CAPITOLO 18

Il giovane figlio dell'alfa continuava con tormento a passarsi le mani nella folta e liscia massa di capelli mori. Gli ricadevano lungo la schiena fin quasi a toccargli la cintura dei jeans.

Era seduto in quella saletta da meno di cinque minuti ma la tensione non sembrava volersi allentare nemmeno vagando con lo sguardo sull'arredamento in cerca di un appiglio che lo distraesse. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di non pensare.

Continuava a mordersi le pellicine a lato delle unghie, facendosi perfino uscire il sangue.

L'attesa lo stava sfinendo.

Quando Arthur entrò nella sala, Chester era di schiena e non lo vide, però subito ne avvertì la presenza. L'energia che quel King si portava dietro sembrava addensarsi dentro la stanza con prepotenza. Era come se improvvisamente ci fosse troppo poco spazio per contenere entrambi.

«Ehi, ragazzino... come mai mi hai chiesto un'udienza? Lo sai che puoi venire a infastidirmi quando vuoi. Non devi mica prendere appuntamento.» Il sorriso giocoso sfumò velocemente dalle labbra di Arthur non appena Chester si voltò a guardarlo. «Cristo Santo! Che hai fatto, eh? Che ti succede, Chaz?» Con un movimento veloce scivolò vicino all'amico, allungando una mano per sfiorargli una spalla.

Gli occhi del licantropo erano arrossati come dopo una lunga sessione di pianto. Aveva solchi violacei a sottolineare un mancato sonno e la pelle, già candida di suo, era se possibile ancor più bianca. Inoltre era freddo, quasi quanto un cadavere.

Quel contatto sembrò riportar presente il ragazzo che subito si ritrasse dalla presa e serrò le mani a pugno, tenendole saldamente ancorate alle ginocchia. «Sono venuto a parlarti di una cosa seria» riuscì a dire infine, dopo un lungo tentennamento.

Quello che gli era capitato, o meglio, che era capitato al suo branco; continuava a tormentarlo sia nel sonno che da sveglio. Non riusciva a dargli pace e i segni che il suo fisico presentava ne erano la prova inconfutabile.

«Ma certo, tutto quello che vuoi... sono qui.» Arthur non aveva mai visto Chester tanto sconvolto. Solitamente era un tipo solare, bisbetico, dalla battuta tagliente sempre pronta e con un ego abbastanza grande da far perdere le staffe anche a un tipo pacato come Will, suo fratello. Lui, William e Charles erano un trio di amici che ormai restava in piedi da quand'erano piccoli, seppur Chester fosse il più piccolo. Dire che Arthur lo conosceva bene era riduttivo, lui e Charles avevano passato più tempo in quelle mura che nelle loro vere dimore. Erano come altri due fratelli minori di cui prendersi cura. «Raccontami tutto sin dal principio.» Cercò di toccarlo ancora, per trasmettergli un conforto che a parole era difficile far comprendere ma il giovane lupo si scostò e lo fissò di sottecchi, con rabbia, quasi a volerlo colpevolizzare di qualcosa.

«Qualche giorno fa... ero a una festa insieme al mio gruppo di amici. Eravamo in una decine, tutti licantropi» iniziò, ravviandosi la massa di capelli. Indossava i soliti jeans neri scoloriti e una maglietta dei Metallica piena di strappi. Sopra aveva un giacchetto di pelle pieno di borchie e ai polsi innumerevoli bracciali a chiodo. Da lontano sembrava il classico metallaro, forse con la faccia troppo pulita e per bene. Sul suo giovane viso non c'era accenno di barba. «Ci siamo fatti un giro al Brums e poi volevamo andare al Count, è un locale nuovo, sai... lo hanno aperto da poco.»

Arthur annuì. Non era un tipo che bazzicava per locali ma aveva sentito vociferare di questa nuova apertura. Sembrava essere un locale pieno di umani perditempo e un'esagerata folla indiavolata sulle piste da ballo.

«A un certo punto però, nel mezzo della serata, Owen è sparito.»

«Chi è Owen?»

Chester sollevò lo sguardo, si stava strizzando le mani così duramente che le dita erano sbiancate. «Owen Parker. Uno dei miei migliori amici» disse come se Arthur ne dovesse essere a conoscenza. L'altro si limitò ad annuire e Chester riprese il racconto: «Bé, si pensava che Owen fosse andato a casa. La ragazza che gli piace quella sera gli diede buca e non era dell'umore adatto.» Prese fiato.

