CAPITOLO 12
Bröna si era fatta portare il pranzo nello studio di Arthur e aveva mangiato in sua compagnia lasciandosi viziare. Approfittava di questi momenti per strappare al fratello attenzioni che altrimenti non avrebbe ottenuto. Era subdolo, lo sapeva, eppure non poteva fare altrimenti.
Quando si trattava di lui, non riusciva mai a pensare lucidamente. E in fondo, in amore non esistevano vere e proprie regole da rispettare.
Pulendosi la bocca col tovagliolo posò lo sguardo sul fratello e le sfuggì un sospiro. Si sentiva sazia sotto ogni punto di vista, men che uno. L'unico che avrebbe realmente voluto placare.
«Stai male?» le domandò subito Arthur, lo sguardo allarmato e il busto proteso verso di lei. Allungò il braccio afferrandole il mento tra le dita, sollevandole il viso per osservarla con perizia quasi clinica. Certe volte si sentiva Quinn. «Sembri meno pallida di questa mattina.»
Le gote di Bröna si tinsero, felice che si fosse accorto di quel suo impercettibile miglioramento. Sapere che notava ogni più piccolo dettaglio di lei la faceva in qualche modo sentire unica, speciale. «Sì, è vero. Sto molto meglio. Per fortuna mi avete assistito rapidamente e non ho risentito troppo della crisi.» Si tocco i capelli, tesa. «Dovrò ringraziare anche le ragazze dopo... erano così preoccupate.»
Arthur sorrise. Quando vedeva Bröna gentile con le altre leonesse, un angolino del suo cuore si auspicava che le cose riuscissero a migliorare. In realtà era una mera speranza, lo sapeva, eppure non poteva far altro che continuare a sperare. Non erano così rari i lieto fine. «Brava. Ne saranno felici.» Le posò una mano sulla testa in una carezza fraterna, un po' come un padre quando elogia il figlio. «Dakota si è presa un colpo. Credevo che si sarebbe sentita male anche lei.»
Bröna rise. «Dakota è sempre troppo apprensiva con me.»
«Ti vuole molto bene.»
«Lo so. E io gliene voglio altrettanto.» Ed era vero, Bröna voleva bene a ognuna delle altre leonesse eppure in lei si animava un feroce contrasto, due sentimenti distinti che cozzavano tra loro senza tregua. Se da una parte c'era l'affetto smisurato per ragazze con cui era cresciuta, dall'altro l'amore ossessivo e possessivo per Arthur le impediva di accettare i loro ruoli. Non riusciva a sopportare che fosse alla loro mercé, così lontano da lei e dalle sue brame. Era ingorda ed egoista, ne era consapevole. Non era adatta a far parte di un harem, né vi voleva fare effettivamente parte. Sopportava quella situazione unicamente per Arthur, confidando che un giorno, prima o poi, la guardasse con occhi diversi e la scegliesse.
Solo lei. Nessun'altra. Solo loro due.
«Hai digiunato per la Signorina Brass?» domandò Arthur. Glielo doveva chiedere. Voleva sapere se a scatenare tutto questo fosse stato l'arrivo dell'altra leonessa.
Bröna distolse lo sguardo e questa fu già una mezza risposta. «In parte. Mi si era chiuso lo stomaco al pensiero che...» Scosse il capo, preferendo non terminare la frase. Non ci voleva pensare.
Arthur le prese le mani scuotendole con delicatezza per attirare la sua attenzione. «Lo sai che è una situazione momentanea. Non abbiamo alcun rapporto. Non devi turbarti per questo.» Tra lui e Vell era quasi più come un rapporto di lavoro. Inoltre, in sua presenza si sentiva stranamente in soggezione, come se dovesse sempre dimostrarle di essere all'altezza della propria carica di King e Magister.
