CAPITOLO 24
Arthur afferrò da uno dei tanti camerieri che passavano tra i tavoli un flute con dello champagne tracannandolo quasi tutto d'un fiato.
«Sembra che tu abbia problemi con la nuova arrivata» esordì Penelope, strappandogli di mano il bicchiere e posandolo sul primo tavolo a tiro. Lui le rivolse un sorriso di scuse. «Ma bere non ti aiuterà a risolverli.»
«Sinceramente a me pare che i problemi li abbia lei» se ne uscì Maia, schioccando la lingua sul palato e guardando verso il punto in cui era sparita Vell da ormai diversi minuti. «Mi è sembrata una reazione decisamente esagerata per qualche minuto di chiacchiere insieme a noi, insomma... nemmeno ti stessimo scopando in pubblico.»
Arthur si lasciò sfuggire una risata secca e scosse il capo. «Non credo che sia quello il problema. Anzi, penso non gliene potrebbe fregare di meno. Purtroppo è tutto molto più complicato.»
Le tre si scambiarono uno sguardo e la prima a spezzare quel silenzio fu Thalis: «Raccontaci, Simba. Abbiamo abbastanza tempo per annoiarci con le tue storie.» Affondò le mani nei capelli, pettinandoseli con cura. Era un piccolo vizio che aveva sin da bambina, soprattutto dopo che lui e Duba glieli avevano tagliati corti come un maschio. A ripensarci, Arthur si sentì un vero infame. Da piccolo si era comportato da vero bullo.
A quella proposta così genuina però non riuscì a resistere. In realtà aveva bisogno di parlarne con qualcuno e nessuno poteva capirlo meglio di loro, così vicine al suo mondo atipico nel mare dell'atipicità dei sovrannaturali.
Non ci mise molto così a snocciolare loro tutta la storia, anche se una volta finito il racconto si sentì stremato, peggio di una lunga sessione di boxe. L'arrivo di Vell, intrecciato alle loro vite, aveva dato vita a delle situazioni scomode, spiacevoli e al contempo bizzarre. C'erano stati momenti duri, altri più dolci ma per lo più si era accorto che il senso di impotenza che aveva nei confronti di quella femmina gli stava corrodendo l'anima. Non riuscire ad aiutarla come avrebbe voluto era un tarlo fisso che continuava a grattare nel fondo dei suoi pensieri.
E quando credeva di aver fatto qualche passo avanti, succedeva come quella sera, che subito si ritrovava a farne ben il doppio indietro.
«Arty, lasciatelo dire... è una situazione del cazzo.» Maia era da sempre la più franca tra le tre. Niente peli sulla lingua e la delicatezza di uno scaricatore di porto, in compenso, se ti prendeva in simpatia potevi pur stare certo che si sarebbe fatta in quattro per aiutarti in caso di bisogno.
«Ecco, io... non so... mi dà l'idea di una tipa che non si amalgamerebbe bene con le altre tue ragazze» borbottò Thalis, guardandolo dispiaciuta.
«Ma no, no... in realtà va molto più d'accordo con loro che con me.»
Trascinando una sedia lontano da un tavolo, Maia si accomodò e prese a massaggiarsi un piede nudo. Si era sfilata le décolleté imprecando sotto voce e si era ripromessa che quella sarebbe stata l'ultima volta in cui avrebbe messo simili trappole ai piedi. «Sarà. Ma la sua reazione di prima in realtà mi fa credere che sia una tipa poco elastica. Non ce la vedo proprio in un harem.»
Arthur sospirò. Era esausto. Pian piano si erano accumulati un quantitativo di problemi che sembravano non dargli respiro, si sentiva schiacciato al suolo. Il ruolo di Magister era soffocante, i problemi che ne derivavano a volte erano davvero difficili da gestire; inoltre aveva l'obbligo di essere un buon Erus degno del titolo di King, senza contare i problemi legati a Bröna che erano l'eterno sottofondo dei suoi pensieri.