Raccontare faceva male. Rivivere quelle scene era doloroso.

Un attimo prima l'amico era con loro, l'attimo dopo in mano di quegli altri.

E lui non lo aveva saputo. Non subito per lo meno. Aveva passato la serata a divertirsi senza immaginare cosa stesse passando il suo amico, superficialmente. Era anche colpa sua se era successo quello che era successo. Serrò le labbra e un ringhio gli uscì dalla gola, basso e vibrante, carico di rabbia e bestialità. Il lupo assopito in lui non era riuscito più a stare quieto dopo quella notte, dopo che lo avevano trovato.

«E cosa è successo dopo?» domandò Arthur, vedendo che Chester si era perso in qualche meandro dei propri pensieri.

«Quando sono tornato a casa gli ho mandato un paio di messaggi ma vedendo che non mi rispondeva l'ho chiamato. Il cellulare suonava a vuoto finché non scattava la suoneria. Ho pensato che fosse incazzato con me perché non lo avevo consolato per il due di picche.» Gli uscì una risata secca, a metà tra l'umano e la bestia. Un ringhio trattenuto a stento. Picchiò con un pugno un ginocchio. «Se solo fossi stato più attento... più alfa e meno ragazzino. Insomma, mio padre me lo dice sempre che essere alfa ha pregi e difetti ma soprattutto una lunga lista di accorgimenti che non vanno mai tralasciati.»

Dalla voce altalenante e sempre più flebile di Chester, Arthur comprese che quella sera qualcosa era andato storto. Un suo amico, un licantropo, aveva subito qualcosa che lo aveva turbato nel profondo. Aveva paura a chiedere cosa. Paura che i problemi dei mesi prima tornassero nuovamente a galla riportando in stato di allerta tutti i suoi sudditi. «Continua Chester.»

Il lupo sollevò lo sguardo, gli occhi passavano dall'azzurro mare al giallo cangiante della bestia. Non riusciva a mettere un freno a quello scrosciare d'emozioni. «Il giorno dopo sono andato a casa sua. Volevo insultarlo e dirgli che è uno stronzo, che non è certo colpa mia se Brianne gli aveva detto che non era il suo tipo.» Fece un respiro. «Ma i suoi mi dissero che non era rientrato, che pensavano fosse da me. E allora quando abbiamo capito che era sparito, è scattato l'allarme a tutto il branco.»

Arthur temeva a fare quella domanda ma doveva fargliela. Aveva bisogno di sapere. In quanto Magister era suo compito conoscere ogni cosa, anche la più spregevole, che avveniva sul suo territorio. «E lo avete trovato?»

Chester annuì, mandò giù un boccone amaro e gli occhi si velarono di lacrime. Le ricacciò indietro con un ringhio e scrollò le spalle. «Lo trovammo a sera inoltrata. Cazzo, Art... non – non puoi capire.» Si portò il pugno alla bocca, chiudendosela con il dorso della mano tremante. Era scosso da fremiti e lo sguardo stralunano sembrava divorare il nulla di fronte a sé. «Era – era ancora vivo. Lo avevano smollato nel mezzo dell'Huron-Manistee National Forest. Probabilmente speravano che morisse ma... noi lupi abbiamo la pellaccia dura.» Sorrise. Un sorriso triste e carico di dolore. Continuò: «Lo abbiamo portato d'urgenza alla Clinica Brown... aveva il corpo pieno di lividi, percosse, ossa fratturate, tagli da lame d'argento e poi... la gola... Dio, la gola...» Esitò un attimo e fissò Arthur. Le lacrime presero a scendergli senza freni, rigando le guance e scivolando sul collo fino a infiltrarsi nella maglietta. «Aveva la gola ustionata, come se ci avessero cacciato dentro qualcosa d'argento e... e gli avevano reciso le corde vocali, come se fosse un dannato cane! Capisci? Cazzo! Come un fottuttissimo cane del cazzo!» Si alzò ringhiando e l'energia mannara detonò con potenza, abbattendosi con fragore su ogni cosa attorno a lui. Molti oggetti schizzarono in terra come mossi da un vento invisibile.

Arthur restò immobile sul divano, cercando di non farsi prendere dal panico.

Cacciatori.

Possibile? Possibile che fossero tornati di nuovo?

