CAPITOLO 15
Vell si strinse le spalle, passandosi le mani sulle braccia per mitigare il freddo. Un gelo rannicchiato in un angolino della sua anima e che nulla aveva a che vedere con le temperature di Villa King.
Si era persa con lo sguardo lontano, a fissare gli alberi spogli e la leggera pioggia che scendeva dal cielo carico di nubi scure. Fuori stava facendo buio e senza rendersene conto era in attesa del ritorno di Arthur. Quel pomeriggio era corso via di fretta, insieme al suo amico, blaterando qualcosa su qualcuno che stava per partorire.
Non avrebbe voluto impicciarsi ma era curiosa.
«Vedo che ti sei adattata bene alla tua nuova vita.»
La leonessa si voltò di scatto incontrando lo sguardo severo di Bröna, era ancora ferma sul ciglio della porta e la stava osservando con disappunto e disprezzo. Uno sguardo che Vell conosceva bene e che spesso aveva letto nei volti di chi aveva attorno alla corte del proprio King.
«Merito vostro» fu tutto ciò che riuscì a dire.
Non aveva mai parlato con lei, si erano spesso incrociate nei corridoi o nelle stanze della villa ma non si erano mai rivolte la parola direttamente. Nemmeno quando si univa ai pasti, mettendo da parte quella strana malattia che a Vell dava tanto l'idea di una scusa per attirare l'attenzione.
Quello che le aveva raccontato Dakota a riguardo le bastava. Non capiva il comportamento di Bröna nei suoi confronti e ancor meno verso Arthur. Anche sforzandosi probabilmente non ci sarebbe mai riuscita.
Amare qualcuno che non ti ama sicuramente è doloroso ma per Vell era ancor più dolorosa la costanza con cui portava avanti questo amore non corrisposto.
A volte ci sono battaglie che si perdono.
A volte amare vuol dire lasciare andare.
A volte bisogna sapersi arrendere.
«Mio no di certo. Se fosse stato per me... tu qui dentro nemmeno avresti messo piede.» Bröna si scostò una ciocca di capelli dal viso e si umettò le labbra carnose. Il pallore della pelle era così evidente che dentro quella veste candida sembrava un cadavere. «Almeno sei felice di ciò che stai scroccando così tranquillamente?»
Vell soffocò un gemito. «Co – cosa? Io non sto scroccando niente.» Si sentì offesa per il tono con cui venne schernita. Non era un'arrampicatrice sociale. Non le interessava nulla se non una parvenza di quiete.
«Ah, no? Ne sei davvero sicura?» Le dita di Bröna presero a muoversi nella massa di capelli sciolti, pettinandoseli con noncuranza mentre camminava per la sala. «Sei arrivata qui dettando le tue regole. Mangi e bevi a sbaffo, dormi e ti lavi qui. Sfrutti tutto ciò che puoi sfruttare. Hai preteso appoggio, protezione e rispetto. E in cambio cosa dai ad Arthur? Nulla. E credimi, non parlo del sesso.»
Vell avvampò, stringendo i pugni con rabbia. Di starle antipatica lo aveva ormai capito da tempo, ma non pensava che avesse questa opinione di lei. Non poteva credere di esser vista sotto una luce tanto subdola.
Bröna si fermò, guardandola dall'alto al basso nauseata. Vederla in quella casa la metteva di cattivo umore, più di quanto già non fosse normalmente. «Non ti senti un po' egoista a sfruttare la bontà di mio fratello a questo modo?»
Vell aveva sopportato per giorni la sua indolenza, i suoi sguardi arcigni e carichi di rancore ma non si era fatta tutta quella strada, scappando dalle grinfie di Marius, per finire bullizzata da una ragazzina viziata come lei. «E tu?»
«Come prego?»
«Non ti senti egoista a sfruttare la bontà di tuo fratello? A pretendere qualcosa che non può e non vuole darti? Hai un bel rispetto per lui. Non è forse un po'... come dire... da stronze?» Lo aveva detto. Finalmente si era tolta quel peso dal petto.