Bröna tornò a guardarlo. Strinse la presa sulle sue mani e si allungò verso di lui. «Ogni femmina che si avvicina a te mi crea una voragine nel cuore. Non le sopporto. Non sopporto come ti toccano, come ti guardano... come ti desiderano. Il loro odore è nauseante, così pregno di eccitazione.» Fece una pausa, deglutì. «Lei non sarà diversa dalle altre. Prima o poi anche lei ti vorrà.»
Aveva imparato ad essere sincera, sia con se stessa che con Arthur. Ormai erano anni che quell'amore non era più un mistero, Bröna lo aveva abbracciato con tutta se stessa e si era promessa che avrebbe fatto di tutto pur di soddisfarlo.
Portandosi le mani del fratello alle labbra ne baciò le nocche, una ad una. «Io non le sopporto.»
Arthur s'irrigidì. «Ma – ma hai appena detto di voler bene alle ragazze.»
Lei sollevò le spalle con un debole cenno, si alzò in piedi. «Certo, volergli bene è una cosa... accettare che ti ronzino intorno... un'altra.» Intrecciò le dita alle sue e stringendo la presa allargò le braccia, costringendolo ad assecondare quel movimento. Approfittò dell'occasione per sedergli subito in grembo.
Arthur sobbalzò e per un attimo lo sguardo vagò alla ricerca di una via d'uscita. Se nei paraggi ci fosse stato William sicuramente gli avrebbe dato una mano. Will era sempre stato un ottimo deterrente per i comportamenti spiacevoli di Bröna. «Forse dovresti andare a riposare, non credi? Non ti sei ancora del tutto ristabilita.»
«Oh, no.» Bröna si mosse strofinando il sedere contro le sue cosce, tacitamente si beò di quella posizione e provò un misto di imbarazzo ed eccitazione. «Sto molto meglio. Molto, molto meglio. Soprattutto qui, in braccio a te.»
Arthur cozzò contro lo schienale della poltrona, cercando di sottrarsi a quel contatto indesiderato. Era impossibile sfuggirle, stupidamente si era lasciato abbindolare ed era nuovamente caduto in una delle sue trappole. Con Bröna bisognava sempre stare attenti, mai abbassare la guardia. «Bröna... lo sai che non è sano tutto questo.» Continuare a ripeterlo non lo rendeva meno scoraggiante.
«Ah, no? E qual è il confine tra sano e malsano per noi? Siamo mannari... camminiamo sul filo del rasoio, con un piede nella nostra umanità e uno nella nostra natura selvaggia. Siamo metà uomini e metà bestie, fatti per metà di razionalità e metà di puri istinti ferini.» Gli passò una mano sul petto, allargando le dita e saggiandone la durezza dei muscoli nascosti sotto la camicia. Dalle labbra le uscì un flebile e basso ringhio, gli occhi scintillarono di giallo. La bestia rotolò sotto pelle, facendo le fusa come un gattino. Toccarlo così impunemente la eccitava. «Sai, Arthur... il tuo profumo ha sempre avuto uno strano effetto su di me.» Incastrato sotto il suo corpo, suo fratello restò immobile, senza dimenarsi. Farlo avrebbe complicato le cose. Bröna si allungò verso di lui, infrangendo il proprio petto contro il suo. I loro odori si mischiarono e per un attimo la leonessa restò imbambolata, lasciando schioccare la lingua sul palato.
Subito dopo si protese verso il suo collo. Affondò il viso nell'incavo e aspirò una boccata del suo profumo. Arthur sapeva di dopobarba maschile, bagnoschiuma al sandalo e una nota selvatica di savana. Ma in fondo, che odore ha la savana? A Bröna ricordava quelle giornate afose estive, il sudore sulla pelle che sa di salato, la scottante piccantezza delle spezie, l'avvolgente nota della notte e il corposo sapore del cioccolato amaro. Per lei Arthur era tutto questo e forse molto altro che però non sapeva descrivere.
