al rifiuto di Arthur.

Quella sera, in quella limousine, lei era diventata Marius. Lei si era trasformata da vittima a carnefice. E questo... questo l'aveva fatta impazzire.

Avrebbe capito se dopo quella cosa, l'avessero sbattuta fuori. Lo meritava, dopotutto.

Dakota lasciò la tenda e cominciò a camminare per la stanza, frizionandosi le braccia. «Inizialmente ero arrabbiata, furiosa. Non potevo credere che tu... tu che per prima eri stata vittima di soprusi avessi agito così barbaramente privando Arthur di una scelta. Obbligandolo a qualcosa a cui non era pronto.» Si strizzò le mani, tormentandole. «In questa casa non funziona così. Non prendiamo nulla di più di ciò che ci viene dato. Non obblighiamo. Non imponiamo.» Le veniva da piangere. Nella testa continuava a vedere la faccia di Arthur di quella sera. Si era sentita impotente e squarciata di dolore.

Vell non disse niente, si limitò a fissarla di sottecchi mentre si muoveva a zig zag per la stanza.

«È stato un bene che ti sei chiusa qui... mi ha dato modo di riflettere su come affrontarti.» Dakota si ravviò i lunghi capelli che ondeggiarono come un mare in burrasca.

Aveva dormito poco anche lei in quegli ultimi giorni. E le poche ore di sonno si erano rivelati incubi.

«Mi – mi manderete via?»

L'altra la fissò sorpresa. «No. Non siamo mica bestie. Farlo sarebbe come condannarti a morte certa.»

Il peso sul petto di Vell sembrò alleggerirsi di poco. Le sembrò tutto meno spaventoso e al contempo, la consapevolezza di star sfruttando gente così buona la fece sentire, se possibile, ancora peggio. «E allora...» chiese, senza il coraggio di dire tutta la domanda.

«Allora son arrivata alla conclusione che a te servano due cose in questo momento.» Dakota le si fermò proprio di fronte, fissandola con il suo sguardo severo e materno, rigido e gentile; un miscuglio di contrasti che nei suoi occhi sembravano trovare un equilibrio.

«Che – che cosa?» farfugliò Vell, sollevando gli occhi fino a incontrare quelli dell'altra leonessa.

«Questo,» la mano di Dakota scattò rapidamente, infrangendosi con forza sul viso di Vell; talmente tanto violentemente che l'altra cadde in terra, atterrita dal colpo. «che ti ricordi costantemente che l'amore non si prende con la forza o la violenza, che ciò che ha fatto male a te può far male ad altri e che nessuno di noi è un oggetto e va rispettato in quanto persona, in quanto essere umano.»

Vell restò china in terra, le mani a sorteggerle il busto, i capelli che le chiudevano a tenda il viso. Le bruciava la faccia, proprio lì dove aveva appena preso lo schiaffo. Ma forse, le bruciava più il cuore dove quelle parole avevano colpito e affondato.

Dakota si piegò sulle gambe, raggiungendo la sua altezza. Le scostò gentilmente i capelli dal viso, sistemandoglieli dietro l'orecchio. «Erano due le cose che ti servivano» disse. E Vell strinse gli occhi, pronta a ricevere un altro schiaffo. «E questa è l'altra.» Allungandosi un poco, le dita di Dakota raggiunsero il viso di Vell. L'attirò a sé dolcemente e quando le sue labbra si congiunsero con quelle dell'altra, Vell sgranò gli occhi sorpresa.

Non si ritirò da quel bacio così dolce e inatteso. Lo accolse con ogni fibra di sé, ritrovandosi a stringere le braccia di Dakota come a non volerla più lasciare andare.

Le due bocche si plasmarono l'una sull'altra, si presero tempo per conoscersi, si esplorarono.

Quando Vell schiuse le labbra e sentì la lingua di Dakota sua propria, fu pervasa da un brivido intenso, di piacere. Il corpo le sembrò diventare lava, sciolto e bollente, caldo e malleabile; disintegrato in minuscoli pezzi, spezzato.

Ansimò contro la sua bocca, prese quelle labbra più che poté. Lasciò che le loro lingue si toccassero fino a dar vita a una danza, a una lenta e piacevole carezza intima. Fuse insieme fino a creare un sapore tutto loro, una melodia tutta loro.

Quando si staccarono per riprendere fiato, Vell era rossa in viso e sentiva le farfalle nello stomaco. Uno stormo di farfalle.

Fu un bacio inatteso, vivo, dolce come miele e carico di sentimenti che Vell non aveva mai provato; qualcosa di totalmente differente da ciò che le aveva sempre dato Marius.

Era questo l'amore? Era così delicato e dolce? Sapeva di miele e carezze?

«E questo...» Ansimò Dakota, sollevando gli occhi per guardarla in faccia. «Questo era per ricordarti che qui puoi trovare l'amore che ti serve... e anche di più. Basterà solo che tu apra il tuo cuore... perché il nostro te lo abbiamo già aperto.»

Vell tremò un attimo, mordendosi il labbro con tormento e poi scoppiò a piangere, aggrappandosi alla leonessa e affondando il viso sulle sue gambe. La tenne stretta e pianse. Pianse così forte che non sentì più nemmeno il rumore del suo cuore, nemmeno il rumore sordo dei suoi incubi, dei suoi demoni interiori.

«Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace» continuava a farfugliare tra le lacrime, con il viso premuto su di lei.

Dakota le carezzò i capelli e sorrise. «Lo so» disse piano. «Lo sappiamo.»

Forse qualcosa era cambiato.

Forse si era fatto un passo avanti.

Forse erano appena riuscite a uccidere qualche mostro annidato nel suo cuore.

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