Bröna la fissò per un interminabile istante prima di scoppiare a ridere sguaiatamente. Così forte che si dovette tappare la bocca per non scoppiare in singhiozzi. «Tranquilla, so perfettamente le mie colpe e i miei peccati. Non servi certo tu per ricordarmeli.» Era quasi scontato che le ragazze prima o poi le avrebbero raccontato di lei e Arthur. Era sorpresa che non avessero perso tempo. Si raccolse i capelli di lato e sorrise. «Sai, sono consapevole di essere una stronza egoista che forse farebbe meglio a dimenticarsi di questo amore, magari andandomene lontano da qui, da Arthur. Ma non è lui stesso egoista nei miei confronti? Questa sua ostinazione a non volermi lasciare morire mentre tento di farla finita con tutta me stessa... consapevole che la mia esistenza è irrimediabilmente legata a lui, che senza lui non riesco a stare. Non sarebbe meglio la morte allora? Perché non concendermela? Non è forse crudele amarmi abbastanza da tenermi viva ma non abbastanza da desiderarmi quanto tutte le altre?» La voce era un ringhio basso, arrabbiato. Avanzò di qualche passo stringendo i pugni nella vana speranza di placare quella delusione costante.
Aveva tentato di morire così tante volte, con così tanti mezzi differenti, che ormai aveva perso il conto. E ogni volta, Arthur si era prodigato per aiutarla, salvarla. Ma lei non lo voleva, no. Lei voleva morire.
Glielo aveva detto così tante volte che le si era consumata la voce. Stare al mondo senza poterlo avere non aveva senso. Essere spedita in un altro harem, o dai genitori, era un'agonia. Meglio la morte.
Ma no. Arthur, il suo corretto e morigerato fratello, non le permetteva di farla finita. L'amava. Ma non come amava le sue leonesse, no. Il suo era un amore fraterno, che lei non voleva.
E allora Bröna si lasciava andare, si lasciava appassire, aspettava la morte. Si beava di quelle poche attenzioni che le dava, che il rimorso della sua condizione lo costringeva a darle; ma poi le montava la rabbia, la brama e l'irrazionalità, così finiva per fargli male. Così soffrivano entrambi. Lo spingeva verso i suoi limiti, sperando che qualcosa in lui si spezzasse.
O si spezzava in suo favore o la lasciava libera di decidere della propria vita. Amare o morire.
Era un tiro alla fune pericoloso il loro, lo sapeva bene; eppure non sapeva che altro fare per convincerlo a farla sua o liberarla da quella vita inutile d'esser vissuta.
«Sei convinta che la sofferenza sia data solo da violenza, abusi e botte... non riesci nemmeno a comprendere che a volte anche essere ignorata, rifiutata e sminuita come femmina è una costante violenza psicologica. Il semplice fatto di non potersi muovere senza essere controllata ventiquattrore su ventiquattro, senza aver il potere di decidere se poter vivere o morire. Non credi che sia una violenza anche questa?» continuò Bröna, gli occhi gialli e scintillanti nel buio della stanza saettavano su tutto e niente, senza aver bisogno di un vero punto da guardare. Vell si morse nervosamente un labbro. Erano scivolate in un discorso doloroso e pericoloso per entrambe. «Ma che cosa lo dico a fare a una come te? Cosa sei per me in fondo? Niente. Sei l'ultima a poter parlare di rispetto qui dentro. Sei qui a bearti di questo ambiente piacevole, consapevole che il tuo King verrà a cercarti... oh, sì... funzionano così la maggior parte dei King, pomposi bastardi misogini e maschilisti... lo sai tu come lo sappiamo noi altre. Non siamo stupide. Eppure, te ne freghi. Non ti interessa nulla se Arthur o io e le mie sorelle dovremo pagare cara la tua permanenza qui, la tua bella vacanza.»