Non ne aveva mai parlato con le altre leonesse ma era certa che anche loro lo avrebbero descritto in egual modo. Un'esplosione mista di piaceri che riusciva a tramortirti sul posto, strisciandoti sulla pelle e infilandosi nelle mutandine.
«Brö – Bröna... forse è meglio fermarci qui.» L'afferrò per le spalle cercando di spostarla ma la sorella affondò le unghie nella camicia. Gli artigli della bestia punsero la carne nascosta dalla stoffa e sul tessuto si allargò una leggera macchiolina di sangue.
Vicino a lui, la parte irrazionale e carnale di Bröna scalciava cercando appagamento.
«Zitto. Lascia che mi prenda almeno quest'attimo. Lascia placare la mia bestia» mugugnò con ancora il viso affondato nell'incavo del suo collo. Gli posò le labbra contro la pelle, aspirando il suo brivido, appropriandosene. Delicata ma carica di brama lasciò scivolare la lingua in una scia bollente, risalendo fino alla mandibola, baciandone i contorni.
Arthur rabbrividì. E non per piacere. «Bröna... ti prego. Cerca – cerca di...» Strinse gli occhi, cacciò quella sensazione disgustosa che gli raschiava la gola come il vomito. Se l'avesse ascoltata e assecondata sarebbe balzato in piedi lasciando la stanza seduta stante e invece, la sua razionalità lo stava costringendo a non far nulla che la potesse ferire più di quanto già non fosse.
Non aveva dimenticato il giorno in cui un suo netto rifiuto l'aveva portata quasi al suicidio. Dakota l'aveva trovata nel bagno in una pozza di sangue. Da quel giorno Arthur era stato molto più cauto e inevitabilmente più accondiscendente.
«La tua pelle brucia. Mi corrode le labbra, consuma i miei baci.» L'alito caldo di Bröna gli solleticò l'orecchio. D'istinto Arthur girò la testa, cercando di sottrarsi al suo tocco. «Più te ne do, più te ne vorrei dare. Il tuo odore, il tuo corpo... è come un richiamo, un doloroso richiamo.» La mano scivolò sul petto fino ai pantaloni, esitò un attimo prima di accarezzargli tra le gambe. Niente erezione, nessun accenno di eccitamento.
Arthur sobbalzò sul posto proprio mentre un cigolio spezzava quel silenzio assordante, fatto di sentimenti impossibili da incastrare tra loro.
Qualcuno si schiarì la gola con un colpo di tosse. «Oddio... sto per vomitare.»
Bröna s'irrigidì, mollò la presa sul fratello e si girò con gli occhi assottigliati in una crudele fessura di puro odio. Non solo era stata interrotta in un momento tanto piacevole ma quella voce era tra quelle che più disprezzava. «Guarda, guarda chi c'è» disse con voce gelida, fissando l'intruso con sprezzo.
Duba sorrise. «Ciao anche a te, Brownie.»
Gli occhi di Bröna divennero gialli per un istante, il viso paonazzo di rabbia. Odiava quando Duba le storpiava il nome, anzi, odiava Duba a prescindere. «Che diavolo sei venuto a fare qui?»
«Non certo a vederti pomiciare con tuo fratello. Fratello... ricordi?»
«Và al diavolo, stronzo.»
«Ti voglio bene anche io, Browser.»
Bröna si alzò di scatto da Arthur, serrando i pugni fino a farsi sbiancare le nocche e sbuffando rumorosamente dalle narici. Se il suo corpo debilitato non fosse stato tanto fragile, forse gli starebbe già saltata addosso con le peggiori intenzioni. «Mi chiamo Bröna, stupido idiota minorato. Lo capisci il mio nome o è troppo complicato per il tuo cervellino sottosviluppato?» Si era messa a gridare. Non sapeva bene come ma Duba riusciva a far uscire il peggio di lei. Lo aveva raggiunto come una furia, piazzandosi sotto il suo naso con le braccia sui fianchi e lo sguardo fiammeggiante d'odio. «B.R.Ö.N.A. Vedi di ficcartelo bene in mente, razza di idiota. B.R.Ö.N.A... capito?» Scandì il suo nome battendogli con forza l'indice sul petto ad ogni lettera e grugnì furiosamente, esasperata.