Stancamente si stropicciò gli occhi, domandandosi se fosse il caso di tornare a casa prima. Forse Vell gli avrebbe rimproverato anche quello. «Credo che il suo passato l'abbia segnata più profondamente di quanto sembri.» Scosse il capo. «È così ovvio, in fondo... ha passato l'inferno.»
Penelope gli posò una mano sul braccio, con gentilezza. Il tempo dei dispetti era finito e ora erano seriamente preoccupate per l'amico.
Erano passati pochi mesi dalla loro ultima rimpatriata ma nel suo sguardo c'era una luce diversa, più spenta, più vuota e spaventosa. Le tre mannare temevano che tutti gli oneri di cui era stato caricato presto avrebbero finito per disintegrarlo. E nessuna aveva intenzione di raccogliere i pezzi di Arthur King e tentare un collage. «Okay, Arty... e tu stai cercando di aiutarla più che puoi, no? E questo ti fa onore. Però non dimenticare che non esiste solo lei. Non puoi stravolgere la tua vita, le tue abitudini e quelle delle ragazze solo per stare dietro a lei.»
«Ma lei ha bisogno di me ora.»
«Sì, vero. E tu sei lì per lei, no? Ma anche le altre ragazze hanno bisogno di te. Non arrivare al punto di farle soffrire tutte quante solo per Vell.»
Le parole di Penelope erano gentili, il tono pacato e carezzevole; eppure graffiavano il cuore di Arthur, lo prendevano a morsi e calci. Si sentiva in difetto verso un mucchio di persone. Certe volte pensava di non essere all'altezza del ruolo di King e Magister. Avere un harem era già complicato senza tutto il resto.
Ci mancava solo una leonessa in più che si portava dietro il suo carico di problemi.
Chiuse gli occhi e si massaggiò la base del collo prendendo una sedia e mettendosi comodo. «Vorrei solo più... più respiro. Mi sento il fiato di tutti sul collo, come se tutti si aspettassero qualcosa da me; qualcosa che non so e che non sanno nemmeno loro. Una sorta di terno al lotto.»
Thalis si pizzicò la gonna e si mise a sedere accanto a Maia che ancora era intenta a massaggiarsi i piedi. «Avere un harem non è la gran pacchia che tutti immaginano. Gli altri mannari credono che basti scoparsi indistintamente tutti, o insieme o a rotazione, e così son felici e contenti. In realtà nemmeno sanno la fatica e il sudore, o i pianti, che ci sono dietro gli harem; la complessità di tener il gruppo coeso e unito, senza rivalità, senza complessi d'inferiorità o superiorità.» Allungando le mani afferrò le gambe di Maia e se le posizionò in grembo, iniziando a massaggiarle i polpacci. «Fare sesso è la meno. Se vogliamo è quasi il compito più facile. Ma è renderli tutti felici la cosa più complicata... potremmo quasi paragonarlo a un lavoro.»
«Già» dissero gli altri tre, all'unisono, sospirando.
Gli harem erano difficili. Arthur se n'era reso conto quando aveva iniziato ad avere le prime leonesse.
Certo, gli si era aperto un mondo di piaceri sessuali e mentali che nemmeno riusciva a descrivere ma al contempo si era dovuto far carico di molte responsabilità che gli avevano fatto perdere in parte la spensieratezza con cui viveva i rapporti con il gentil sesso. Prendersi cura di qualcuno era bellissimo e spaventoso.
Sospirando, Arthur afferrò l'ennesimo flute dal vassoio di uno dei tanti camerieri di passaggio. Voleva davvero affogare i dispiaceri nell'alcol? Sì e no. Sapeva che una volta passata la sbronza sarebbe tornato tutto come prima. Però era una alternativa allettante per non pensare a nulla almeno quella sera.
Stava per scolarsi l'intero bicchiere sotto uno sguardo di dissenso delle amiche quando un grido ruppe l'atmosfera gioiosa della serata. Esplose nell'aria con una potenza tale da lasciarlo tramortito sul posto, troppo scosso per realizzare che cosa stava succedendo.
Ci volle solo un attimo per capire a chi apparteneva quella voce. E ci volle solo un altro attimo per sentire il suo nome tuonare per tutta la villa come la più straziante delle preghiere, la più sentita delle suppliche.