L'ultima volta avevano fatto un sacco di danni, ucciso un sacco di mannari e messo in pericolo molte persone a lui care. Amos a quel tempo aveva rischiato grosso, non se n'era affatto dimenticato. In fondo erano passati solo pochi mesi.

Chester iniziò a muoversi avanti e indietro per la stanza. Le mani che continuavano a mandare indietro i capelli che gli ondeggiavano sulla schiena come un mare in tempesta. Una macchia nera che si allargava come la notte. «Mio padre pensava che fossero state gli harimau, le tigri... ma io conosco Duba, lo so che lui non farebbe mai una cosa del genere. Non è il tipo. Non con un ragazzino di sedici anni poi.»

«No, hai ragione. Duba non farebbe mai una cosa del genere. Ma allora... chi è stato? Lo sapete?»

Chester a quel punto si voltò, lo fissò con uno sguardo spiritato e per un attimo Arthur temette che lo avrebbe attaccato. Sembrava fuori di sé come se in parte fosse anche colpa sua. «Owen è rimasto in coma farmacologico per tre giorni. Si è svegliato oggi e siamo riusciti a ottenere qualche informazione anche se ce le ha solo potute scrivere, visto che... bé, non potrà mai più parlare dicono i medici. Le corde vocali son state recise con qualcosa in argento e...» Deglutì, passandosi una mano dietro il collo. Le dita fredde lo fecero rabbrividire. «Ci ha scritto che è stato attaccato da delle hyaen.»

Arthur strabuzzò gli occhi. Era assurdo. «No, no... impossibile. Phillip non farebbe mai una cosa del genere. Lo conosco bene, è un krokut molto severo con i suoi uomini, il suo branco di iene mannare è corretto e segue le regole. Non permetterebbe simili barbarie.»

«Fanculo, Arthur! Sto parlando di merda che viene dal Kansas!» gridò Chester, dando un calcio al tavolino poco distante da lui. Tutte le riviste si rovesciarono a terra con il fragore di una cascata. «Gli hanno chiesto di te! A Owen! A un sedicenne che non sa un cazzo della vita gli hanno chiesto di te! Di te!» Era così furioso che i denti si erano allungati più del dovuto e le mani spaccate facendo uscire gli artigli.

La bestia era lì sotto, così vicina all'orlo della trasformazione, così pronta a uscire e chiedere pietà per quel cuore che non trovava pace. Aveva bisogno di lasciarla uscire tutta quella rabbia, di sfogarsi, di spegnere il suo cervello umano anche solo per un istante e lasciare che il lupo facesse tutto il resto.

«Di me?» Per un attimo Arthur non comprese. Non subito. Poi tutto fu chiaro. Anche troppo.

Chester gli fu in un attimo addosso. Lo afferrò per la camicia sollevandolo di peso dal divano e scuotendolo con forza. «Che cazzo stai facendo, Art, eh? Ci stai mettendo nei casini a tutti? Che cazzo stai combinando per scomodare un branco di hyaen del Kansas a massacrare un ragazzino?» Piangeva. Il dolore gli traboccava dal corpo come un fiume in piena, scivolava denso intrecciandosi al suo potere mannaro e aggrediva con violenza Arthur che mai quanto in quel momento avrebbe voluto stringerlo a sé e consolarlo, chiedergli scusa e smettere di sentirsi un King tanto incompetente. «Perché volevano sapere di te? Perché? Perché tutta questa crudeltà in questo mondo del cazzo, eh? Perché siamo così mostri anche se abbiamo corpi umani?» Lo colpiva con rabbia, lasciando che gli artigli gli lacerassero la camicia e graffiassero il suo petto.

Arthur lo afferrò per le spalle, lo strinse così forte che non gli diede modo di liberarsi. Allora Chester si aggrappò a ciò che restava del tessuto della camicia e affondò il viso nel suo petto scoppiando a piangere, così forte che Arthur si sentì squarciare il cuore. Fu come se qualcuno gli infilasse un coltello dentro e girasse con forza.

«Mi dispiace, Chaz. Mi dispiace. Lo giuro... mi dispiace.» La voce incrinata dal pianto, a sua volta distrutto dalla consapevolezza che le conseguenze delle proprie azioni non ruotavano solo attorno a se stesso.

Era un Magister. Era a capo di un popolo. Era il leader della sua razza in Michigan.