Vell si sentì schiaffeggiata da ognuna di quelle parole. Cattive ma vere. Crude e reali.
Era conscia che nella rabbia di Bröna la verità non fosse molto lontana.
In fondo, lei stessa era andata lì per fuggire da una realtà sconvolgente, incurante delle conseguenze che quell'harem e il suo King avrebbero pagato per lei.
Era stata egoista? Sì. Tanto.
Le era fregato qualcosa di loro? No. Niente.
Non sapeva nemmeno come replicare. Era tutto così assurdamente vero che Vell si sentì improvvisamente un verme. Certo, non era lì per vivere la vita bella a sbaffo loro; però aveva ragione quando diceva che non le era importato nulla se gli fosse successo qualcosa. Non all'inizio per lo meno. Strinse gli occhi cercando di tagliarsi fuori da tutta quella situazione, fingere che quella conversazione non fosse avvenuta.
«Che fai, piangi? Cerchi di farmi compassione? Guarda che io non sono mio fratello, eh!»
«Zitta! Devi stare zitta!» sibilò a denti stretti, sentendo una rabbia sconosciuta montarle in petto. «Devi chiudere quella dannata bocca, hai capito?» Si era ritrovata a strillare senza nemmeno rendersene conto. Così forte che le pulsava la gola.
Bröna restò colpita da quelle grida ma sorrise mestamente. «Brucia, eh? Fa male la verità?»
Dalle labbra di Vell uscì un basso e prolungato ringhio, gli occhi divenuti gialli per l'insorgere della bestia scintillarono come lanterne nel buio della stanza. Le sarebbe saltata addosso lì, in quel preciso momento. Tutto pur di farla tacere. Tutto pur di mitigare quel senso di colpa che aveva ignorato fino a quel momento, relegandolo in un angolo della mente, fingendo non esistesse.
Non le era fregato nulla di loro, no.
Non le era importato di Arthur, né delle ragazze. Di nessuno.
Le era importato solo di se stessa, della sua libertà, della sua salvezza.
Probabilmente se avesse trovato persone meno degne, più scortesi, meno cordiali o generose; forse si sarebbe sentita meno colpevole, meno sporca.
E invece il destino aveva voluto che incontrasse quel King e quell'harem così belli e gentili, così ben disposti e affabili.
Ringhiò ancora, il corpo attraversato da fremiti, la bestia scalpitante sotto pelle. La sentiva muoversi tra i muscoli, pronta a uscire e zittire una volta tanto chi la vessava.
Dakota apparve sul ciglio della porta proprio in quell'istante, bussando contro il legno per attirare l'attenzione. Quando le due leonesse si voltarono per guardarla, nei loro occhi c'era una scintilla che non le piacque affatto. Vell sembrava essere appena tornata normale e Bröna era sul punto di una crisi isterica. Non disse nulla ma sarebbe stata molto più attenta a non lasciarle sole altre volte. «Volevo darvi la buonanotte, credo che andrò a letto.» Con quella frase sperò di stemperare l'atmosfera e magari trascinarsi con sé una delle due.
Bröna infatti lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e sospirò. «Credo che ti raggiungerò anch'io, Daki.»
Fu un sollievo per l'altra vedere che Bröna si accingeva a seguirla, la seguì con lo sguardo mentre usciva dalla stanza e si dirigeva verso la propria camera in solitudine. L'avrebbe raggiunta dopo, per accertarsi che fosse tutto a posto. Prima di andarsene, però, scoccò un'occhiata a Vell e la lasciò con un ultimo consiglio: «Valuta bene le tue scelte, Vell. Impara a riconoscere gli amici dai nemici. I modi di Bröna sono come sempre discutibili ma non c'è alcun bisogno che menti perfino a te stessa. Quando sei arrivata qui era palese il tuo disinteresse nei nostri confronti. Ciò che più t'importava era la tua sopravvivenza e la tua salvezza... e ci sta. È giusto così. Ma ora... ora è ancora così?» Fece una breve pausa, sorrise dolcemente. «Ricorda che qui potresti aver davvero trovato una casa e una famiglia pronte a prendersi cura di te, a guarire le tue ferite... gente che ti rispetta e ti protegge non per pietà... ma per amore. Gente disposta a combattere le tue battaglie, a non lasciarti sola.»