Prima che se ne accorgesse il flute gli era sfuggito di mano, infrangendosi in terra senza che riuscisse ad evitarlo, andando in mille pezzi un po' come il suo cuore che non accennava a placarsi. Lo sentiva frammentato in una miriade di scaglie e ognuna di esse batteva con una frenesia dolorosa.
Si alzò da tavola ancor prima che il cervello lo pensasse, mosso da un istinto primitivo e bestiale che lo costrinse ad agire con impazienza.
Lanciò una fugace occhiata alle amiche accorgendosi che a loro volta erano scattate in piedi. Non disse loro nulla, si precipitò dritto verso il punto da cui provenivano le grida. E loro gli andarono dietro, smollando i tacchi in terra e tenendo alzate le gonne per correre meglio.
Quando fu in prossimità del bagno si accorse che lì attorno si era creata una piccola calca di curiosi. Una vecchia stava animatamente discutendo con alcuni uomini che subito presero a colpire la porta a spallate.
Fiutava terrore e rabbia tra i presenti. Fiutava l'odore di Vell e la sua paura.
«Buttate giù quella porta! Buttatela subito giù» gridò un uomo, mentre altri ci si scagliavano contro, rimbalzando come palline.
Allarmato da quel trambusto e da quei gesti, Arthur si fece largo con scortesia, sgomitando qua e là. Erano per lo più umani e avrebbe potuto causar loro gravi danni se avesse calcato troppo la mano.
Doveva cercare di restare lucido. Perdere il proprio autocontrollo nel pieno di una folla era un timore che affliggeva tutti i mannari.
«Fatemi passare. Fatemi passare» urlò, innervosito dall'insistenza con cui gli ostruivano il passaggio. Era scioccante come la gente si beasse dei problemi altrui, sconcertante come anche la sofferenza creasse spettatori. Anche in una situazione come quella c'era sempre chi si metteva in prima linea solo per godere di un nuovo spettacolo. «Largo, stronzi! C'é la mia ragazza lì dentro!» Non appena lo disse arrossì. Però non poteva far altrimenti, non poteva fermarsi a dare spiegazioni più dettagliate; anche perché il loro rapporto sarebbe stato troppo complicato da far capire a semplici umani.
Non appena raggiunse la porta gli altri ricconi si tagliarono a metà lasciandolo passare. Aveva uno sguardo stralunato e anche senza vedersi allo specchio sapeva che gli occhi rimbalzavano dal suo tipico verde smeraldo al giallo della bestia. Sperò che in tutto quel tumulto non lo notassero.
«Mrs.Vogher dice di aver visto una ragazza dentro... con due uomini che - che la stavano molestando» farfugliò un ragazzino, così agitato da mangiarsi metà delle parole. Il viso era imperlato si sudore e gli occhi erano arrossati di pianto.
Gli umani erano deboli. Non erano abbituati alla brutalità del mondo sovrannaturale. Anche se, negli ultimi tempi, stavano diventando un po' più bestie anche loro.
Il rumore di una vetrata che va in frantumi fece trasalire Arthur. Il timore che chiunque fosse lì con Vell fosse deciso a portarla via fu la goccia che fece traboccare il vaso. Dalla gola gli uscì un ruggito basso e vibrato e gli bastò un unico calcio per far saltare la porta scardinandola dalle cerniere.
La lastra di legno schizzò in aria per poi ricadere al centro della stanza con un tonfo e lui entrò nel bagno come una furia, pronto a distruggere la propria immagine di riccone composto e perfetto pur di salvare Vell. Però, quando la vide completamente nuda in terra coperta di lividi, percosse e tagli tutta la rabbia gli defluì di colpo dal corpo e le gambe gli cedetterò per la paura.
«Oddio, Vell. Oddio...» Sfilandosi la giacca con uno strattone cercò di coprirla alla bell'e meglio, tastandola per assicurarsi che non ci fosse nulla di rotto. «È tutto a posto adesso. Ci sono qui io. Tranquilla! Ci sono qui io.»