Chester si strinse all'amico come se ne dipendesse la sua stessa vita; continuò a piangere e singhiozzare senza freni né limiti, lasciando che quel dolore colasse via, scivolasse fuori dal suo corpo e contagiasse un po' anche Arthur. Sentiva il cuore sanguinare, ferito e deluso.

E più cercava di dare un senso a quella crudeltà, più non riusciva a capacitarsi di ciò di cui fossero capaci i suoi simili.

Però lo aveva compreso presto. A soli diciassette anni.

Gliel'aveva sempre detto il padre: "Non tutti i mannari sono amici".

Ma lui non ci aveva voluto credere. Lui aveva il cuore puro, la gioventù negli occhi, l'ottimismo dalla sua parte.

E invece, quello che era successo a Owen gli aveva sbattuto in faccia la verità.

Non solo dovevano guardarsi quotidianamente le spalle da gente come i cacciatori, ma non potevano fidarsi nemmeno più della propria gente. Ci si ammazzava tra sovrannaturali.

Com'erano potuti arrivare a tanto?

Dopo un ultimo singhiozzo, allentò la presa su Arthur e qualche istante dopo si allontanò abbastanza da fissare l'amico in faccia, arrossendo della situazione.

Era la prima volta che reagiva a quel modo, con il padre nemmeno poteva esternare la propria tristezza. Suo padre era un uomo troppo rigido e tutto d'un pezzo per ammettere che il figlio, il futuro alfa, potesse avere qualche debolezza o ancor peggio mostrarla pubblicamente. «Spiegami che sta succedendo» disse il ragazzino, asciugandosi le ultime lacrime e schiarendosi la voce per non sembrare più patetico di quanto già si era mostrato.

Arthur sospirò, si passò una mano nei capelli districando i nodi tra i ricci e decise che era giusto raccontarglielo. Allora si mise a sedere e Chester lo imitò. «Qualche settimana fa ho accettato che la femmina di un altro King entrasse in questo harem.»

Chester sgranò gli occhi. «E puoi farlo?» Non conosceva nulla delle tradizioni dei King, a malapena conosceva quelle dei licantropi, che fra l'altro ancora studiava per essere un giorno all'altezza del ruolo che avrebbe ricoperto.

«Dal momento che lei è scappata da lui, sì. Ha perso la sua protezione e in quanto femmina in fuga, chiedere protezione a un altro King è fattibile. Bé, sempre che quest'altro King gliela conceda... solitamente non ci pestiamo i piedi tra noi.» Sospirò. L'idea che tutto quel casino fosse opera di Marius King era fin troppo palese. «Teoricamente i King non accettano quasi mai di proteggere una leonessa uscita da un altro harem... e se lo fanno, devono essere consci che potrebbero esserci delle ripercussioni.»

Chester strozzò un gemito. «Diamine, Art... perché? Perché farlo? Insomma... lo sai, noi siamo tutti indirettamente collegati a te.» Si passò le mani sul viso e poi nei capelli. La rabbia aveva lasciato posto a una frustrazione a cui non riusciva a dare una direzione, non sapeva verso chi indirizzarla. «Le tue azioni si ripercuotono su tutti i tuoi sudditi e... bé, io non dico che hai fatto male ad aiutare questa femmina... immagino che se è scappata da là non è certo perché si trovava bene... però, Art... Owen ha pagato un prezzo non suo, capisci?»

Fu lacerante sentirsi fare la paternale da un diciassettenne, da un ragazzino che negli occhi non aveva più la spensieratezza di un tempo. E quella spensieratezza era stata rubata a causa sua.

Arthur deglutì, sentendo un vuoto nel petto e un turbine confuso nello stomaco. «Non pensavo saremmo arrivati a tanto. Sai che esistono regole in merito: ogni mannaro che si sposta da uno Stato all'altro deve fare una richiesta e... stessa cosa vale per i King. Noi non siamo certo esenti da questa regola, anzi, ne siamo ancor più vincolati.» La voce era greve, lo sguardo serio e perso nel vuoto. La testa ragionava su scenari che non avrebbe voluto nemmeno vagliare. «Per noi King, muoversi senza il consenso dell'altro Magister... entrare nel suo territorio... bé, è un affronto bello e buono, perseguibile penalmente. È come una dichiarazione di guerra.» Ma Marius King non era ancora entrato nel suo territorio, era stato furbo. Aveva inviato dei sottoposti con cui avrebbe potuto negare il coinvolgimento.