Vell fu attraversata da un fremito, la bestia scivolò nelle profondità del suo cuore, si annidò come un cucciolo spaventato, restò lì ferma e uggiolante di dolore. C'era ancora tanto da lavorare su se stessa, ancora tanto da smussare e migliorare che nemmeno sapeva da dove partire.
Annuì silenziosamente e accennò un sorriso che Dakota prese per un tacito assenso. Aveva capito. Aveva capito che lì aveva tutte le porte aperte, perfino quelle dei loro cuori.
«Allora ti auguro la buonanotte, Vell. E se incroci Arthur prima che lo faccia io... digli pure che domattina i suoi appuntamenti sono stati cancellati.»
Si dileguò così, lasciandole una sensazione dolceamara in bocca e una sentore di sconforto.
Era stanca. Stanca di se stessa e di come le veniva difficile affrontare la vita. Si sentiva una bambina alle prese con un mondo nuovo. Voleva affondare il viso tra le mani e scoppiare a piangere fino a esaurirsi ma lo stomaco brontolò ricordandole che non aveva cenato quella sera, così scese in cucina, sperando fosse vuota.
Quando giungeva sera, villa King si spogliava di ogni risata e diventava un posto silenzioso, a volte troppo per tutti i pensieri che affollavano la mente di Vell.
La leonessa sospirò girando l'angolo e prima ancora di mettere piede in cucina sentì un vociare femminile. Si fece coraggio prima di entrare, sperando che tra quelle voci non ci fosse anche Bröna. Non era pronta a un nuovo round di insulti e verità scomode.
«E quindi gli ho dato un pugno!» finì Naomi, mimando il gesto. Era tutta trafelata ed elettrizzata mentre stava raccontando un aneddoto successo qualche giorno prima. Vell lo aveva già sentito e doveva ammettere di aver riso all'idea della leonessa che prendeva a pugni un istruttore di judo dalle mani troppo lunghe. Umano per giunta.
Non era certa di quale fosse stata la reazione di Arthur ma era sicura che Naomi riuscisse a cavarsela benissimo anche da sola.
«Ehi, Vell... ma lo sai che il tipo del judo oggi mi ha chiesto scusa davanti a tutti?» berciò Naomi, rendendola improvvisamente partecipe dei loro discorsi. «Prima mi tocca il culo e poi si scusa, il verme.»
L'altra non riuscì a fare a meno di sorridere. «E tu?» domandò, curiosa. Quella stretta nello stomaco le si allentò piano piano mentre si avvicinava al bancone. Allungando una mano pizzicò dal piatto di patatine di Phoebe e si mise a sedere, pronta a fare una ricca scorta di chiacchiere. Ne aveva proprio bisogno.
Dakota aveva ragione: all'inizio era entrata fregandosene di loro, ora non più.
Ora le erano entrate dentro, si erano incastrate e incagliate in quel suo cuore arido. Un cuore ricucito e rattoppato, mai usato veramente ma già pieno di lividi e cicatrici.
«E io l'ho mandato a fanculo. Così forte che le vecchie di pilates per poco non hanno perso i loro ultimi anni di vita.»
Tutte e tre scoppiarono a ridere. Phoebe si strinse la pancia con le mani, asciugandosi le lacrime con il bordo della manica. «Sei una vera stronza.»
«Io? Tenesse le mani a posto quel coso brutto.»
Risero ancora.
«Vedo che qui vi state divertendo anche senza di me, eh?» La voce di Arthur arrivò alle loro spalle, si voltarono tutte e tre in contemporanea, gli occhi luccicanti di lacrime e le gote arrossate. Arthur era appoggiato scompostamente allo stipite della porta, armeggiava con la cravatta cercando di districare il nodo che si era stretto così tanto da soffocarlo.