«Loro... loro hanno tentato... hanno tentato ma - ma non ci sono riusciti» farfugliò artigliandolo per le braccia mentre lui se la stringeva forte al petto. «Sono scappati non appena si è radunata gente.»
La rabbia era tornata a ribollire in superficie. Arthur sentiva la bestia scivolare sotto pelle come un lento brulicare di vermi, gli pizzicava la carne e gli annebbiava la mente. La vendetta bruciava sul palato peggio di un fuoco. La bestia voleva la sua fetta di serata.
Alle sue spalle sentì l'ondata bollente di tre poteri, nell'aria si levò un fischio stridulo, tagliente come un ultrasuono, che gli attraversò il cervello come una lama facendogli rizzare tutti i peli del corpo. Per un attimo si sentì talmente stordito da doversi trattenere il capo con una mano, strizzando gli occhi quasi tentasse di attutire il dolore di quel fischio.
Penelope e le altre corsero verso la finestra rotta. Gli occhi gialli e il potere mannaro a stento trattenuto sotto quegli abiti composti. «Arty, tu prenditi cura di lei.» Con un brusco strappo tutte e tre si tolsero la parte inferiore degli abiti, restando con indosso con qualcosa di molto simile a un costume. «Alle loro teste... ci pensiamo noi» sibilarono all'unisono, e nel buio, Arthur vide i loro occhi scintillare peggio delle bocche dell'inferno.
Le guardò per un attimo mentre schizzavano fuori dalla finestra, svanendo nel buio della notte.
Avrebbe voluto seguirle e affiancarle nella caccia. Avrebbe voluto trasformarsi e lasciare alla bestia chiusa in sé il piacere di lacerare le carni di quei bastardi. Però le dita strette attorno alle sue braccia e il corpo tremante di Vell lo bloccarono sul posto.
«Chiamiamo la polizia» gridò qualcuno.
«Ma la sicurezza che fine ha fatto?» si lamentò qualcun altro.
Arthur si alzò da terra sostenendo Vell tra le braccia. Lei sembrava non volerlo mollare nemmeno per un secondo. I fremiti del suo corpo rimbalzavano su quello del leone fondendosi ai suoi. Entrambi erano scossi e per motivi differenti ma decisamente affini.
«Dovremo sporgere denuncia» le disse lui, cercando di farlo sembrare una semplice e pratica formalità, qualcosa di noioso che le avrebbe rubato non più di una decina di minuti. «Ci sono troppi umani per chiudere la questione solo alla nostra maniera» aggiunse piano, con le labbra premute al suo orecchio.
Vell rabbrividì. Quel contatto la scaldò un po' dal gelo che le era piombato addosso. «Po - portami a casa. Ti prego. Portami a casa.» La voce le uscì fragile e bassa. Così bassa che Arthur per un attimo pensò di averla immaginata.
Passandole un braccio sotto le gambe la sollevò in braccio e senza proferire parola si fece largo tra la folla.
Un uomo che non aveva mai visto gli si affiancò tutto trafelato. «Mr.King abbiamo chiamato la polizia. Deve portarla in ospedale... deve farla visitare e poi dovrà essere sentita per la denuncia.»
Arthur si voltò a guardarlo. Aveva un'espressione vuota e di ghiaccio, incapace da leggere. L'uomo si bloccò sul posto, inchiodato da un brivido. Quando il King parlò fu sbrigativo e inflessibile: «È spaventata, sotto shock ed esausta... adesso la porto a casa. Riparleremo di tutto domani mattina, con più calma.» Era tutto ciò che poteva fare per lei, ritardare di poco tutte le incombenze che implicavano il mondo umano.
L'uomo annuì con frenesia e li guardò mentre si allontanavano stretti in un abbraccio quasi doloroso.
Quando Arthur fu fuori dalla Villa, fu felice di vedere David già pronto per riportarli a casa. Sul volto dell'uomo c'era un'ombra di tristezza e dispiacere. Era sempre stato molto empatico, soprattutto con le ragazze. Gli veniva facile condividere il dolore degli altri e farlo proprio.