«Bé, cazzo... è abbastanza chiaro che quei tizi li abbia mandati lui, no? Non sarà venuto di persona ma si è già messo in moto in qualche modo.» Con un gesto nervoso Chester si pizzicò i bordi degli strappi che aveva nei jeans, infilò due dita in un buco allargandolo di poco, con tensione. Un gesto automatico per tener occupate le mani. Le spalle erano tirate e contratte, lo sguardo fisso sugli anfibi. Aveva paura ad affrontare gli occhi di Arthur. «Che – che diavolo pensavi quando l'hai presa qua?» Non avrebbe voluto chiederlo. Non era giusto mettere sulla bilancia la felicità di una persona paragonandola ad altre, eppure sull'altro lato della bilancia erano in troppi, tutti lì, stipati. C'erano tutti i membri di ogni branco, ogni mannaro del Michigan. E pensare che per la felicità di una sola persona ne potessero pagare molte altre era orribile e ingiusto.

, pensò Chester, la parola esatta è proprio ingiusto.

Era ingiusto che una femmina non potesse sentirsi sicura nel proprio luogo d'origine.

Ingiusto che fosse costretta a scappare per sottrarsi alle angherie di un uomo probabilmente violento e indegno.

Ingiusto che non potesse vivere felice e libera di scegliere della propria vita ma, altrettanto ingiusto, che a gente come Owen che non c'entrava nulla, gli venisse rovinata la vita per problemi altrui.

Per un attimo nella mente di Chester balenò un'idea mostruosa: riconsegnarla, rispedirla a casa. Subito si prese il viso tra le mani sentendosi orribile, al pari di quel bastardo da cui era scappata. Era una situazione così complicata che i suoi diciassette anni non bastavano per trovare risposta a quella circostanza così scomoda. Per lei stavano tutti pagando un poco, anche se lei stessa, in primis, aveva pagato già abbastanza.

Arthur lo fissò con rassegnazione. Si sarebbe voluto fare un bicchiere di scotch, anzi no, forse un'intera bottiglia. Si abbandonò contro lo schienale del divano e sospirò. «Non lo so, Chaz. Appena l'ho sentita al telefono, con quella voce rotta dalla disperazione... io... io non me la sono sentita di lasciarla in balia di se stessa, in attesa che Marius la trovasse e la ammazzasse come se fosse una bestia.» Gli veniva da vomitare. La tensione gli raschiava la gola. Il rimorso per quell'Owen di cui nemmeno sapeva l'esistenza prima d'ora annichiliva le speranze con cui si era foderato gli occhi fino a quel momento. «Pensavo che qualora la rivendicasse e la volesse indietro, mi avrebbe sfidato. Funziona così di solito. Non si mettono di mezzo terzi, ancor meno i nostri sudditi. È una cosa che si regola tra King, solo noi.» Aveva fatto male i conti. Aveva sbagliato. Era stato superficiale, impreciso e a causa sua un suo suddito ne aveva pagato grosse conseguenze.

Non poteva credere che qualche King aggirasse le leggi tanto subdolamente.

Si era ciecamente fidato dell'onore di ogni Magister in carica, credendo che avrebbero potuto risolvere la situazione legalmente, con una sfida diretta come in teoria funzionava in questi casi. E invece, Marius King non aveva nessuna intenzione di rispettare le regole.

Un King non fa questo.

Un King non è questo.

Suo padre glielo ripeteva sempre e Arthur ci credeva davvero. Credeva davvero a tutti i valori con cui era stato cresciuto, che sin da piccolo gli erano stati impartiti. Li aveva resi parte di sé e ora vederli macchiati in quel modo lo rendeva furioso.

Sei sempre troppo fiducioso nel prossimo.

Le parole che Quinn gli aveva rivolto un giorno gli rimbombarono nella mente. Sì, lui era fatto così, era sempre convinto che ci fosse qualcosa di buono da salvare in ognuno di noi.

Solo che, ogni volta, finiva solo per scottarsi a causa della propria ingenuità.

«Ora che farai?» La domanda di Chester lo riportò al presente.

Arthur scosse il capo, chiuse le mani a coppa e se le portò al viso, parlando un attimo dopo attraverso esse. «Non lo so, Chaz. Non lo so.» Chiuse gli occhi e prese un respiro, filtrato dal calore dei palmi. «Non posso mandarla indietro come se fosse un pacco... non voglio.»