Naomi saltò giù dallo sgabello quasi di slancio e lo raggiunse sghignazzando. «Non sei capace nemmeno a togliertela, ragazzino?»
Lui le fece la lingua. «Si è annodata, stronza.»
Le dita di Naomi scivolarono sul tessuto della cravatta, la strinsero con forza tirandolo in basso, verso di sé. «Se vuoi che ti liberi... devi darmi un bacio.»
Arthur roteò gli occhi al cielo. «Devo? È un obbligo? Potrei sempre tagliarla... non mi piace nemmeno il colore, sai...» borbottò, fingendo di fare il prezioso. In realtà già pregustava la sua bocca.
La leonessa ringhiò, allungandosi sulle punte e prendendosi quel bacio prima che il proprio Erus potesse controbattere di nuovo. Lo aveva aspettato per tutto il giorno e gli era mancato come può mancare l'aria. Quando non lo vedeva così a lungo sentiva il cuore stringersi fino a toglierle il respiro. A volte si sentiva consumata da quell'amore così incontrollato, altre volte lasciava che facesse il suo corso, che la travolgesse come un treno in corsa e la trascinasse ovunque.
Arthur cozzò contro lo stipite della porta, le mani lasciarono la cravatta andandosi a posare sui fianchi di Naomi. L'attirò a sé lasciando che sentisse l'erezione che era riuscita in un baleno a risvegliare. Le morse il labbro inferiore e rise. «Piccola indisciplinata impaziente» l'apostrofò, senza smettere di mangiare quelle labbra morbide come burro.
Ansimarono l'uno nella bocca dell'altro, divorando i reciproci sapori, giocando con le lingue, mescolando le salive come la più creativa e succulenta creazione culinaria. Quel sapore di loro era il culmine del piacere, qualcosa che andava ben oltre il cibo, ben oltre un piatto prelibato. Non c'era nulla dell'altro che non desiderassero assaggiare.
Con un vibrante e basso brontolio Naomi scese con la bocca sul collo, in una scia di baci e lingua. Leccando la pelle, assaporando ogni goccia della sua essenza, ogni vibrante pulsazione del suo pomo d'adamo che scendeva e saliva frenetico in una danza che sapeva di sesso e brama.
«Com'è andato il parto di Marr?» domandò Naomi, staccando giusto un attimo le labbra dalla gola.
«Ci sono state delle complicanze ma ringrando Iddio sta bene... e la bambina è stupenda. Amos l'ha chiamata Azzurra.»
Phoebe fece un sospiro trasognante. Tra tutte le leonesse era quella che aveva più volte palesato il desiderio di diventare madre. Arthur non escludeva questa possibilità, ma dietro alla nascita dell'erede di un King c'erano complicanze grosse e tediose di cui ancora non aveva completamente compreso gli schemi. Doveva fare ricerche, informarsi. Non voleva privare le sue femmine di questa stupenda benedizione ma non voleva nemmeno vedersi costretto a rinunciare al loro attuale equilibrio. I King solitamente figliavano solo con la Prae, la prima moglie. I figli nati al di fuori da questo disegno erano considerati alla stregua dei figli illegittimi per gli umani.
Le dita di Naomi armeggiarono con perizia liberandolo dall'impaccio della cravatta, scoprendo il collo e scendendo ad aprirgli i primi bottoni della camicia. La bocca scese famelica sulle clavicole, addentando la pelle tesa sulle ossa.
Arthur gemette, inarcandosi leggermente, socchiudendo gli occhi e prendendo l'irruenza della sua leonessa come un bentornato più energico del solito. Naomi era sempre così, molto focosa, molto rude. «Merito così tanto questi morsi oggi?»