Arthur non proferì parola. Issò Vell in auto badando bene a tenerla coperta con la giacca e si mise al suo fianco volgendo lo sguardo oltre il finestrino. Serrava così forte i pugni che le nocche erano sbiancate.
Divisi da David da un vetro nero, erano chiusi in un bozzolo d'intimità che nessuno questa volta avrebbe rotto.
«Io volevo... ecco... grazie» farfugliò lei, sbirciando nella sua espressione in cerca di qualche segno particolare. Stringendosi della giacca affondò il viso nel tessuto e ne annusò una ricca boccata. Le sembrò di immergersi nel suo profumo, di affondare in lui. Qualcosa nella sua mente prese forma, vacillò.
«Mi dispiace» fu tutto ciò che le disse Arthur, lasciando stridere i denti da tanto che aveva serrato la mandibola. «Mi dispiace davvero tanto. È tutta colpa mia. Avrei dovuto seguirti, essere più previdente.»
Era così arrabbiato, così stravolto; in bocca sentiva il sapore ferroso del sangue. Si era morso la lingua per placare quel furore che continuava ad animarsi in lui.
Continuava a incolpare se stesso, la propria superficialità, la propria inettitudine, la propria negligenza.
Vell scalò di un posto, scivolandogli vicino. Sentiva freddo, il corpo era ancora scosso dai tremiti. Sotto quella giacca era nuda, spoglia di tutte le barriere e maschere; eppure era come se fosse rivestita di sporco e lerciume, macchiata di una vergogna che non sapeva come lavare.
Da troppo tempo il suo corpo veniva preso a piacere, macchiato per gioco, sporcato e inzozzato dalle peggiori mani. Violato e svuotato di ogni umanità. Reso carne vuota, privato della scelta.
Con quei pensieri a imbastirle la mente afferò con agitazione una mano di Arthur, portandosela sul seno nudo, strizzandogliela in modo che lo stringesse tra le sue calde dita. Questo gesto le incendiò il sangue nelle vene. Si sentì calda come mai era stata prima d'ora. Viva.
Arthur si voltò di scatto con occhi sgranati. Così sorpreso e confuso che non trovò nemmeno la forza per ritirare la mano.
«Toccami» gli disse lei, disperata. Gli spostò la mano sul ventre facendola scivolare tra le cosce.
Arthur cercò di ritirarla ma lei gliela tenne ferma lì, contro il proprio sesso. «Toccami, Arthur. Toccami.»
Voleva essere toccata dove l'avevano toccata loro. Pulita dai loro gesti sudici. Presa abbastanza forte da dimenticare quella notte, quella vita e Marius.
Se non poteva scappare dal suo passato, allora voleva essere scopata così forte da dimenticarlo almeno per un po'. Avrebbe fatto di tutto per dimenticarlo almeno per un po'.
Forse era un gesto egoistico pretendere addirittura del sesso, un capriccio che non avrebbe dovuto essere scelto solo unilateralmente; eppure quella notte aveva bisogno di quelle attenzioni. «Ho bisogno di te, Arthur.» Gli premette le dita tra le cosce, sentendolo fare resistenza, trattenendolo mentre cercava di sottrarsi. Lasciò che i suoi polpastrelli s'infilassero in lei, sfiorandola intimamente.
Dalla bocca le sfuggì un gemito di piacere che sbocciò dalla sua gola come un miagolio. Il corpo le parve andare in frantumi. Era questo che si provava a essere toccata da chi desideravi?
Lui strabuzzò gli occhi cercando di calmare il respiro affannato. Si umettò le labbra aride e tentò ancora di togliere la mano. «Aspe... i - io... Vell...» Si sentiva combattuto, privato di qualcosa. Come se gli stessero strappando dalle mani la possibilità di una scelta.
«Toccami. Prendimi. Scopami anche qui, in questa fottuta macchina» Spingendosi in avanti gli afferrò la patta dei pantaloni del completo, iniziando ad armeggiare freneticamente con il bottone e la zip. Le mani gli stringevano con forza l'erezione da sopra la stoffa che incontrollata continuava a crescere senza che lui riuscisse a farci nulla.
