1- Il funerale*


"Finalmente un momento di pace"

Era la sola cosa a cui pensava Artemide nel momento in cui riuscì a sedersi sulla sedia nell'angolo più buio della stanza.

La musica di sottofondo proposta dal grande monitor domotico iniziava a darle sui nervi. Così come tutti coloro che l'avevano abbracciata e invitata a un brindisi commemorativo. Sentiva la testa pesante, le mancava il respiro.

Poco lontano dal tavolo allestito per gli ospiti, aveva trovato quella sedia così comoda e lontana da tutto. Era stanca. Sfinita.

I capelli lunghi e lisci come seta le caddero sulle spalle non appena prese posto sulla seggiola, creando una cortina sottile che la distanziò da tutti i presenti. Aveva lo sguardo basso. La testa pesante e gli occhi gonfi che riuscirono a trovare serenità in quell'angolo tranquillo. Poté smettere di guardarsi intorno e tentare di ricordare a chi appartenessero quei volti distorti dal pianto e dal dolore della perdita. Volti che non sarebbe riuscita a ricordare nemmeno da sobria. Eppure tutti le avevano porto le condoglianze, tutti l'avevano quantomeno salutata o espresso un cenno di solidarietà e comprensione, come se la prima protagonista di questa perdita fosse veramente lei e non sua madre. Susanna, la mamma di Artemide, aveva da poco perso sua madre dopo una breve e fulminea malattia. Ciononostante sembrava che fosse Artemide stessa ad aver perso un genitore, non Susanna. Questo ella non lo capiva.

Lei e suo fratello erano spesso affidati alle cure della nonna. Due gemelli erano difficili da gestire, e lei si era sempre resa disponibile per la figlia e il genero. Erano la sua famiglia e non si sarebbe mai sottratta. Artemide lo aveva sempre sentito questo senso del dovere, che non era affetto nei suoi confronti, ma devozione assoluta per la figlia e per l'istituzione granitica della famiglia. Chissà perché tutti pensavano che sarebbe stata lei quella senza più punti di riferimento ora che la nonna non c'era più, anziché sua madre. 

Il dolore di Susanna era palpabile, i suoi occhi rossi e languidi non smettevano di produrre lacrime. Sua madre era sempre stata una donna misurata, non le appartenevano le manifestazioni pubbliche dei sentimenti. Le pareva strano vederla abbracciare tutte quelle persone. Artemide si stava chiedendo come potesse ancora non essersi disidratata. Ma l'attenzione era tutta su di lei e non riusciva a sopportarlo.

Quell'angolo in penombra le regalava qualche momento di calma, così, tenendo lo sguardo fisso sulle sue cosce, osservava i pantaloni come attraverso una lente. I pensieri furono catturati improvvisamente dalla trama dei jeans scuri e attillati che indossava. Osservava quei fili intrecciati, trama e ordito, che creavano la stoffa così comune eppure così particolare. Immaginava il telaio che lo aveva tessuto, i rumori ritmici ed assordanti delle battute, le navette che scorrevano, il rotolo che si formava ai piedi della grossa struttura in acciaio. Ipotizzava gli operai che tagliavano e cucivano, lavavano, stiravano e controllavano che tutto fosse perfetto. Chissà chi li aveva fatti quei jeans neri.

Tutti avevano un ruolo in quel processo, tutti sapevano cosa avrebbero dovuto fare con l'obiettivo di costruire quei pantaloni, ma lei? Lei che funzione aveva? Perché era lì? Cosa l'aveva condotta nella sua vita a essere lì in quel momento? Erano domande che le facevano esplodere la testa, pensieri che come una spirale viscida e densa si inserivano negli anfratti del suo cervello rendendola un mero pezzo di carne, senza scopo.

Sua nonna conosceva tutti questi processi produttivi, lei era stata parte del processo, aveva un ruolo, uno scopo. Alimentata da uno spirito divulgativo, la nonna tentava di coinvolgerla sempre nei suoi racconti didascalici, privi di quel sentimento affettuoso delle nonne, il suo intento era quello di farle conoscere la realtà della vita, e che tutto non era semplice e facile. Così come non era semplice e facile il loro rapporto. Forse Artemide avrebbe dovuto tessere quella relazione, non aspettarsi il prodotto finito e basta. Sentiva che aveva perso tempo, tutti i suoi diciassette anni lasciati andare per qualcosa che stava prendendo la forma di un capriccio, di una pretesa sterile. Forse avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione quando ai pranzi di famiglia riportava alla memoria i suoi viaggi e le sue esperienze. Tuttavia il tono di rimprovero che assumeva sempre alla fine di quei racconti, le raschiava ancora il cuore, si arrampicava nella gola e cercava solo la via d'uscita di una voce che non arrivava mai.

D'un tratto Artemide si rese conto che era proprio quella la misura dell'affetto dell'anziana defunta: la capacità di fare le cose. Una trappola mentale, forse nemmeno voluta, che la costringeva a cercare sempre l'approvazione della donna che l'aveva cresciuta. Fatiche intense per ottenere vaghi riconoscimenti che perdevano valore al confronto con "i suoi tempi".