«Più degli altri giorni» ansimò lei contro la sua pelle, leccando dove un attimo prima aveva affondato le zanne inumane. I segni dei denti già segnavano la pelle candida, un leggero rivolo di sangue scivolò infiltrandosi nella camicia. Lo leccò estasiata, eccitata.
Vell osservava quello scambio di effusioni con uno strano tumulto in petto. Si sentiva da una parte imbarazzata di assistere a tutta quella scena, dall'altra qualcosa tra le sue cosce si scaldava e la faceva ansimare. Strinse le gambe mordendosi il labbro, un respiro tremulo le uscì dalle labbra e non riuscì a distogliere lo sguardo quando anche Phoebe li raggiunse in quell'amplesso.
«E io?» pigolò la leonessa, spingendo da parte Naomi e prendendosi le attenzioni di Arthur.
Le mani del King scivolarono su entrambe, attirandole a sé, ansimando compiaciuto. Si lasciò aprire completamente la camicia e le seguì con gli occhi mentre i loro baci scendevano sempre più in giù. «Fo – forse dovremmo...» La voce gli si incrinò in gola, incastrata dal desiderio di farle sue. Si passò più volte la lingua sulle labbra, catturate un attimo dopo dalla bocca di Phoebe che cercava le sue cure.
L'idea che Vell stesse osservando quel loro scambio di effusioni lo imbarazzava ed eccitava al contempo. Era come aver uno spettatore ingordo e avido che seduto in disparte assorbiva tutto il loro piacere facendolo proprio.
Forse era un pensiero perverso, forse lo era lui stesso; eppure lo sguardo della leonessa gli bucava i vestiti tanto era intenso. Anch'essa così presa in quella intimità da non essersi accorta del proprio respiro pesante.
Ad Arthur sfuggì un gemito quando Naomi giocò con la cintura dei suoi pantaloni, aprendola e sfilandola con un sonoro schiocco, impaziente. La gettò in terra, smaniosa e inquieta. Non ce la faceva più ad aspettare. «Non pensi di doverti far perdonare per tutta l'assenza di oggi?»
Arthur borbottò qualcosa, dalla gola gli uscì un suono vibrato come le fusa di un gatto.
Era tutto così eccitante. Troppo eccitante.
Vell affondò le mani in mezzo alle ginocchia, le strinse fino a farsi male nei palmi. Sul palato sentì scivolare il corposo e denso desiderio di essere l'artefice di quelle fusa, quei gemiti così virili ed erotici.
Voleva essere lei lì, al posto di Naomi, a prendersi tutto il piacere di quell'uomo così dannatamente sensuale, pornografico.
Una mano di Arthur si insinuò sotto la maglietta di Phoebe. Vell osservò i movimenti concentrici di quelle carezze, bevve con gli occhi tutte quelle affettuosità, le sentì silenziosamente bruciare sulla propria pelle come se ne fosse protagonista. «Andiamo in camera» riuscì a dire il King mentre la mano risaliva a coppa verso il seno, lasciando scivolare le dita sotto il tessuto, strizzando con l'indice e il medio il capezzolo.
Le gambe di Phoebe cedettero un istante dopo, ritrovandosi tra le braccia di Arthur che prontamente le aveva cinto la vita. Le sorrise diverto, malizioso. Lo sguardo di chi sa perfettamente l'effetto che fa. Il volto della giovane leonessa rosso per l'imbarazzo, il labbro tediato tra i denti per mitigare l'eccesso di piacere. Lui riusciva a toccare ogni suo punto di piacere, senza alcuno sforzo. Conosceva la mappa del suo godimento.
Naomi lo attirò di nuovo a sé con un bacio, lasciò scorrere le mani sul suo petto, usando le unghie per graffiarlo, costringendolo a un gemito doloroso e pieno di animalesca brama. «Andiamo, sì» convenne a sua volta, con urgenza; poi si voltò verso Vell, la fissò inclinando leggermente la testa e accennò un sorriso dolce. «Tu, insomma... sei sicura che non vuoi venire con noi? Sarebbe stupendo se ci fossi anche tu.» Era sincera. Vell le piaceva davvero.