«A - Aspetta, Vell.» Arthur cercò di bloccarle le mani, l'aria gli uscì in un sibilo quando lei riuscì ad abbassare la zip sfiorandolo da sopra i boxer. Una scossa lo pervase da cima a fondo facendolo indietreggiare a tal punto che con la nuca colpì il finestrino. «A - aspetta, Vell... ti prego. Aspetta.» Ma lei non sentiva ragioni. Era chiusa nelle sue necessità. Chiusa nei suoi bisogni. Troppo focalizzata a placare il disgusto per se stessa per rendersi conto di ciò che prendeva senza permesso da altri.
Abbassando di scatto i boxer gli liberò l'erezione. La mano si serrò attorno a essa senza alcun permesso, strappando ad Arthur un gemito di piacere misto a dolore. Il leone strinse i denti incassando le spalle.
Non era pronto. Era così scosso che il sesso era l'ultimo dei suoi pensieri. E poi non era nemmeno sicuro che fosse la strada migliore.
«Sei il mio King, no? Sono del tuo harem, no? E allora scopami, Arthur. Levami di dosso questa merda che mi fa sentire così sporca» gridò lei, aprendogli di scatto la camicia con uno strappo. I bottoni saltarono in tutto l'abitacolo. Con la mano libera gli passò sul petto le dita, graffiandolo con le unghie; gli strizzò i capezzoli proprio come quei luridi avevano fatto a lei poco prima.
Quel ricordo le annebbiò ancor più la mente. La rese cieca di fronte a ciò che stava facendo.
Non voglio. Non voglio pensarci.
Devo pulirmi da loro. Devo pulirmi dalle loro mani.
Il cervello continuava a bombardarla di questi pensieri, privandola del raziocinio, rendendola poco più di una bestia che segue i suoi istinti.
Arthur l'afferrò per le spalle cercando di spostarla. Non sapeva come comportarsi perché in quell'attimo cruciale ogni sua scelta avrebbe determinato il loro successivo rapporto.
Se l'avesse presa come lei voleva, le avrebbe dato un piacere e un sollievo momentaneo ma avrebbe approfittato di una situazione di poca lucidità che in futuro avrebbero entrambi potuto rimpiangere.
Se l'avesse rifiutata lei avrebbe potuto credere di non esser ben accetta, di essere ripudiata per disgusto di ciò che era appena accaduto o addirittura per via di tutto il suo passato.
Vell riuscì a liberarsi dalla stretta di Arthur e riprese da ciò che aveva lasciato. Stringendo più saldamente la mano attorno all'erezione iniziò a muoverla su e giù pregustando già il momento in cui lo avrebbe avuto dentro di sé.
Arthur sobbalzò sul posto, il dolore per la frizione gli fece allungare i denti di scatto e un ruggito divorò quel silenzio fatto solo di ansimi e gemiti. Non c'era piacere. Faceva solo male.
Accorgendosi che aveva smesso di reagire, quasi gli avesse dato il permesso di fare con il suo corpo ciò che voleva o comunque si fosse arreso a quel abuso; Vell sentì montare dentro di sé una rabbia di cui non comprese la fonte.
Perché doveva andare così? Perché non la voleva? Perché non la trattava come le altre?
Non capiva cosa le mancasse per poter trovare il suo posto al suo fianco. «Cosa succede, eh? Non sono abbastanza per te? Sono troppo sporca per entrare nel tuo letto?» Quella confusione si era tramutata in rabbia che stava riversando su lui come un fiume in piena.
Gli occhi di Arthur si velarono di lacrime. Sentiva il cuore squarciato da un dispiacere profondo, sia per se stesso che per Vell. Quelle sue ultime parole gli avevano fatto comprendere quando disprezzo provasse per se stessa, quanto la vita l'avesse segnata crudelmente.
C'era molto dolore in quel cuore, in quel corpo fragile.
La mano di Vell continuava a muoversi senza sosta, cercando di dargli e prendergli un piacere innaturale.