«Ho capito, ho capito, Brooklyn... non ti agitare. Ricordo perfettamente come ti chiami, vedi?»
Bröna lanciò un grido rabbioso e girando i tacchi incenerì con un'occhiata il fratello. «E tu non gli dici niente?»
«Avanti, Brö... lo sai che scherza. Ormai dovresti saperlo.» In realtà era divertente. Non glielo avrebbe detto sennò si sarebbe scatenato un putiferio ma era decisamente divertente.
Sul viso della leonessa balenò un'espressione demoniaca, per un attimo i due mannari temettero che sarebbe esplosa come una bomba antiuomo e invece girò i tacchi e si avviò vero l'uscita. «Me ne vado» sibilò a denti stretti, cercando di trattenersi.
«Come? Te ne vai già, Brooke?»
Bröna si voltò solo un attimo per fulminarlo con lo sguardo. «Crepa, stronzo.»
Duba accusò il colpo con una smorfia, portandosi al petto una mano. «Crepa? Addirittura? Ehi... mi odi ancora per quella storia dell'albero? Avevo solo nove anni... non lo sapevo che fosse scortese appenderti a testa in giù» le gridò dietro. Lei in tutta risposta gli mostrò il dito medio e uscì dalla stanza con un diavolo per capello.
La porta si richiuse con un tonfo e sebbene fosse in un'altra stanza la si sentì imprecare poco elegantemente.
Duba sghignazzò sfilando una sigaretta dal pacchetto e dopo averla accesa ne aspirò una grossa boccata. «Credo che tua sorella mi odi» concluse.
Arthur non poté fare a meno di ridere. Era stata una fortuna il suo arrivo. «Bé, in fondo sei stato il suo incubo da bambino.»
L'altro si lasciò cadere sul divano di fronte all'amico e sorrise. «Lei era seccante. Piccola e seccante. Voleva sempre giocare con noi e starti appiccicata» borbottò in sua difesa.
«Aveva solo quattro anni.»
«Ne meritava già quattro di galera.»
Si scambiarono una lunga occhiata prima di scoppiar a ridere di gusto. Arthur si allungò sferrandogli una pacca nello stomaco che lo fece tossire. «Sei un coglione... è mia sorella in fondo.»
«Certo. Tua sorella svitata come un tappo. Sin da piccola aveva dato accenni di insanità... forse appenderla a testa in giù a quell'albero deve avergli dato il colpo finale.»
«Guarda che ti sento, stronzo!» gridò lei, nella stanza accanto.
Arthur si coprì la bocca soffocando una risata, gli occhi bagnati di lacrime per lo sforzo. In un attimo Duba aveva spazzato via tutti quei sentimenti spiacevoli e ripugnanti. Era sempre stato così, sin da quando erano bambini. Duba riusciva sempre a strapparlo dalle sue sofferenze con un sorriso. Era il suo più caro amico, la sua cura più efficace.
«Ma sentila... origlia anche la maniaca.» Aspirò altro fumo. «Attento a non ritrovarti delle telecamere nel cesso, bello.»
Con un sorriso ancora trattenuto sulle labbra, King si rilassò contro lo schienale della poltrona e sospirò. Era felice di vederlo lì, non veniva più molto spesso alla Villa come quand'erano bambini. «Smetti di farle i dispetti, lo sai che si agita... ma dimmi, tu... per quale motivo sei qui?»
L'altro fece spallucce. «Ero venuto a vedere se eri ancora vivo. Sai, mi preoccupo per te... siamo best friend in fondo, no?» Arthur rise. «Comunque sei uno sfigato, fratello. Io e Cole è oltre un mese che non ti vediamo mettere piede in palestra.»