L'altra trasalì. Avvampò. Tra le gambe si sentì lava fusa, bollente e bagnata; dalle labbra le uscì un sospiro tremulo, quasi un lamento. Deglutì più volte, l'eccitazione la fece rabbrividire.
L'atmosfera sembrò cristallizzarsi. Arthur si tese come una corda di violino, frugò nello sguardo delle proprie leonesse e poi in quello di Vell, troppo smarrito e confuso per essere pronto a dare una risposta sicura. Non era il momento. Non voleva forzarla. E poi, non erano gli accordi.
Tra loro non funzionava così. Lo aveva messo ben in chiaro la signorina Brass: niente sesso. E a lui andava bene. Glielo aveva promesso, ed era un tipo che manteneva sempre le proprie promesse.
Con un gesto repentino si liberò dalla stretta delle sue femmine, le prese per mano attirandole verso l'uscita della cucina. «Forza... è meglio andare.»
«Ma – ma Arthur... Vell vuole... non è così, Vell?» domandò Naomi, fissando prima lui e poi la leonessa che si era improvvisamente irrigidita come un tronco su quello sgabello.
C'erano un miscuglio di emozioni contrastanti in quel esile corpo che stava lottando con tutto se stesso per restare impassibile di fronte a tutto quell'amore traboccante. Da una parte il timore di cadere in una faccenda più grossa di sé, dall'altra il desiderio di caderci per davvero.
Lo voleva e non lo voleva. Non lo sapeva più nemmeno lei. Sapeva solo che la presenza di Arthur le bruciava sulla pelle come una stufa accesa e che la sua vicinanza la scuoteva in angoli del proprio corpo che non erano mai stati tanto reattivi, tanto pronti a essere esplorati e toccati.
«La signorina Vell non ha con me quel genere di rapporto, ragazze. Non mettetela in situazioni che potrebbero in qualche modo farla sentire a disagio... forza.» La voce di Arthur fu gentile e allo stesso tempo la sembrò schiaffeggiare. Non disse nulla di scortese, nulla di inappropriato o nulla che Vell già non sapesse o non avesse deciso di sua iniziativa; eppure, fu comunque doloroso. Le fece male. Peggio delle botte.
«Mi spiace per... ecco, per tutto» aggiunse lui, riferendosi allo spettacolo di poco prima e all'indelicatezza di Naomi.
Vell scosse il capo, le labbra serrate per non vomitare fuori tutte le proprie insicurezze e i propri desideri. Cercò di sorridere. «Tu – tutto a posto, Arthur.» Era riuscita a chiamarlo per nome. Di nuovo.
Farlo la faceva sentire bene. Era un passo piccolo ma era pur sempre un passo.
Lui le rivolse un sorriso gentile, tirò indietro le ragazze, verso la porta. «Allora è meglio se... insomma, se noi andiamo. Buona notte, Vell.» Non aspettò risposta, se ne andò di tutta fretta come se avesse il diavolo alle calcagna.
«Già... buonanotte» biascicò lei al vuoto della stanza, soltanto una volta che furono spariti dalla sua vista.
Abbassò lo sguardo sulle mani e si accorse che erano strette in pugni. Allentò la presa fissando sgomenta le quattro piccole mezzelune che si erano formate nei palmi a causa delle unghie conficcate nella carne. Si stavano riempiendo di sangue e già cicatrizzando.
Nel petto le pompò una rabbia irrazionale, una gelosia sconfinata, un desiderio travolgente.
Si coprì la faccia per offuscare l'imbarazzo e quelle emozioni di cui non era degna e, finalmente, scoppiò a piangere. Forte, con ogni fibra di se stessa, disperata.
Improvvisamente si sentì sola, rifiutata, scartata. E solo in quel momento comprese le parole di Bröna. Solo allora provò pietà per il suo cuore.
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