Nemmeno Chester avrebbe trovato il coraggio di fargli una simile richiesta, seppur ci avesse pensato. Sì, era successo qualcosa di tremendo ma lui non sarebbe sceso a certi livelli di inumanità. Non era così spregevole. Nemmeno verso qualcuno che non conosceva.

«Bé, penso che gli manderò una lettera, una email, un cazzo di qualcosa per chiedergli se vuole sfidarmi, se gli ha scoreggiato il cervello o se è così di natura.»

Chester sorrise. Non capitava spesso di sentire da Arthur qualche imprecazione colorita e del tutto inventata. Era sempre un tipo equilibrato. Il giovane lupo lo aveva sempre figurato come un fratello maggiore, e visto che lui era figlio unico, molto spesso Arthur e William erano stati i fratelli che non aveva mai avuto; insegnandogli dei valori che perfino il padre non era stato in grado di trasmettergli. «Io spero che... che la cosa si risolva senza che altri ci vadano di mezzo.» Aveva paura. Per sé, per il suo branco, per tutti gli altri mannari che ruotavano intorno ad Arthur. Prima d'ora il pericolo gli era sempre sembrato troppo lontano per essere davvero sentito, ma ora, dopo quello che era accaduto a Owen, molte cose erano cambiate dentro di lui.

Ora lo sentiva forte, sulla pelle. Sentiva il sapore della paura ed era un sapore che non gli piaceva affatto.

Arthur annuì. Quel ragazzino aveva ragione. Quella questione non riguardava altri che lui e Marius King, nessun altro, nessun suddito, nessuna leonessa. Solo loro.

Gli avrebbe mandato una formale lettera di sfida per potersi tenere Vell e avrebbero chiuso così la questione.

Non poteva più tirarsi indietro, ormai le aveva promesso che l'avrebbe protetta e lo avrebbe fatto, senza esitazione. Quando Arthur King prometteva qualcosa, lo manteneva sempre.

«Bene. Ora è... è meglio che vada.» Chester si alzò, pizzicandosi nervosamente le borchie dei bracciali. Stare lì in quel momento lo faceva sentire fuori luogo.

Lasciò scorrere due dita sulla maglietta dei Metallica, seguendo una scia invisibile fino al cuore. Gli faceva ancora male e seppur avesse accettato quella verità con meno rabbia di quanto credeva, aveva fortemente bisogno di levare le tende da Villa King.

Anche Arthur si alzò, posandogli una mano sulla spalla e stringendo debolmente la presa. Questa volta il lupo non si ritrasse. «Spero che tu e il tuo branco possiate, un giorno, perdonare i miei errori.»

A Chester brillarono nuovamente gli occhi, le lacrime a fatica tenute a bada. «Senti, Art... sono venuto qui, prima e... bé, ero fuori di me e...» Gli osservò con imbarazzo ciò che ne restava della camicia. Si sentiva in colpa. Poco prima, in quell'attimo di rabbia estrema gliel'aveva ridotta a brandelli. Il tessuto chiaro era stato fatto in sottili striscioline su tutto il petto, ogni lembo di camicia era intriso del sangue di Arthur ma per fortuna dei tagli ormai non v'era più traccia. Chester tirò un silenzioso sospiro di sollievo. Per un certo verso, era un bene che i mannari si rimarginassero tanto in fretta. «Mi dispiace per la camicia e... per tutto il resto.»

Arthur chinò gli occhi sul capo ormai da buttare, sfiorandone ciò che ne rimane e sorridendo amaramente. «Credo di averlo meritato.»

L'altro non sa che dire, sa solo di volersi catapultare fuori da lì, prendere aria, spegnere il cervello. «Io credo che... che...»

«Sia ora di andare?»

Chester annuì, passandosi una mano sul collo. È a disagio. «Sono sicuro che risolverai tutto. Tu risolvi sempre tutto, no?»

Le labbra di Arthur si assottigliarono in un sorriso tagliente, forzato. Si limitò ad annuire e lo guardò allontanarsi e uscire dalla saletta. Il sorriso finto che tratteneva con spasmo svanì con lui, non appena scomparve alla sua vista.

Improvvisamente si sentì esausto.

Avrebbe tanto voluto dirgli di sì, dirgli che aveva ragione, che lui risolveva sempre tutto, che ogni cosa si sarebbe sistemata; eppure, non ne era più così sicuro.