Così era cresciuta Artemide, con queste dosi di incapacità iniettate di giorno in giorno, almeno fino alla fine delle medie, a quattordici anni. Anche in quell'occasione sua nonna non aveva mancato di sottolineare quanto quattro anni di scuole medie risultassero una presa in giro, e che se lo Stato aveva preso questa decisione era perché i giovani avevano perso la capacità di apprendere ed erano svogliati e distratti. Tutte queste eco nella sua testa le riempivano gli occhi di tristezza, partita tutta da un paio di jeans neri.

Cercava distrazioni, di non pensare alla defunta parente, e il suo sguardo non poteva che vagare su sé stessa, nel tentativo di rifuggire le occhiate piene di compassione di persone semi sconosciute. I jeans non l'avevano aiutata. Nemmeno il pendaglio di ossidiana era d'aiuto. Esso si appoggiava al suo ombelico coperto da una leggera t-shirt nera con lo scollo a "V", che dalla sua prospettiva - fortunatamente solo sua - lasciava intravvedere i piccoli seni raccolti nel reggiseno di pizzo nero. E poi la giacca. Forse per questo credevano che tra lei e la nonna ci fosse un bel legame. Quella era la giacca vintage di sua nonna. Agli occhi di molti poteva sembrare un dono ed invece era un semplice prestito, forse un furto. L'aveva rubata dall'appendi abiti di sua nonna il giorno della sua morte. Ebbe un brivido, quando l'anziana passò.

Ricordò sua nonna in quella casa, nel suo grande letto post moderno, con Susanna al capezzale che le teneva la mano e piangeva. Le diceva quanto le avesse voluto bene e che non l'avrebbe mai dimenticata, che era stata una grande mamma, una nonna eccellente, una suocera dolce e premurosa. Ettore, il padre di Artemide, era in piedi dietro di lei e il fratello al lato opposto, con un'espressione imperscrutabile. Quando la nonna poggiò la testa sul cuscino e si lasciò andare, spirando l'ultimo alito di vita, fu allora. Artemide trasalì. Sentì un brivido lungo la schiena, un improvviso vuoto alla bocca dello stomaco, ed un senso di vertigine tremendo, come se fosse lei a librarsi verso l'alto, a staccarsi dal suolo per volare verso il cielo. Ebbe freddo. Sentì che il mondo si era privato dello spirito dell'anziana donna, sentì la sua assenza, sentì il vuoto che nessuno avrebbe mai colmato.

Allungò il braccio e prese la prima cosa che le capitò in mano. Una giacca nera, revérs grandi, spalle piccole, fodera lucente e liscia, la sentiva bene sulla pelle, e il suo profumo. Si strinse in quella giacca a doppio petto, tentando di capire cosa stava succedendo in quel momento. Il pianto disperato della madre, che aveva raggiunto i singhiozzi, la rassegnazione del volto di suo padre e la fermezza di Achille. I capelli le scesero sul viso, li spostò come catturandoli con una morsa un solo gesto della mano. Voleva vederlo bene quel momento. Ma anche se la visuale fosse stata più chiara, ciò che le stava accadendo non lo era.

Sentì nuovamente il vuoto nello stomaco, che le dava angoscia. Dovette andarsene. Era sicura che la sua presenza non fosse fondamentale. Quindi girò su sé stessa ed imboccò la porta che le stava alle spalle. Uscì nel corridoio, lastricato in marmo bianco, quando arrivò alla porta d'ingresso era già al telefono con Vittoria, la sua migliore amica, e la giacca le rimase addosso.

Scrollò di dosso quei pensieri rivolgendosi di nuovo a se stessa, si chiese chi potrebbe mai pensare a quale collana indossare al funerale della nonna? Rimuginò tra sé e sé. Tentò di ricordare i pensieri del mattino, di fare un viaggio a ritroso su come fosse stato il suo risveglio, ma era così appesantita che faceva fatica a ricordare e il pulsare intenso e doloroso della sua testa non aiutava affatto.

In quell'angolo buio, tentando di riprendersi dallo sconquasso, inalando una grossa boccata di aria, incrociò lo sguardo di Vittoria, che la osservava preoccupata con un pizzico di rimprovero negli occhi, poco distante, di spalle c'era lui. Lo sguardo dell'amica le accese la scintilla e crogiolarsi nel ricordo di quei due giorni poteva solo che essere rigenerante.

Angolo autrice

Finalmente ho revisionato il capitolo, spero di non aver fatto danni ai meravigliosi commenti che erano presenti a margine del paragrafo, che sono stati utili per questa revisione e per la mia autostima.

A presto

O.D.

Aggiornamento del 5 novembre 2023

Questa nuova versione vorrebbe scavare maggiormente nel rapporto di Artemide con la nonna, perché anche se non sarà viva accanto a lei, sarà una grande presenza.

Ci leggiamo in giro

O.D.

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