E lui si sentiva spaccato a metà su cosa fare. Diviso in due su come poteva o non poteva aiutarla. «Non essere sciocca... non - non dir-» la voce gli si spezzò in gola quando sentì la bocca di lei posarsi proprio lì. Innarcò la schiena aggrappandosi al sedile e si rese conto che anche se solitamente quella era una pratica che amava, in quel momento il suo corpo rifiutava quel piacere. Era come se ne volesse fuggire, scappare lontano.
«Fe - ferma, Vell. Ferma, ti prego! Fa male...» rantolò, scosso da un fremito. Mentre l'unico rumore dentro l'abitacolo era il costante risucchio del suo membro.
«È tuo compito dar piacere e rendere felici le tue leonesse. Colmare le loro debolezze e aiutarle a superare i loro traumi» le parole di Vell sembravano uscite da uno di quegli opuscoli che facevano studiare alle leonesse bambine, quando imparavano meglio cos'era la figura del King e dell'Erus. «Que - questa è una cosa che mi spetta, no? Mi spetta.»
Farneticava così fittamente che Arthur fu certo che nemmeno ricordasse di avere lui lì, in carne e ossa. Come se fosse un oggetto, un mezzo, una bambola gonfiabile che doveva solo stare zitta e lasciarsi fottere.
Quella consapevolezza gli straziò il cuore ma fu necessaria per fargli prendere una decisione.
Chiuse gli occhi, una lacrima gli rigò il viso e il potere danzò per un attimo prima di allargarsi a macchia d'olio, investendola con potenza e costringendola a bloccarsi nel mentre della sua fellatio.
Rimase atterrita dall'energia, schiacciata da quel devastante e opprimente potere. Le tolse il fiato e le forze. La legò come una catena invisibile, l'ennesima della sua vita.
Ancora una volta Vell si sentì in balia delle scelte altrui. Anche se, nel sesso, dovrebbero essere in due a volerlo. E negli occhi di Arthur non c'era nulla che le desse quella conferma.
Afferrandola per le spalle la scostò da sé, mise una buona distanza tra i loro corpi. Cercò di riprendere possesso di se stesso. «Non posso» disse lui, piano, con un filo di voce. Ansimava per lo sforzo, per contenere tutte quelle emozioni che lo stavano travolgendo. Le braccia tremanti e il viso madido di sudore. Nello sguardo c'era un dolore vivo e delicato come cristallo. Pronto a spezzarsi. «Non posso fare sesso con te, Vell. Non così. Non a queste condizioni.» Deglutì nervosamente. Un brivido di freddo lo fece tremare. Si sentì vuoto e stremato, sopraffatto e usato. Violato come mai era capitato, nemmeno nelle situazioni peggiori con Bröna. «Non voglio essere il tuo giocattolo di una notte. Non voglio prenderti consapevole che mi stai solo usando... col rischio che domani ce ne pentiremo entrambi e per te sarà diventata l'ennesima sconfitta a pesarti sull'anima.» Non si era mai sentito così impotente e arrabbiato al contempo, così dispiaciuto e ferito, fuori di sé e deluso.
Vell digrignò i denti, gli occhi traboccarono di lacrime e tutte le emozioni uscirono fuori in un pianto struggente, così intenso da scuoterla come un albero in balia della tormenta.
Arthur fece per abbracciarla, per darle il proprio conforto e avvolgerla nel calore dei propri sentimenti, così contrastanti e fragili ma tanto forti da spaventarlo; però lei si ritirò di scatto, con un grugnito rabbioso, battendogli sul petto a mani aperte.
«Vaffanculo! Vaffanculo!» gridò colpendolo con tutta la forza che aveva, infrangendo i propri pugni contro il suo costato. «Voi King siete solo dei luridi bastardi! Solo dei figli di puttana! Andate a fanculo tutti! Tutti quanti!» E con quell'ultimo grido di rabbia, aprì la portiera dell'auto che si era appena fermata davanti a Villa King e uscì nella notte correndo verso casa senza nemmeno voltarsi indietro.
Arthur si abbandonò esausto contro il sedile e con mani tremanti si sistemò di nuovo boxer e pantaloni.
Sentiva uno buco in petto, come se ci avessero appena scavato una fossa dove annegare tutte le sue emozioni. O forse, una fossa dove seppellire se stesso.
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