Ormai se n'era reso conto, camminava passi incerti da quando era diventato Magister. Si sentiva un funambolo in bilico sulla corda. Era sempre lì a un passo dal cadere. Non sapeva nemmeno lui come ancora riuscisse a restare in piedi.

Solo quando il silenzio calò sulla saletta, Arthur captò un tintinnare costante, come di cocci che sbattono ritmicamente l'uno contro l'altro. Seguì quel rumore con curiosità, fino a raggiungere una porta chiusa da cui spesso faceva capolino David con qualche novità sui suoi impegni lavorativi. Attese un secondo prima di aprirla con un colpo deciso, cogliendo Vell in flagrante, proprio un attimo prima che riuscisse a scappare.

In mano teneva un vassoio con due tazzine, si erano entrambe rovesciate e il caffè si era sparso sul ripiano. Cozzavano tra loro a ogni sussulto della giovane, che veniva percorsa da fremiti mentre cercava di smettere di piangere. «Vo – volevo portarvi un caffè... solo un caffè e...» La voce le si strozzò in gola. Aveva gli occhi rossi e gonfi, il naso che colava e una fragilità che spaventava Arthur più di quanto potesse spaventarlo Marius King.

«Ehi, che hai fatto, eh?» Cercò di toccarla ma lei subito si ritrasse. Posò il vassoio su una credenza poco distante e appoggiando le mani contro il legno del mobile cercò di respirare, anche se sembrava qualcosa di molto più difficile. «Vell, ti prego, parlami.»

«Io – io ho sentito... ho sentito tutto. Non volevo ma... ma ho sentito.»

Ad Arthur sprofondò il cuore in petto. Non voleva che assistesse al dolore di Chester, alla paura, allo smarrimento dei suoi sudditi. Non voleva che si sentisse colpevole di ciò che era capitato a quel giovane lupo, né che pensasse che per lui fosse un peso. «Mi dispiace che tu abbia dovuto assistere a una discussione tanto tremenda ma... purtroppo i branchi mannari non vanno sempre d'accordo e-»

«Oh, andiamo Arthur! Non trattarmi da stupida!» gridò lei, troncando sul nascere la sua frase. «Non cercare di convincermi che potrebbe non essere stato lui. Lo sappiamo bene che è Marius. Lo hai detto anche tu. Lo hai detto a quel ragazzo!»

Lui non sapeva che dire. Avrebbe voluto tenerla lontana da tutto questo, dal suo passato, da quel King che non meritava nemmeno lontanamente quella carica. Aveva detto che l'avrebbe protetta e voleva davvero farlo, con tutto se stesso. «Non ti tratterò da stupida, infatti! Gli parlerò. Gli proporrò una sfida secondo le leggi.»

Vell scoppiò a piangere, picchiando con i pugni sulla credenza. La paura e la rabbia mescolati in un unico e vincolante sentimento. «Lui non seguirà le regole, Arthur. Non è il tipo d'uomo che lo farà. Lui verrà qua! Verrà qua e farà terra bruciata!» La voce gli usciva stridula, graffiando la gola come se fossero artigli. Si guardò attorno stralunata, lo sguardo liquido di lacrime, appannato di terrore. «Me ne devo andare. Me ne devo subito and-»

«Zitta! Non lo dire nemmeno!» l'ammonì lui e troncando sul nascere i suoi sproloqui l'attirò a sé in un abbraccio che sembrava più lo straziante tentativo di tenere insieme tutti i pezzi di lei. Pezzi che temeva sarebbero andati in frantumi se solo l'avesse lasciata fuggire ancora. «L'affronteremo tutti insieme. Io, te e le ragazze. In qualche modo ne usciremo. Insieme.»

Vell tremò, si aggrappò ai resti di quella camicia, affondò il viso nel corpo di quell'uomo che le stava offrendo una casa, degli affetti e una mano tesa. Pianse forte. Pianse ogni lacrima. Lasciò scorrere tutto il dolore. Lasciò che il male che provava dentro uscisse nelle grida strazianti di quel pianto. Si spogliò di ogni scudo e barriera, di ogni maschera e finto sorriso. Mise a nudo la propria anima.

E in quel tormento, in quella disperazione; pregò. Pregò affinché le sue suppliche trovassero ascolto e almeno per una volta nella sua vita, venissero esaudite.

Cercava solo pace. Solo un luogo di pace.

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