«Avete ragione, ragazzi... ma ho avuto da fare.»
«Ah, già. Ora sei diventato sto gran cazzo del Magister e non hai più tempo per i tuoi amici.»
Arthur rise. «Eddai, lo sai che ci vorrei venire. Mi manca fare boxe con voi. A proposito... Cole come sta? L'altra sera a cena non c'era.»
«Sta una favola, come me d'altronde.»
«Lo dici perché siete gemelli omozigoti o perché improvvisamente è diventato anche lui idiota?» Nonostante Cole e Duba fossero gemelli, Arthur aveva sviluppato con ognuno di loro un rapporto totalmente differente. Se Duba era il suo migliore amico e compagno di merende, Cole era il confidente pacato con cui sfogarsi qualora ci fosse un problema. Tanto uguali di aspetto quanto opposti di carattere.
Per riportarlo presente Duba gli sferrò uno sberlotto in piena fronte. Risero. «Mi sta trascurando, bello mio... mi sta trascurando. Capisci? Trascura me... me, la sua dolce metà. Ha una tipa per le mani e si sa come funzionano i Baine.»
«Oh, sì... so bene come funzionate» rispose Arthur sghignazzando.
«In fondo siamo uomini semplici... ci bastano due tette e-»
L'altro gli tappò la bocca con la mano. «Non voglio immaginare nulla che mi renderebbe impotente per i prossimi anni a venire.»
Sgusciando lontano dalla sua presa, Duba si liberò dall'amico. Si passò una mano nei capelli e lo guardò con malizia. «Ma zitto, fratello. Ce l'avessi tu come lo abbiamo noi... ti stimeresti. Anzi, nemmeno sapresti come usarlo, ci scommetto.»
Arthur sollevò gli occhi al cielo e scosse la testa. «Avevamo tredici anni. Sono cresciuto. Non esserne così certo di essere ancora il più dotato.»
«Ah, no? Dici?» La tigre mannara strinse la sigaretta tra i denti e ghignò. Nel suo sguardo si lesse l'ombra di un pensiero subdolo. «Sei serio Mr.King? Forza allora.. giù le braghe. Mostrami i tuoi gioielli, bello.»
Il volto di Arthur si accese di un rosso vivo. Si agitò sulla poltrona come se gli avessero infilato una serpe nelle vesti e scosse il capo. «Ma che diavolo dici? Figurati se te lo faccio vedere adesso, pazzo.»
Senza preavviso Duba si slanciò verso l'amico, lo agguantò passandogli un braccio attorno al collo, immobilizzandolo sulla poltroncina. Iniziò subito ad armeggiare con i bottoni dei suoi pantaloni, suscitando l'agitazione dell'altro. «Adesso me lo fai vedere. Forza. Tira fuori il cazzo, Mr.King.»
Cercando di divincolarsi i due scivolarono in ginocchio per terra. Intrecciati in una morsa fatta di forza e determinazione. In quella occasione perdere era rischioso. «David!David, aiuto!» iniziò a gridare Arthur, cercando di liberarsi dalla presa di Duba. «Aiuto! David! Aiuto!»
«Tira fuori quel maledetto cazzo, King! Misuriamoli, forza. Non vorrai lanciare il sasso e poi nascondere la mano, vero?» Duba sembrava non darsi per vinto, nonostante l'amico si sforzasse di contrastarlo con ogni mezzo in suo potere. Aveva ancora qualche mossa di sottomissione come asso nella manica, questa volta il leone mannaro non sarebbe riuscito a sfuggirgli.
Caddero sul pavimento e David accorse trafelato proprio mentre rotolavano aggrovigliati in una ammasso di gambe, braccia e pugni. Era come se improvvisamente fossero tornati bambini. Dispetti e botte erano all'ordine del giorno quando nella vita non c'erano altre preoccupazioni di cui farsi carico. «Si – Signori... ecco... voi – voi... avete quasi trent'anni, vorrei ricordarvelo. O - ormai siete adulti... credo.»
Si staccarono l'uno dall'altro ansimando e Arthur gli rifilò un ultimo pugno nello stomaco prima di agguantare la poltrona e trascinarsi a sedere sopra. Parlò col fiatone: «La prossima volta che me lo chiedi te lo sbatto in testa tipo mazza da baseball.»
«Vuoi giocare ancora a spadaccino come quando avevamo tredici anni?»
Arthur si coprì la faccia con una mano. «Perché devi dire cose tanto imbarazzanti?»
«Che c'è di male se da ragazzini usavamo i peni come spade?»
David avvampò e si schiarì la gola con un colpo di tosse. «Si – signori, vi prego... contenetevi, non siamo soli.»
I due si voltarono ancora trafelati e solo in quell'istante videro Vell immobile in un angolo, il viso paonazzo e i denti impiantati nel labbro per non scoppiare a ridere.
Sembrava turbata e al contempo divertita. Essere spettatrice di un gioco tanto intimo quanto tipico di due amici maschi l'aveva colta di sorpresa.
La presenza di Vell fu come un campanello d'allarme nel cervello del Magister. Arthur si sentì andare a fuoco dall'imbarazzo. Cercò di ridarsi un contegno ma fu del tutto inutile. «E – ecco.. è tutta colpa sua» farfugliò.
«Mia? Col cazzo, bello.» Ancora seduto in terra, la tigre gli colpì giocosamente con un calcio il piede. «Sei tu che ti pavoneggi e poi non mostri la mercanzia.»
«Zitto o vengo in palestra solo per rovinarti sul ring.»
«Oddio, tremo di paura» lo motteggiò Duba, fingendosi spaventato. «Piuttosto... lei chi è?» Con l'indice indicò Vell, ancora scossa e con la faccia rossa. Era rimasta paralizzata in un angolo e da lì non si era più mossa.
«Vell Brass, una nuova ospite di questa villa» la presentò subito Arthur e questo fece arrossire nuovamente la giovane che immediatamente chinò il capo in quello che doveva essere un mezzo inchino. Ancora non era abituata a essere presentata, ogni volta che sentiva il proprio nome qualcosa le si agitava in petto.
«Pia – piacere.»
«È vero che Arthur ce l'ha enorme?» domandò Duba di getto.
«Ma – ma che diavolo di domande fai?» squittì Arthur, afferrandolo da terra e lanciandolo sul divano con l'utilizzo di un pizzico di forza sovrannaturale. L'altro atterò con un tonfo e grugnendo si massaggiò la schiena.
«Ma se è nel tuo harem lo saprà, no?»
Vell si stropicciò un lembo della maglia, pensando se fosse il caso di rispondere o lasciare che Arthur se la cavasse da solo. Le parole uscirono di getto, forse più per mettere in chiaro certe cose e non creare fraintendimenti. «E – ecco io... io e il Signor Arthur non – non abbiamo quel genere di rapporto.»
«Sei proprio gay» lo apostrofò Duba.
«Ora ti spacco il muso.» Afferrandolo per il giacchetto in pelle lo scosse con furia, gli rifilò alcuni pugni tra le costole prima di lasciare la presa e guardarlo ansimare con soddisfazione. Se Vell non fosse stata presente forse gliel'avrebbe fatta pagare con qualche altro colpo ben assestato.
«Signori! Vi prego! Signori!» cercò di calmarli David. «Sembrate dei bambini capricciosi... vi prego, Signori!» Era esasperato. Occuparsi dei figli del suo primo King era molto più faticoso di quanto avrebbe immaginato.
Proprio in quel momento il cellulare squillò a entrambi e tutti e due risposero in contemporanea.
Rimasero zitti un attimo, richiusero la chiamata e si fissarono sgomenti. «A Marlene si sono rotte le acque» dissero all'unisono, scattando in piedi e correndo verso l'uscita.
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